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Scripta. L'arte a parole
Pietro Gaglianò
Conversation piece

 
Caterina SbranaCaterina Sbrana - Gabriele Mallegni - mostra A memoria di Forma


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Pietro Gaglianò

Intervista


D- Puoi parlare dei tuoi progetti irrealizzati.

R- Ce n’è uno in particolare che somma molti aspetti della mia ricerca e dei miei desideri. Si sarebbe dovuto chiamare “L’arte della conversazione” (un titolo che nel frattempo ho dato a vari saggi, laboratori, incontri) e desideravo farlo subito dopo il susseguirsi delle reclusioni sanitarie dovute al Covid: una mostra fatta solo di conversazioni, con artiste e artisti che a coppie o a piccoli gruppi parlano tra loro di estetica e di politica, o di vacanze e di fresche serate passate a bere sotto il cielo. Il materiale umano lo avevo tutto (amiche e amici) ma non ho mai trovato lo spazio adatto: una grande casa con molti salotti, poltrone, angoli intimi dove il pubblico avrebbe potuto transitare e ascoltare, senza però intervenire né “toccare le opere”.

D- Come è cominciata per te l’Arte, dagli studi in architettura, la passione per la politica…

R- La passione per l’arte mi accompagna sin dall’infanzia, ho sempre passato molto tempo a guardare i volumi illustrati della libreria di casa, sul mondo classico, sul medio evo, sul Rinascimento. L’interesse per l’arte contemporanea è sorto contestualmente a quella per una visione politica del mondo, ho capito subito che i due ambiti sono complementari e sicuramente gli studi di architettura hanno influenzato il modo di osservare lo spazio urbano, la dimensione pubblica.

D- Hai qualche attitudine al disegno?

R- Nessuna. Se ne avessi avuto almeno un po’ avrei fatto l’artista!

D- Quale il modello a cui ti sei ispirato di produzione specifico?

R- Non c’è un modello, solo una vocazione all’ascolto, all’apprendimento, alla condivisione della conoscenza. Aver studiato danza e aver lavorato molto con il teatro mi rende incline alla creazione di progetti time-based, ma questo non esclude l’attenzione per i formati della tradizione oggettuale, per la via, diciamo tradizionale, delle arti visive.

D- Qual è stato il tuo primo lavoro, pièce o performance.

R. Ricordo il primo testo, scritto per Aroldo Marinai, ma non la prima mostra. C’è però un progetto di qualche anno dopo che segna una piccola svolta nei miei interessi: Storie dai margini, era un progetto di produzione che ha coinvolto tre giovani artisti attivi a Firenze nell’indagine delle relazioni che vari gruppi marginalizzati, e silenti, creano internamente alla propria sfera di vita quotidiana.

 Loredana Longo Scripta 2024 Loredana Longo - Victory



D- Come ti sei avvicinato all’arte contemporanea?

R. Il mondo di Fluxus, di John Cage, di Maciunas, di Chiari, di Kaprow… è stata proprio questa limatura del diaframma tra arte e vita che mi ha avvicinato al contemporaneo, la lifelike art di Kaprow può essere un emblema di questo primo amore.

D- Avevi un museo immaginario, un teatro mentale da compilare?

R- È buffo ma all’origine c’è proprio un progetto per un museo. Era l’esame per un corso di progettazione, non ricordo nemmeno il professore che probabilmente era ignobile, ma ricordo bene che proposi di trasformare la “Centrale termica e cabina apparati centrali” di Santa Maria Novella in uno spazio di archiviazione e studi dell’opera di Cage, con tanto di riproduzione della scena di Theatre piece del 1952, l’embrione di tutta la Performace Art

D- Per definizione, critico d’arte e curatore indipendente. Puoi accennare alla ricerca che conduci, l’analisi dell’arte contemporanea tra il pubblico ed il privato?

R- La definizione di indipendenza in realtà è solo un’etichetta che non tiene conto del reale assetto delle relazioni nel sistema dell’arte e nella società. Siamo tutti interdipendenti, nella reciprocità, nelle influenze, nei crediti come nei debiti. La mia indipendenza è solo formale, nel senso che non ho affiliazioni a musei o fondazioni e non ho collaborazioni fisse con gallerie. Mi sembra più interessante l’autonomia, di pensiero, di visione estetica, di posizionamento politico. Quella in effetti posso permettermela proprio in quanto indipendente.

D- Sostieni che l’arte non sia una forma di intrattenimento, una distrazione ma il collante delle comunità, di un vedersi insieme ad altri.

R. Sì. L’intrattenimento è sempre manipolatorio, e spesso viene agito verticalmente e attraverso uno squilibrio di potere. L’arte, anche nelle sue manifestazioni più tradizionali (quindi ben al di qua degli slogan sulla partecipazione) ha bisogno di spettatori intelligenti, capaci di riconoscersi, anche criticamente, in quello che vedono e ascoltano. In questo riconoscimento si coniuga la costruzione di senso collettivo, orizzontalmente.

D- In che modo i processi di individuazione nelle relazioni d’arte modificano la tua persona e quella dei fruitori?

R. Forse non la modificano. Non è questo il lavoro dell’arte. Mostrano altre direzioni, indicano il possibile, affrescano divergenze.

Ulrich EggerMostra Ulrich Egger, Manifattura Tabacchi



D- Curare le mostre in gallerie e spazi per l’arte è parte rilevante della tua attività. Quale la condizione o le funzioni ancora possibili perché si definisca una “forma-esposizione”?

R. La fiducia reciproca tra artista e curatore, la conoscenza profonda del lavoro (dei tempi, dei materiali, delle ragioni), l’adeguatezza degli strumenti (logistici e finanziari), la complicità del gallerista o di chi dirige l’istituzione.

D- Esiste ancora per te “il fascino della mostra”? E’ possibile tracciare un’estetica là dove risiede?

R. Il fascino della mostra è la sua parte meno visibile. È il lavoro che c’è dietro, il tempo di concepimento della mostra, di progettazione, di allestimento. Le conversazioni con l’artista, i tentativi. Se la mostra è buona questa densità è percepibile anche al pubblico che la visita. E questa è l’unica estetica riferibile a una mostra.

D- Il testo che accompagna una mostra nella tua scrittura critica trova sempre una adesione partecipe alle vicissitudini dell’artista. Che tipo di dialogo intrattieni nelle relazioni con gli artisti?

R. Da sempre è un dialogo basato, come ho detto prima, sulla fiducia reciproca e su una conoscenza che va ben al di là dell’orizzonte dato dall’occasione della mostra. Per questo motivo tendo a lavorare più o meno sempre con artisti con cui ho una lunga relazione di amicizia: la loro poetica e le loro estetiche mi sono già familiari e la scrittura può andare in profondità, può diventare una vera osservazione critica e non una semplice speculazione o una descrizione banalizzante.

Pietro GaglianòCover libro Suzanne Lacy



D- Sostieni da tempo l’importanza della qualità della scrittura della critica d’Arte. Quali le qualità perché la lingua della critica d’arte possa esistere ed avere delle qualità formali letterarie?

R. La lingua, ritengo, è una conseguenza della conoscenza delle cose. Nomina consequentia rerum, eccetera… La lingua deve aderire al mondo che descrive ma deve anche innovarlo. E può, dovrebbe, avere uno stile proprio, una dimensione letteraria, un peso.

D- Quale il ruolo dell’immagine nella pratica artistica che la critica d’arte sonda? Si può Ipotizzare una qualche forma di resistenza alla sua sovrapproduzione, al montare del visibile – che possa esserci una resistenza, benché offuscata dalla realtà della globalizzazione?

R. All’ossessione del visibile ho dedicato un libro un po’ di anni fa (Memento, 2016). Continuo a pensare che la forma di resistenza alla sovrapproduzione dell’immagine sia l’immaginazione: opporre un atto creativo (scrivo quasi solo libri e saggi senza immagini per solleticarlo in chi legge) a una fruizione massiva e indiscriminata. Un po’ di fatica in più, un po’ di abitudine al lavoro della mente.

D- L’ambito della critica d’arte ha trovato eco nella recente attribuzione del Premio Scripta 2024. Uno dei premiati, Daniel Borselli, sostiene che ci piace pensare che la critica d’arte sia svanita che abbia esaurito funzionalità di scopi, al di là di pratiche di mimesi che possono tenerla in vita. E’ ancora possibile una critica d’arte che sonda e che può farne già un racconto – senza le conseguenze come quelle di anestetizzarla con un bon ton, di renderla un argomento di conversazione – un appunto ad opere e installazioni – che però non lasciano scampo?

R. È possibile. Ma è necessario lasciare le posizioni di sicurezza del mondo accademico, le dimensioni autoreferenziali del sistema. Una critica d’arte militante non deve per forza essere impegnata socialmente ma deve come minimo avere un chiaro posizionamento politico. Le circostanze sociali e gli orientamenti politici influenzano le esperienze dell’arte, le scelte degli autori, i contesti in cui si producono. E per poterne parlare in modo sensato è indispensabile averne contezza. E avere una posizione.

Sauer PerugiScripta 2024 Sauer Perugi, reading



D- C’è dunque una possibilità diversa, una alternativa, di una arte pubblica che sia già critica dei comportamenti... Che si tratti in primo luogo di ristabilire una contro-narrazione, con un pathos adeguato e sinestesico?

R. Si tratta in primo luogo di abbandonare, una volta per tutte, le strategie di assoggettamento e controllo che hanno caratterizzato tutta la storia dell’arte nello spazio pubblico in Europa e nel mediterraneo. L’unica arte pubblica possibile nasce dal dialogo con le comunità, dal loro ascolto, ma non deve limitarsi a descriverle o omaggiarle, deve anche metterle in discussione.

D- Puoi argomentare questa tua definizione o rimando alla funzioni dell’arte – Si tratta ancora del dimostrare il possibile – che l’arte sia in grado di produrre uno squarcio sul possibile.

R. L’arte mostra qualcosa che fino a un attimo prima della sua parusia non esisteva, o non era visibile o pensabile. La sua semplice apparizione al mondo, come presenza e non come rappresentazione, è la dimostrazione che non esistono narrazioni univoche, che l’alternativa esiste. Che il possibile può essere coltivato.

D- Scripta. 'L’arte a parole' è un formato da te inventato che oltre alla presentazione di testi collegati all’Arte promuove, produce attività le più intense e dispiegate ad un tema delineato. Si tratta di parlare della cultura del contemporaneo e veicolarla al di fuori delle strette della critica e della curatela ufficiali'.

R. La direzione presa da Scripta in questi anni, con le relazioni strette con le Case del Popolo, le forme laboratoriali, le residenze, è parte di una visione della produzione culturale che ispira molti miei progetti. Da anni mi occupo di pedagogie radicali negli spazi non convenzionali. È sempre più importanti affrancarsi dalle restrizioni virtuali imposte da un presunto mondo dell’arte. L’arte è il mondo dell’arte, non le persone che frequentano le gallerie e le fiere. E questo mondo è per vocazione permeabile, aperto, impossibile da immaginare senza la trasversalità e le contaminazioni della comunità.

Pietro-Gaglianò con Luigi PresicceCon Luigi Presicce, per Trittico, Kilowatt Festival

 


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