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IED Firenze
Teatro delle relazioni
La Pratica Curatoriale

 
Sara Leghissa Sara Leghissa Dimmi come va a finire 2023 Public Literature Fondazione Aria, Pescara Photo Rodolfo Suarez Molna


IED Firenze
Teatro delle relazioni



Teatro delle relazioni è la quarta mostra organizzata da IED Firenze e Fondazione Palazzo Strozzi all’interno di un progetto di collaborazione ampio, in cui le due istituzioni entrano in dialogo intrecciando competenze e visioni. Il progetto di quest’anno indaga il concetto di comunità nelle sue diverse accezioni: comunità come spazio di appartenenza che forma il nostro modo di vivere e stare insieme, ma anche comunità come pratica di creazione artistica che ridefinisce nuovi modelli di produzione e condivisione.

Le opere di Annamaria Ajmone, Agnese Banti, Aleksandar Đuravčević, Sara Leghissa, Franco Menicagli, Scuola di Santa Rosa (Francesco Lauretta e Luigi Presicce) e Wurmkos, offrono una panoramica su più linguaggi espressivi - disegno, scultura, performance, suono e pratiche partecipative - e aprono una riflessione sul valore delle relazioni nel nostro presente. Le opere e le performance, realizzate appositamente per il progetto, indagano le radici culturali condivise, la pratica artistica come forma di trasformazione sociale e le diverse forme di convivialità, rispondendo al bisogno collettivo di spazi di relazione e appartenenza. Teatro delle relazioni si articola in tre linee narrative intrecciate, Ricorda, Immagina e Non dormire, invitando il pubblico a riscoprire la memoria condivisa delle comunità, a immaginare nuove possibilità per il futuro e a reinterpretare il presente.
La struttura del catalogo segue questa suddivisione in atti e rende maggiormente visibile l’elaborazione concettuale.

L’intero progetto si sviluppa in una mostra presso il nuovo polo delle arti visive di IED Firenze, all’interno dell’ex Teatro dell’Oriuolo (7 novembre-20 dicembre 2024) e una tre giorni di performance negli spazi della Strozzina a Palazzo Strozzi (28-30 novembre 2024) realizzata in collaborazione con la Fondazione Hillary Merkus Recordati. Dalla prima edizione del progetto, Daria Filardo (IED) e Martino Margheri (Fondazione Palazzo Strozzi) hanno guidato lo sviluppo curatoriale delle singole mostre, affiancando le classi del Master in Curatorial Practice e coordinando tutte le fasi: la discussione di un’idea curatoriale, gli studio visit, lo sviluppo dell’allestimento, la comunicazione e la produzione di un catalogo.

Teatro delle relazioni IED Veduta della mostra Teatro delle relazioni IED / ex Teatro dell’Oriuolo, Firenze Photo Sara Sassi


LA PRATICA CURATORIALE
Daria Filardo e Martino Margheri
In dialogo


Martino: Nel contesto del Master Curatorial Practice 2023-2024 come nasce il progetto Teatro delle relazioni?

Daria: La prima volta che ho visto le ragazze del Master per parlare del Final Project - la loro tesi sperimentale che si compone della mostra e della pubblicazione - abbiamo discusso di quale fosse il ruolo dell’arte e della curatela oggi.
Abbiamo cercato di capire quali urgenze e necessità ci abitano, abbiamo ragionato sui gesti di resistenza, sulla posizione non neutrale dell’arte e della curatela. Nel parlare si è incontrato il nostro punto di vista con quello di una nuova generazione, che ha una forte volontà di partecipazione, di engagement sociale, un desiderio di fare parte di un cambiamento di prospettiva rispetto a un mondo in profonda crisi, così come lo vediamo davanti ai nostri occhi. È emerso il desiderio di lavorare sull’idea di comunità, sulle sue forme, sulla necessità di appartenenza e di operare nella realtà. Da qui è cominciato il processo che ci ha visto elaborare le molteplici direzioni di un tema così vasto attraverso la ricerca dei possibili artisti da coinvolgere. L’elaborazione di una lista di artisti è un equilibrio molto delicato e composto da tanti fattori sia contenutistici che logistici. Le scelte sono state tutte lungamente discusse e una volta definita la rosa finale sono iniziati i sopralluoghi per definire i lavori che, costruendosi lentamente, hanno dato forma sempre più concreta, attraverso le diverse pratiche, al concetto curatoriale.
Abbiamo quindi individuato, all’interno dell’idea di comunità, tre parole chiave che hanno costruito l’ossatura curatoriale proponendo una visione precisa. Ricorda,Immagina e Non dormire hanno guidato l’osservazione del passato, lo sguardo verso il futuro e una partecipazione attiva al nostro presente.

Franco MenicagliFranco Menicagli Ognuno trova il suo posto 2024 Installazione site specific Veduta della mostra Courtesy l’artista Foto Sara Sassi

D: In un progetto così articolato, che tiene insieme tanti equilibri diversi (gli artisti, la classe del Master, le due istituzioni) e si pone come obiettivo la realizzazione di una mostra e una pubblicazione, come si sviluppa una relazione educativa?

M: In quanto educatori e coordinatori del progetto, ritengo che la fiducia reciproca tra noi due e la classe del Master, oltre al senso di responsabilità che cerchiamo di veicolare, sia uno degli aspetti determinanti. È una relazione che si sviluppa nel corso dei mesi, incontro dopo incontro, anche con momenti altalenanti e faticosi. Non c’è una linea di demarcazione precisa che sancisce l’arrivo della responsabilità: per la classe la presa in carico di quello che facciamo è sempre molto graduale e mettere insieme le parti che compongono l’intero progetto richiede un tempo inaspettatamente lungo. A questo si aggiunge la dinamica interna al gruppo che ha un peso specifico nell’innescare o minare il gioco di squadra, su cui può influire negativamente anche l’assenza di uno o più leader nel gruppo. Un processo decisionale condiviso può funzionare solo se c’è un reale confronto e comprensione della materia che stiamo trattando, se “decidere democraticamente” significa condividere idee frammentarie a cui dire semplicemente sì o no ci si imbatte velocemente in uno stato di stasi e frustrazione. In questo panorama la classe deve cogliere il potenziale del nostro ruolo senza applicare una sovrastruttura di gerarchia rigida, siamo dei gatekeeper ai loro occhi, ma quello che reputo importante è far arrivare la nostra direzione di lavoro, non come un limite alle loro scelte, piuttosto come un guard rail che riporta sempre in pista proteggendo dal rischio di cadere fuori strada. Il tempo a nostra disposizione non è infinito e i tentativi di imboccare percorsi senza uscita ci sono sempre. Per noi due, i confini del progetto sono molto chiari, sappiamo cosa fare in questa cornice e quale risultato vogliamo ottenere, per la classe del Master, invece, è qualcosa che può rimanere vago, anche per un periodo lungo.
Nelle prime fasi del progetto capita di sentire parlare della mostra come se non li riguardasse, come se fosse indipendente dalle loro scelte, questo è l’esatto contrario della relazione di fiducia e responsabilità che cerchiamo di costruire insieme.

Agnese BantiAgnese Banti, dabquesre[yyyyyyyyy5] 2024 installazione site specific Veduta della mostra Photo Sara Sassi Courtesy l’arstista

M: Che significato ha “teatro della relazioni” nella nostra dinamica di gruppo e di lavoro condiviso?

D: Il tema è stato per noi un modo per mettere in scena le dinamiche di gruppo che ci troviamo ad affrontare tutti gli anni. Lavorare ad un progetto come questo vuol dire cercare la sintesi fra le visioni, ancora in formazione, di giovani curatori e le nostre, che guidiamo il processo. Noi stiamo su quel delicato crinale di fornire una cornice, guidare i ragionamenti, orientare ma non imporre. È necessario ragionare insieme su un concetto, sviscerarne le complessità, elaborare una visione che va al di là delle singole idee iniziali, ma che diventa piuttosto una piattaforma di negoziazione che raggiunge una forma finale.
Questa non assomiglia a nessuno di noi in particolare, ma piuttosto appartiene a tutti perché è la sintesi coerente delle idee che hanno circolato e si sono sedimentate trovando una forma collettiva. Teatro delle relazioni ha sottolineato, ancora più chiaramente, che siamo una piccola comunità di apprendimento collettivo. Nelle nostre discussioni il luogo dove sarebbe avvenuta la mostra, il nuovo campus delle arti visive di IED Firenze presso l’ex Teatro dell’Oriuolo, ha avuto un ruolo importante. La proposta del titolo in italiano, da parte della classe, per esempio, riecheggia la storia del luogo e rimette in scena l’idea di comunità attraverso le relazioni suggerendo diverse costruzioni possibili. Mi sembra significativo che il gruppo delle studentesse, a maggioranza internazionale, abbia scelto di avere un titolo in italiano; questo è il risultato di una comprensione profonda del tessuto sociale e artistico che hanno imparato a conoscere e con il quale sono riuscite a confrontarsi costruendo relazioni. Il lavoro collettivo nel delineare il tema e la relazione stringente con gli artisti ha generato 7 nuovi lavori, avviando un processo complesso sia nello spazio dell’ex Teatro sia nella Strozzina. Rispetto agli anni passati c’è stato un coinvolgimento ancora più profondo con gli artisti, una relazione che ha visto quindi le studentesse in grado di seguire il processo creativo e produttivo legato ai singoli lavori, sperimentando la diversità legata ad ognuna delle singole pratiche.

Wurmkos Wurmkos Senza titolo Veduta della mostra foto Sara Sassi courtesy gli artisti

D: Questa diversa e più stringente relazione con gli artisti che cosa ha prodotto?

M: Come hai accennato la selezione degli artisti è tra le parti più delicate, quest’anno in particolare ha richiesto un tempo molto lungo in cui ci sono state anche delle resistenze ai nostri consigli, ma anche un maggiore slancio che non si era mai verificato in passato. La classe ha voluto un peso maggiore nella selezione degli artisti sottoponendo alcuni nomi, talvolta con un po’ di superficialità e ingenuità, ma apportando un contributo significativo. Nel corso della selezione sono stati fatti studio visit con artisti che si sono rivelati non adatti alle caratteristiche del nostro progetto, alimentando però un processo critico di apprendimento. Sentirsi maggiormente coinvolti nella dinamica di selezione ha sicuramente rafforzato l’impegno e il coinvolgimento generale, ciò ha innescato maggiore dialogo, una relazione più sentita e profonda con gli artisti che ha poi contribuito positivamente alla produzione di nuovi lavori pensati appositamente per Teatro delle relazioni. Sia le opere in mostra che le performance in Strozzina hanno trovato nei nostri suggerimenti un forte stimolo. Tutto quello che è stato prodotto rivela una forte relazione con le caratteristiche architettoniche dell’ex Teatro unite alle potenzialità di un luogo di sperimentazione dal fascino underground come la Strozzina. Il quadro si completa con due esperienze di workshop (con adolescenti e danzatori) che hanno trovato la perfetta accoglienza nell’approccio educativo che contraddistingue i progetti della Fondazione e di IED.

Aleksandar ĐuravčevićAleksandar Đuravčević, Show Me The Way 2024 Veduta della mostra Photo Sara Sassi

M: Rispetto al passato abbiamo avuto l’opportunità di lavorare in un nuovo spazio, l’ex Teatro dell’Oriuolo, recentemente ristrutturato. Questa nuova sede ha offerto inedite opportunità di sperimentazione, quali sono state le potenzialità e le criticità di questo luogo?

D: I progetti realizzati negli scorsi anni hanno coinvolto gli spazi della scuola nel campus principale di via Bufalini. Questi erano gli spazi comuni come l’entrata della scuola, i corridoi, gli spazi studio; ogni anno abbiamo affrontato sfide importanti nel ripensamento dello spazio educativo in una nuova funzione espositiva che doveva comunque mantenere la sua funzionalità principale all’interno della scuola. Nella relazione con Palazzo Strozzi (tranne il primo anno, quando tutto il progetto è stato realizzato in una mostra in Strozzina) abbiamo ragionato sulle potenzialità degli spazi educativi della scuola ripensati come spazi espositivi, e quelli del Palazzo usati come spazi più processuali ed educativi. La possibilità di lavorare in un ‘vero’ spazio espositivo ha cambiato completamente l’approccio al progetto e ci ha permesso di costruire una mostra in cui il dialogo fra le opere e il contesto in cui sono presentate ha acquisito un’importanza fondamentale. Il fatto che l’ex Teatro fosse nello stadio finale della ristrutturazione ci ha dato l’occasione di partecipare alla sua trasformazione e ripensarla. Insieme agli studenti abbiamo fatto numerosi sopralluoghi con gli artisti, e abbiamo discusso molto cercando di adattare e ripensare insieme le opere a partire dal luogo: molti degli elementi del Teatro sono stati, infatti, motivo di ispirazione dei lavori degli artisti. Con la Scuola di Santa Rosa abbiamo deciso di usare un sipario lasciato appeso dal 1991, anno di chiusura dello spazio: l’abbiamo smontato dal binario originale, dove era rimasto per 30 anni, pulito e ri-installato lungo i muri di una nicchia, come a ricreare una cappella. Sulla tenda abbiamo appeso moltissimi disegni dei partecipanti della Scuola di Santa Rosa, ricreando quell’idea di comunità a cui sono legati. Alcune tavole del vecchio palco del Teatro, così come la sua architettura, in particolare una nicchia, sono diventate parte dell’installazione di Franco Menicagli che ha inglobato il luogo e i suoi elementi in una scenografia temporanea. La parete di fondo che accoglie la scultura di Đuravčević è stata pensata appositamente per ospitarla, allungata rispetto alla misura originale, dipinta di un colore diverso dal resto, come a creare una quinta ideale che incornicia History in your blood. Anche la foto che ritrae il pranzo della domenica, realizzato a conclusione del lavoro con il gruppo Wurmkos, testimonia un abitare dello spazio del Teatro che ha accolto una comunità composta da noi, i giovani partecipanti al progetto e gli artisti in un pranzo collettivo sul collage realizzato insieme.

Agnese BantiAgnese Banti (o) Immersione nel suono di Speaking Cables, 2024, Festival di Santarcangelo, aprile 2024 foto Margherita Caprilli Courtesy l’arstista

D: Nel corso degli ultimi quattro anni IED e Palazzo Strozzi hanno sperimento insieme vari formati espositivi e spazi in cui realizzare i propri progetti. Il progetto di quest’anno prevede l’uso della Strozzina in tre modalità diverse.
Come è cambiato nel corso dei 4 anni la relazione e l’approccio agli spazi delle due istituzioni?

M: Il nostro primo progetto condiviso, Alter Eva. Natura Poter Corpo del 2021, è stato il frutto di una particolare convergenza: la nascita del Master in Curatorial Practice di IED e l’opportunità offerta dalla Fondazione Hillary Merkus Recordati di sostenere mostre dal carattere sperimentale dedicate alle nuove generazioni di artisti. Questo ha portato alla realizzazione di una mostra in Strozzina, con un programma di visite guidate, un ciclo di conferenze e un catalogo che ne raccogliesse l’esperienza.
Un progetto ambizioso e molto ben riuscito, che però si è rivelato carente sul piano del coinvolgimento della classe del Master. Lavorare in uno spazio istituzionale con dinamiche molto strutturate restringeva l’azione delle studentesse entro dei confini piuttosto rigidi e il processo decisionale, così come il coinvolgimento pratico, era limitato. L’anno seguente, con la seconda mostra Eco Esistenze. Forme del naturale e dell’artificiale, abbiamo trasformato la sede di IED, generalmente luogo di studio e apprendimento, in spazio espositivo, mentre Palazzo Strozzi accoglieva tutto il public program sviluppato in sinergia con gli artisti in mostra (workshop, lecture, un gruppo di lettura, passeggiate nei parchi, un picnic con le nutrie al lago dell’Argingrosso a Firenze).
Questa soluzione ha permesso un intervento più consistente nella partecipazione dell’allestimento, nella progettazione della mostra e del programma di incontri. Il terzo anno con The Tilt of Time abbiamo proseguito sulla falsariga dell’anno precedente, ma siamo tornati a occupare la Strozzina, solo con pratiche performative: uno sleepling concert e una performance di lunga durata.
L’obiettivo era di vivere l’esperienza del tempo secondo una modalità inusuale e sfruttare i connotati e l’atmosfera di uno spazio sotterraneo per accentuarne alcuni caratteri. Quest’anno abbiamo nuovamente riformulato il progetto suddividendo tra lo spazio espositivo dell’ex Teatro dell’Oriuolo e una tre giorni di performance in Strozzina che abbiamo trasformato nel corso dei tre eventi, ospitando esperienze molto diverse tra loro: danza, musica e una lectureperformance). Comprendere le potenzialità di uno spazio e le necessità tecniche, l’illuminazione e l’allestimento temporaneo può rappresentare una grande palestra per un curatore.

Sara LeghissaSara Leghissa MUSCLES, 2023, Public Literature, Photo credit: Iman Salem, Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca

M: Che cosa ti senti di aver imparato quest'anno nella relazione con gli studenti (e gli artisti)?

D: All’inizio dell’anno ero un po’ spaventata dal numero di studenti (17), temevo che sarebbe stato difficile coinvolgere tutti in un processo di apprendimento che li vedesse partecipi a pieno. Ho imparato, invece, che un grande gruppo è una forza in più, le idee che hanno circolato e il lungo processo di elaborazione hanno portato ad un risultato ricco in cui ognuno ha trovato il modo di esprimere la propria personalità e allo stesso tempo sperimentare modalità di lavoro che non conoscevano. Ho imparato a fidarmi ancora di più perché alcune delle relazioni fra gli artisti e gli studenti hanno avuto un buon grado di autonomia e hanno portato nuove soluzioni e energie. Dagli artisti imparo sempre qualcosa, ogni progetto è un nuovo universo. La relazione creativa nello sviluppo del lavoro fatto insieme cambia la mia percezione del mondo.

D: Insegnare a essere curatori… Quali ritieni siano gli aspetti più difficili da trasmettere in questa esperienza educativa?

M: Acquisire una capacità organizzativa, non anteporre la forma al contenuto, lavorare con cura e nei tempi giusti, rispettando le scadenze e le priorità, evitare quello che chiamo “l’effetto imbuto” quando tutto converge senza lasciare respiro. Confrontarsi, rispettare il lavoro degli altri, saper accogliere critiche e suggerimenti, negoziare e analizzare quello che si sta osservando, sfuggire all’idea che una galleria di immagini su Instagram possa farti entrare nel lavoro di un artista. Ingenuamente, mi stupisco sempre che tutto questo faccia parte del bagaglio di esperienze della classe solo in minima parte, poi ripenso al mio percorso, a quanto ho imparato sul campo, e mi pare legittimo che si commettano errori anche grossolani. Tuttavia, quello che reputo fondamentale in questo percorso di crescita, è riuscire ad abbandonare l’attitudine da studenti e assumere un atteggiamento da professionisti. Seppure la loro esperienza lavorativa sarà tutta da costruire il progetto svolto insieme, durante questo intenso anno, innesca sempre un cambiamento importante che percepiamo nella gran parte di loro.

Firenze, 2 dicembre 2024

Annamaria AjmoneAnnamaria Ajmone, Senza Titolo, 2023. Performance. Photo Lorenza Daverio Courtesy l’artista

 


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