COLPO DI STATO
S’ha da essere fatto allora meglio sarebbe farlo subito. Se l’assassinio
potesse trattenere nella sua rete tutte le conseguenze e il colpo inferto
fosse il suo principio e la fine, allora, qui, su questa bassa riva del tempo,
rinunceremmo alla vita eterna.
Carmelo Bene, Macbeth Horror Suite.
Parafrasando Giorgio Manganelli, si può fare esperienza di un tempo morto, finito, estenuato, compiuto, se proprio
questa stessa fine genera un tempo, in cui dimoriamo, che ce ne preclude l’esperienza? Si può dare un tempo che sopporta la propria morte (temporale) e in essa si trattiene ? E se è così, di quanto tempo necessita? Di quanto movimento?
Di quanta stasi? Esiste, può esistere un tempo che si esaurisce indicando la coincidenza assoluta fra la concentrazione in sé e l’esposizione fuori di sé ?
Esiste un tempo che si consuma e si sigla nell’attimo dell’attimo che illumina il proprio futuro nel compimento assoluto del proprio passato? Un tempo che non si risolve in ciò che anticipa un futuro che intanto è divenuto esso stesso passato?
Una sorta di resilienza che non si limita a invertire la mira del tempo ma a sopprimerla, come dire, appena in tempo?
Di cosa è sintomo questo tempo che non passa?
Forse di un sintomo inteso qui non come metafora o metonimia, come significante temporale che sta al posto di un significato temporale rimosso, ma come sintomo di un olotempo incarnato nella propria lettera anasemica.
Sintomo che ha preso la via contraria a quella dell’espansione ad infinitum del senso (temporale), ovvero quella della sua riduzione, della sua scarnificazione, alla ricerca dell’incontro con una contingenza – con ciò che è appunto un senso solo, il senso-sincope sempre diverso e imprevisto della propria intransigente invarianza – intesa appunto come fattore d’espulsione endogena da una circolarità onniincludente che inevitabilmente viene a configurarsi tutte le volte che si valuta il tempo come un mezzo rispetto ad un fine.
Un tempo masssivamente e transitivamente tumulato in se stesso, senza crescita o decrescita, senza aumento o diminuzione, senza sistole o diastole, senza nessuna trasgressione insomma, fattore primo di rigenerazione e quindi di stabilità, di diacronia e di teleologia. Una sorta di scacco noumenico incistato in seno alla fenomenicità dialettica, qualcosa in meno che non si può esteriorizzare, che non si lascia evacuare ma che residua, intonso, nella propria ipostasi, che produce un resto vergine, un irriducibile indice a monte, una puntualità stigmatica che conserva e trattiene qualcosa rispetto all’essere-in-perdita del tempo che è implicato nel tempo stesso, nel consistere del tempo in quanto tale. Un tempo dunque con cui il tempo stesso non può scendere a patti e a cui non si può sottrarre se non sperando di mantenerlo assopito nella manducazione cronofagica che, fra perdita e ritrovamento, si separa congiungendosi nell’inesausta elaborazione -- elisione di un lutto significante costitutivamente interminabile.
Attraverso Henri Bergson, potremmo definire questo tempo senza tempo, “quell’ in corso metatransitivamente finito in corso” di un atto in atto di un presente dello star passando che non passa mai, non il factum ma il fieri di un evento che sta sempre avendo luogo - essendo sempre già passato, in questo momento - differenziandosi proprio attraverso la propria finitezza inesauribile. Una tettonica del tempo che pare appunto sospendere e sorprendere la seconda legge della termodinamica, quella che impone - al tempo - la sorte inesorabile della propria infrangibile degradazione, attraverso una barratura d’immanenza autotelicamente situata che altro non fa che ipostatizzare lo scarto fra l’atto della sua potenza e la potenza del suo atto.
Tempo dunque senza pentimenti (anche in senso pittorico), senza alcun metabolismo mnemonico; un tempo occluso e occultato in un puro mostrare, ciò che preme rinserrato, una volta per sempre in un “pre – cordare” (Paul Celan) che non si scioglie in nessun solvente anamnesico, precedendo di fatto la possibilità strutturale di ricorrere ad una qualche sorta d’ingaggio ritenzionale.
Se tale tempo non è dunque da intendersi come un’assenza oggettiva che altrove sarebbe presenza, cos’è dunque, se è pure qualcosa, questo qualcosa che non si racconta in vista di un qualche temporeggiamento proprio attraverso un evento che coincide con il suo attuale accadere e dove l’essere (tempo) di sé è “coestensivo a quella performazione” (Jean-Luc Nancy) ?
Forse un altro del tempo che si genera nello stesso nucleo del tempo stesso e lo tiene in sé espellendolo da sé?
Il tempo che, come scrive Jean-Luc Marion, “è uscito definitivamente alla finità” mediante una fenomenicità abortita che proviene proprio dall’eccesso noumenico di cui è portatore l’atto finito che non ha tempo per il tempo? A questo punto se volessimo cercare di derubricare ciò che afferisce a questa temporalità arrestata nel fuori più intestino di sé, potremmo cercare di rinvenirla in ciò che Ernst Bloch scrive in Tracce, a proposito di ciò che lui definisce il “bada!”.
Questa ingiunzione, questa insorgenza rileva, a suo dire, una sorta d’ossificazione, d’indurimento gettato come al di qua di se stesso, una anatomizzazione tempor(e)ale che non ha in sé e per sé assolutamente (non) senso. Si tratta infatti di un atto-decubito di reale temporale così com’è, al di fuori del più dentro del tempo, una penetrazione di un’ostensione da parte di un tempo che è il suo e che in essa si trattiene.
Un reale improcrastinabilmente appropriato - partenza da sé e venuta a sé – un reale il cui unico discorso, il cui unico senso non può essere, scrive proprio a proposito di Bloch, Giampiero Comolli, che “ quello di autoindicarsi per dire: guardami! bada! sono qui, sono fatto così, io sono questo e niente più.
Ane Mette Hol After Day And Night, 2010
Non dunque un tempo rimosso ma un tempo, potremmo forse dire, solamente mosso; un tempo incipitario che, come dicevamo, non temporeggia, bloccato tra ciò che non passa in ciò che passa e viceversa, palindromicamente fissato in sé, da sé, in ciò che sta accadendo, ora, già da sempre (mai) accaduto per la prima e unica volta. Esso supera, dall’al di qua, la rete di protezione del tempo stesso, generando, sempre di nuovo per questa volta, il tempo postumo di una temporalità recisa che sopravvive nell’apnea della propria datità integralmente interrotta, come un qualcosa fatto proprio per (non) essere esperito, come accade esemplarmente in After day and night di Ane Mette Hol. Il disegno, o meglio, i monstra grafici metastatizzati dall’artista replicano, esattamente come la mappa descritta nel celebre apologo di Jorge Luis Borges, l’intera giornata di ripresa di una web cam puntata su di uno scorcio visibile all’esterno dello studio dell’artista. Qui il tempo s’annida nello st(r)ato persistente e preesistente sia al movimento che mette in moto la stasi sia all’immobilità che si arena nel movimento, ingenerando una temporalità ruminante che si espelle nel momento stesso in cui si conserva al di qua della propria denegazione-degenerazione diegetica.
In questo video il fatto di essere già fatto del tempo, termina, non fa altro che essere terminato nel processo con il quale, raggiunto il culmine d’effettuazione, quest’ultimo si commuta nel suo contrario innescando il vuoto nell’eccedenza di compiutezza ipostatica, di saturazione tautologica, detto altrimenti, il fatto di non poter più fare, non avendo, in effetti, più nulla da fare. Mantenere il tempo in tempo a tempo irreparabilmente scaduto attraverso quel gesto che - come mostra Carmelo Bene in Lorenzaccio – nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire a favore di un atto che sospende la continuità dell’essere per far essere l’essere che non è più. Tempo dunque d’inciampo che si espropria nella concentrazione che tocca la resistenza del tempo in se stesso, il suo corpo estraneo, il peso del tempo assoluto che tracima nel più interno di sé - forse ciò che ancora Nancy chiama il “ritrarsi della causa temporale”?. Il tempo in Hol firma, forma e ferma così la propria morte nel ductus infinitamente finito di una sospensione transitivamente esposta nell’intervallo assoluto che coagula un che di separato come suo, l’evento indelebile, l’irrelato puro di un hapax monumentale che passa proprio per non passare se non nello spazio chiuso di una “minaccia d’eternità” (Charles Baudelaire) in cui si modifica incessantemente senza avanzare mai.
Alejandro Moncada Circa, 2010
Esistenza esposta, senza residuo, la quale si rapporta mediante la propria possibilità - già esaurita nella propria finitezza infinita meramente a se stessa, in un aver-da-essere-sempre-stato nel quale il suo senso è sempre da darsi/farsi sempre qui, rinvenibile soltanto in rapporto all’esistenza che il proprio esserci già da sempre e insuperabilmente è. Una sorta d’economia dell’inceppamento, una specie di metaripetizione che si ravvisa nell’atto-sutura di Tango di Kathrin Sonntag e di Circa di Alejandro Moncada. Nel lavoro di Sonntag un tavolo viene apparecchiato, tovaglia, posate e bicchieri. Una volta finita l’operazione la tovaglia viene sfilata, lasciando gli oggetti al loro posto.
Nel video dell’artista messicano si assiste invece ad una specie di cerimonia dimidiata dall’atto balbuziente di una coazione a ripetere – la propria sola volta - di cui non si conosce né origine né causa. L’indizio senza movente di una conversazione a cui non abbiamo accesso sfocia, senza alcuna esfoliazione diegetica, nel lavacro celibatario di più persone che a turno si alzano da delle panchine e si gettano in un fiume mano a mano che il travelling della cinepresa li colpisce, inquadrandoli. L’atto, il rito eminentemente tautologico di questi ritornelli visivi sembra proprio ripartire il tempo pieno della singolarizzazione più esposta di sé, senza parti nascoste, illuminando proprio l’oscenità di una “primavoltità” (Giorgio Agamben) che impone l’impasse di un assoluto della presentazione che non fa che saltare nell’esistenza che manifesta solo la propria manifestazione. Si profila così ciò che resta afferrato a se stesso in una pressione cardinale di un’insistenza a luogo che scava in fuori la propria individuazione intestina che non possiede null’altro dietro di sé, lo spazio assoluto del tempo che preme e fa irrompere una massa di presente senza passato che spalanca e mummifica l’istante senza precedenti, la crepa di nulla senza niente fuori di sé che ne permetta il dispiegarsi. Il più altro della cosa stessa del proprio tempo interamente spazializzato, quel che vi è di più duro, più resistente, più irriducibile, più ottuso nella segregazione della propria presa di spazio, consegnato irreparabilmente e senza rimedio alla propria emergenza locale intesa come dischisura che svelle il già aperto di una gettatezza in cui il tempo “ tace come qualcosa di espropriato in quanto intimamente mondano” (Alfonso Cariolato). A questo punto si tratta forse di esperire a quale livello di temporalità il tempo lavora contro di sé attraverso un’evidenza muta e opprimente? Forse che questo tempo – inconscio o magari forcluso - incarna il movimento era-essere della propria impossibile flagranza attraverso cui la propria immagine, più che gettare luce sul (proprio) presente, alluma la presentificazione della (propria) gettatezza? Ciò che il movimento sarà stato una volta che sarà compiuto e sarà sparito come movimento che si sta facendo là dove non si cede tempo al tempo?
Katharina Segura Harvey Breathless, 2009
“Trasmettere un segreto come segreto rimasto segreto è trasmettere”?, si chiede Jacques Derrida. Nel video di Katharina Segura Harvey, Breathless, un uomo è caduto a terra nel proprio appartamento. Non conosciamo la causa di ciò in quanto il video inizia, nel nero, proprio nell’attimo improvviso e cieco in cui avviene la caduta già accaduta. Successivamente (e) d’un tratto, tutto ciò che è dato esperire saranno le diverse soggettive raso terra di questo attante che indugiano nei diversi angoli della casa mentre si avvicendano suoni e rumori di vicini e di persone allarmate che, dall’esterno dell’appartamento, cercano di stabilire un contatto con lui. Un evento dunque nella cui soglia non si passa mai altrove? Non tanto l’atto colto in flagrante ma il flagrante colto in atto? Un evento che, come scrive Carmelo Meazza, “ non riesce a non presentare il suo non aver niente sotto di sé? Un evento il cui limite, continua Meazza, “traccia un nulla e lo riempie di nulla proprio mentre lo svuota? Evento di un momento senza momento che espone e mostra la propria condizione di atto come mancante di ogni mancare? Un evento in cui nulla è presupposto ma solamente posto in una ipseità quintessenziale nella quale un essere-di-tempo che è già compreso in quanto non ha bisogno di essere (s)coperto si (ri)vela fuori da ogni (crono)logica di velamento? Il tempo che il tempo ci mette per essere sempre già finito nel (non) finire (mai) – non la fine del tempo ma il tempo della fine – ciò che si stira e si contrae nel cominciare a finire, interamente trascorso, nell’atto di costituirsi nel proprio annullamento conservativo? Tempo che non si può forare; nulla ne zampillerà che non rimanga inscritto nello stesso tempo che lo comprende e cioè nella presentazione che previene qualsiasi rivelazione, e che non si convertirà mai in essa. Fatto uscire dall’atto che lo tiene “disattivato attraverso il proprio compimento”, come scrive Agamben, il tempo in questione si abolisce precisamente nell’attimo in cui si conserva, tenendosi, per così dire, fermo nel compimento di una limitazione intestina che annuncia, senza fine, la gettatezza incommensurabile della propria chiusura.
George Drivas Case Study, 2007
Il fatto del tempo di essere-già-là caratterizza tutto il lavoro in pausa< di George Drivas. I cortometraggi Case Study e ClosedCircuit e il mediometraggio alphavilliano Empirical Data, enfatizzano proprio, mediante la pratica del ciné-roman, la mediatizzazione del divenire del tempo di ciò che resta all’inizio della dialettica, ciò che, come scrive sempre Nancy, “ tutta la forza della dialettica non riesce a portare con sé, a mettere in moto, ad alienare nella sua identità motrice ”. Il tempo - in questi lavori composti primariamente da pedinamenti sotto vuoto, inseguimenti palindromici, cul de sac dinamicidi che ammazzano il tempo, che intasano e tassidermizzano ogni spiraglio di svolgimento e in cui i corpi dei personaggi si gettano, per così dire, ad atto morto - non si pone solamente come qualcosa d’assoluto sempre in procinto di (non) sparire ritirato nell’aggetto recalcitrato della propria presenza, ma come l’atto stesso di porsi sempre – ex nihilo - per la prima volta, nell’abbandono cioè della propria nascita votata indefinitamente a nascere senza finirla mai di nascere in una partizione che non può essere spartita. Immagini tautologicamente incarnate o meglio, incarnite in se stesse, condannate a deambulare nell’oblio di un’escrizione irrecuperabilmente ostruita di sé la quale, continua ancora Nancy, “ non salvaguardia la riserva di una memoria recuperabile e curabile”. Come se il tempo metalacunare che le caratterizza non sapesse ritrovarsi in quanto mostra, ma vedesse se stesso prendere contatto per la prima volta con l’ultima volta che lo mostra nonostante e attraverso di sé. Pure marche, impronte acefale, iscrizioni ideogrammatiche, letteralizzate, assolutamente indecifrabili, fuori-senso, mortificate di un osso temporale che smarrisce l’immagine proprio afferrandosi all’immagine di sé, uccidendosi come immagine mediante l’immagine che lo trattiene in ciò che Freud chiama “ la pulsione dell’uno”. Una pulsione totalmente catastrofica, irriducibilmente distruttiva in cui il tempo si rileva talmente sprofondato nel disastro inorganico della propria ipostasi da non ammettere nessuna proliferazione differenziale, nessuna germinazione incontrollata atta ad espellere la sua differenza attraverso una differenza. Si profila così una sorta di sindrome astenica - per citare il titolo di un film di Kira Muratova – in cui ciò che non manca al tempo è quello che (non) stiamo vedendo mediante la sua presenza finita, inerte e sigillata nel fort/da della propria apertura irrimarginabilmente olofrastica, idiomatica in cui, per parafrasare Benjamin, il tempo si arresta in una costellazione satura di tensione e provoca un urto di forza dal quale essa si cristallizza in monade.
Il tempo-rocchetto compulsato dall’artista greco, pare proprio sopportare e supportare un’affezione, una beanza il-limitata (dove il moto assoluto è la stessa cosa della quiete), pur senza mostrare, dal punto di vista cinesico, alcuna variazione che non sia ciò lo amputa, lo localizza, lo abbandona, allo scarto del (suo) luogo a luogo, nel mysterium tremendum in cui lo svelamento si mantiene nel vulnus insostituibile dell’evidenza indistruttibile del suo enigma che tenta così di condurre a trasparenza la propria opacità cosale senza dissolverla come tale. Il rigor mortis di queste immagini divenute in presenza s’insterilisce così in una fissità automedusante in cui la certezza del proprio riconoscimento coincide con la dissoluzione che dilaga nell’invulnerabilità della pulsazione topologica in cui il tempo si dona la morte nel colpo di stato che sancisce la possibilità del suo evento dell’evento in se stesso.
|