Carlo Fei  
 Carlo Fei, Carlo, particolare  
Alessandro Sarri  
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La pratica fotografica di Carlo Fei cerca di indagare da sempre il consustanziale paradosso che sta alla base di ogni concetto o forse meglio precetto fotografico che intenda porsi sulla strada impervia di una tassonomia di un portato teorico ( e non solo come vedremo) che non riuscirà mai ad avere a che fare con se stesso. Infatti il ‘figurale fotografico’ nell’accezione datane dell’artista attraverso la riflessione di Lyotard sviluppata in Discorso, Figura, porta con sé l’impossibilità di una definizione atta a disinnescare ciò che di sé non saprà mai di essere.
Questa impossibilità del ‘pensiero fotografico’ non potrà mai anticiparsi né attraverso un aggettare in eccesso, né ritardarsi attraverso una regressione in difetto, ovvero né attraverso una teleologia centripeta, immanentistica, concezione che si ripiegherebbe immancabilmente su ciò che questo concetto suggerisce attraverso tutto ciò che non dice, né attraverso una teleologia centrifuga, parassitaria, concezione che si condensasse arbitrariamente su ciò che questo concetto deve dire attraverso tutto ciò che non può suggerire. Due concezioni, come dice efficacemente Rella, “in tentazione”, una per via di levare e una per via di porre che mal si adattano a questa soglia d’interdizione ‘in atto sul suo atto’, che toglie di mezzo la sua presumibilità d’apparizione rimanendoci assolutamente infitto.
Infatti il figurale esposto in questi lavori enuclea, a differenza delle due occorrenze di cui dicevamo, un tentativo, per così dire di ‘compromissione plastica’, di ‘connivenza imagoica’ che si smarca da sempre dalla sua potenza d’effetto, da quella potenza che fa sì che qualcosa appaia perché qualcosa è apparso per scomparire, pur senza causa e in perfetta casualità.
Se, come indica Sini, l’azione del movimento è “una soglia duplicante che scandisce il qui e il là: un esser qui per là e un esser là per qui”, in una sorta di individuazione per traslazione, totalmente correlativa, nel caso del figurale potremmo invece avere a che fare con un topos primigenio che, come dire, (rin)tocca per sempre nella posizione definitiva che lo fa consistere laddove è sempre stato, e cioè, usando sempre le parole di Sini, “né qui né là”, in una rivelazione inanimante ( con questo termine intendo quello che si potrebbe definire ‘un’immobilità dinamica, ad un tempo cioè ‘immobilicida e dinamicida’).
A questo punto potremmo forse rinvenirne una pseudologia, un riverbero, in una elaborazione più precipuamente filmica, ossia nel concetto caro a Barthes di “immagine terza”.

L’immagine in questione, secondo il semiologo francese, designa insolubilmente quell’immagine che viene dopo o preesiste (ma è la stessa cosa) sia all’immagine cosiddetta muta ( ci sarebbe molto da dire su questo mutismo) dei primordi sia all’immagine sonora che da quella è presuntamente discesa. Questa terzietà dà agio ad un tipo d’immagine, dice sempre Barthes, audiovisiva, la quale, lungi da rimarcare, come del resto cercherebbe di fare l’immagine seconda, l’immagine ‘meramente’ sonora, la coincidenza di verosimiglianza perfetta tra il visivo e il sonoro, ne rintraccia le discrasie profonde, le non o false coincidenze, le faglie temporali, l’illusionismo subliminare che fanno slittare questa presunta imbricazione apparentemente senza residui, in un ritardo quintessenziale da cui è impossibile disimpegnarsi.
Di tutto questo ritardo, che, come s’immagina, non ha niente a che fare con il ritardo filologicamente situabile e registrabile, credo si faccia carico ciò che nell’operazione di Fei si potrebbe chiamare sempre ‘impropriamente’, letteralmente senza proprio o proprietà di sorta, il figurale. Questa cosa che rimane a priori nell’a posteriori più inanticipabile del fotografico.
Ma allora? Come fare ad incarnare qualcosa che resta in presenza di stesso senza nessuna frenesia d’apparizione sia pure monadico-claustrale da cui far scaturire il complotto della sua comparsa che si aspetta proprio ad una definizione, per definizione, in una rogatoria indiziale che sconta il significato del suo significante ben al di là della sua effrazione transitiva. Cosa resta di quello che significa proprio per non significare attraverso un significato?
E cosa è un’ effrazione, nel caso in questione?
Una effrazione, un significato, di più, una metafora retrogradata della sua funzione di metafora. Una metafora bloccata in un significato che non ha mai avuto tracce archeologicamente attingibili, una metafora imagoica perfettamente enucleata nella serie degli Amuleti, incagliata nel proprio voler dir niente che balbetta a vuoto il ritornello infinitamente finito della propria ottusità (in)significata. Un significato che si ostacola attraverso se stesso, impossibilitato a sciogliersi in tutto ciò che lo disassimila da tutto ciò che tale significato non può non significare. Cosa dunque? Il suo nulla in atto che si svuota nel suo tutto per ricavarsi appena-mai-nato.
Da subito sempre già nato del significato della sua impossibilità di significare che significa appunto tutto ciò che è sempre stato di sé, non riuscendo mai a terminare in un inizio. Non possiamo non notare che la presunta referenza in Fei è sempre già interdetta, staccata da sé, ovvero dal suo rimando spettrale, proprio da una sorta d’infotografabile in presenza che ostacola la propria ‘resa’ fotografica attraverso ciò che non si può sviluppare in altro, in nessuna metonimia di sorta.
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