IED Firenze
Teatro delle relazioni
Teatro delle relazioni è la quarta mostra
organizzata da IED Firenze e Fondazione
Palazzo Strozzi all’interno di un progetto di
collaborazione ampio, in cui le due istituzioni
entrano in dialogo intrecciando competenze
e visioni. Il progetto di quest’anno indaga
il concetto di comunità nelle sue diverse
accezioni: comunità come spazio di
appartenenza che forma il nostro modo di
vivere e stare insieme, ma anche comunità
come pratica di creazione artistica che
ridefinisce nuovi modelli di produzione e
condivisione.
Le opere di Annamaria Ajmone, Agnese
Banti, Aleksandar Đuravčević, Sara Leghissa,
Franco Menicagli, Scuola di Santa Rosa
(Francesco Lauretta e Luigi Presicce) e
Wurmkos, offrono una panoramica su più
linguaggi espressivi - disegno, scultura,
performance, suono e pratiche partecipative
- e aprono una riflessione sul valore delle
relazioni nel nostro presente. Le opere e
le performance, realizzate appositamente
per il progetto, indagano le radici culturali
condivise, la pratica artistica come forma
di trasformazione sociale e le diverse forme
di convivialità, rispondendo al bisogno
collettivo di spazi di relazione e appartenenza.
Teatro delle relazioni si articola in tre linee
narrative intrecciate, Ricorda, Immagina e
Non dormire, invitando il pubblico a riscoprire
la memoria condivisa delle comunità, a
immaginare nuove possibilità per il futuro e
a reinterpretare il presente.
La struttura del catalogo segue questa suddivisione in atti e
rende maggiormente visibile l’elaborazione
concettuale.
L’intero progetto si sviluppa in una mostra
presso il nuovo polo delle arti visive di IED
Firenze, all’interno dell’ex Teatro dell’Oriuolo
(7 novembre-20 dicembre 2024) e una
tre giorni di performance negli spazi della
Strozzina a Palazzo Strozzi (28-30 novembre
2024) realizzata in collaborazione con la
Fondazione Hillary Merkus Recordati.
Dalla prima edizione del progetto, Daria
Filardo (IED) e Martino Margheri (Fondazione
Palazzo Strozzi) hanno guidato lo sviluppo
curatoriale delle singole mostre, affiancando
le classi del Master in Curatorial Practice
e coordinando tutte le fasi: la discussione
di un’idea curatoriale, gli
studio visit, lo
sviluppo dell’allestimento, la comunicazione
e la produzione di un catalogo.
Veduta della mostra Teatro delle relazioni IED / ex Teatro dell’Oriuolo, Firenze Photo Sara Sassi
LA PRATICA CURATORIALE
Daria Filardo e Martino Margheri
In dialogo
Martino: Nel contesto del Master
Curatorial Practice 2023-2024 come nasce
il progetto Teatro delle relazioni?
Daria: La prima volta che ho visto le ragazze
del Master per parlare del
Final Project - la
loro tesi sperimentale che si compone della
mostra e della pubblicazione - abbiamo
discusso di quale fosse il ruolo dell’arte
e della curatela oggi.
Abbiamo cercato di
capire quali urgenze e necessità ci abitano,
abbiamo ragionato sui gesti di resistenza,
sulla posizione non neutrale dell’arte e
della curatela. Nel parlare si è incontrato il
nostro punto di vista con quello di una nuova
generazione, che ha una forte volontà di
partecipazione, di engagement sociale, un
desiderio di fare parte di un cambiamento di
prospettiva rispetto a un mondo in profonda
crisi, così come lo vediamo davanti ai nostri
occhi. È emerso il desiderio di lavorare
sull’idea di comunità, sulle sue forme, sulla
necessità di appartenenza e di operare nella
realtà. Da qui è cominciato il processo che
ci ha visto elaborare le molteplici direzioni di
un tema così vasto attraverso la ricerca dei
possibili artisti da coinvolgere. L’elaborazione
di una lista di artisti è un equilibrio molto
delicato e composto da tanti fattori sia
contenutistici che logistici.
Le scelte sono
state tutte lungamente discusse e una
volta definita la rosa finale sono iniziati
i sopralluoghi per definire i lavori che,
costruendosi lentamente, hanno dato forma
sempre più concreta, attraverso le diverse
pratiche, al concetto curatoriale.
Abbiamo
quindi individuato, all’interno dell’idea di
comunità, tre parole chiave che hanno
costruito l’ossatura curatoriale proponendo
una visione precisa.
Ricorda,Immagina e
Non dormire hanno guidato l’osservazione
del passato, lo sguardo verso il futuro e una
partecipazione attiva al nostro presente.
Franco Menicagli Ognuno trova il suo posto 2024 Installazione site specific Veduta della mostra Courtesy l’artista Foto Sara Sassi
D: In un progetto così articolato, che tiene
insieme tanti equilibri diversi (gli artisti,
la classe del Master, le due istituzioni) e
si pone come obiettivo la realizzazione di
una mostra e una pubblicazione, come si
sviluppa una relazione educativa?
M: In quanto educatori e coordinatori del
progetto, ritengo che la fiducia reciproca tra
noi due e la classe del Master, oltre al senso
di responsabilità che cerchiamo di veicolare,
sia uno degli aspetti determinanti. È una
relazione che si sviluppa nel corso dei mesi,
incontro dopo incontro, anche con momenti
altalenanti e faticosi. Non c’è una linea di
demarcazione precisa che sancisce l’arrivo
della responsabilità: per la classe la presa
in carico di quello che facciamo è sempre
molto graduale e mettere insieme le parti
che compongono l’intero progetto richiede
un tempo inaspettatamente lungo.
A questo
si aggiunge la dinamica interna al gruppo
che ha un peso specifico nell’innescare
o minare il gioco di squadra, su cui può
influire negativamente anche l’assenza di
uno o più leader nel gruppo. Un processo
decisionale condiviso può funzionare solo se
c’è un reale confronto e comprensione della
materia che stiamo trattando, se “decidere
democraticamente” significa condividere
idee frammentarie a cui dire semplicemente
sì o no ci si imbatte velocemente in uno stato
di stasi e frustrazione.
In questo panorama la
classe deve cogliere il potenziale del nostro
ruolo senza applicare una sovrastruttura di
gerarchia rigida, siamo dei gatekeeper ai loro
occhi, ma quello che reputo importante è
far arrivare la nostra direzione di lavoro, non
come un limite alle loro scelte, piuttosto
come un guard rail che riporta sempre in
pista proteggendo dal rischio di cadere fuori
strada.
Il tempo a nostra disposizione non
è infinito e i tentativi di imboccare percorsi
senza uscita ci sono sempre.
Per noi due,
i confini del progetto sono molto chiari,
sappiamo cosa fare in questa cornice e
quale risultato vogliamo ottenere, per la
classe del Master, invece, è qualcosa che può rimanere vago, anche per un periodo
lungo.
Nelle prime fasi del progetto capita
di sentire parlare della mostra come se non
li riguardasse, come se fosse indipendente
dalle loro scelte, questo è l’esatto contrario
della relazione di fiducia e responsabilità che
cerchiamo di costruire insieme.
Agnese Banti,
dabquesre[yyyyyyyyy5] 2024 installazione site specific Veduta della mostra Photo Sara Sassi Courtesy l’arstista
M: Che significato ha “teatro della
relazioni” nella nostra dinamica di gruppo
e di lavoro condiviso?
D: Il tema è stato per noi un modo per
mettere in scena le dinamiche di gruppo
che ci troviamo ad affrontare tutti gli anni.
Lavorare ad un progetto come questo vuol
dire cercare la sintesi fra le visioni, ancora
in formazione, di giovani curatori e le nostre,
che guidiamo il processo. Noi stiamo su
quel delicato crinale di fornire una cornice,
guidare i ragionamenti, orientare ma non
imporre. È necessario ragionare insieme su
un concetto, sviscerarne le complessità,
elaborare una visione che va al di là
delle singole idee iniziali, ma che diventa
piuttosto una piattaforma di negoziazione
che raggiunge una forma finale.
Questa non
assomiglia a nessuno di noi in particolare,
ma piuttosto appartiene a tutti perché è
la sintesi coerente delle idee che hanno
circolato e si sono sedimentate trovando
una forma collettiva.
Teatro delle relazioni
ha sottolineato, ancora più chiaramente,
che siamo una piccola comunità di
apprendimento collettivo.
Nelle nostre discussioni il luogo dove
sarebbe avvenuta la mostra, il nuovo
campus delle arti visive di IED Firenze
presso l’ex Teatro dell’Oriuolo, ha avuto un
ruolo importante. La proposta del titolo in
italiano, da parte della classe, per esempio,
riecheggia la storia del luogo e rimette
in scena l’idea di comunità attraverso le
relazioni suggerendo diverse costruzioni
possibili. Mi sembra significativo che il
gruppo delle studentesse, a maggioranza
internazionale, abbia scelto di avere un
titolo in italiano; questo è il risultato di una
comprensione profonda del tessuto sociale
e artistico che hanno imparato a conoscere
e con il quale sono riuscite a confrontarsi
costruendo relazioni.
Il lavoro collettivo nel delineare il tema e la
relazione stringente con gli artisti ha generato
7 nuovi lavori, avviando un processo
complesso sia nello spazio dell’ex Teatro sia
nella Strozzina.
Rispetto agli anni passati c’è
stato un coinvolgimento ancora più profondo
con gli artisti, una relazione che ha visto
quindi le studentesse in grado di seguire
il processo creativo e produttivo legato ai
singoli lavori, sperimentando la diversità
legata ad ognuna delle singole pratiche.
Wurmkos Senza titolo
Veduta della mostra foto Sara Sassi courtesy gli artisti
D: Questa diversa e più stringente
relazione con gli artisti che cosa ha
prodotto?
M: Come hai accennato la selezione degli
artisti è tra le parti più delicate, quest’anno
in particolare ha richiesto un tempo molto
lungo in cui ci sono state anche delle
resistenze ai nostri consigli, ma anche
un maggiore slancio che non si era mai
verificato in passato. La classe ha voluto
un peso maggiore nella selezione degli
artisti sottoponendo alcuni nomi, talvolta
con un po’ di superficialità e ingenuità, ma
apportando un contributo significativo.
Nel corso della selezione sono stati fatti
studio visit con artisti che si sono rivelati non
adatti alle caratteristiche del nostro progetto,
alimentando però un processo critico di
apprendimento. Sentirsi maggiormente
coinvolti nella dinamica di selezione ha
sicuramente rafforzato l’impegno e il
coinvolgimento generale, ciò ha innescato
maggiore dialogo, una relazione più
sentita e profonda con gli artisti che ha poi
contribuito positivamente alla produzione
di nuovi lavori pensati appositamente
per
Teatro delle relazioni.
Sia le opere in
mostra che le performance in Strozzina
hanno trovato nei nostri suggerimenti un
forte stimolo.
Tutto quello che è stato
prodotto rivela una forte relazione con
le caratteristiche architettoniche dell’ex
Teatro unite alle potenzialità di un luogo di
sperimentazione dal fascino underground
come la Strozzina. Il quadro si completa con
due esperienze di workshop (con adolescenti
e danzatori) che hanno trovato la perfetta
accoglienza nell’approccio educativo che
contraddistingue i progetti della Fondazione
e di IED.
Aleksandar Đuravčević,
Show Me The Way 2024 Veduta della mostra
Photo Sara Sassi
M: Rispetto al passato abbiamo
avuto l’opportunità di lavorare in un
nuovo spazio, l’ex Teatro dell’Oriuolo,
recentemente ristrutturato. Questa nuova
sede ha offerto inedite opportunità di
sperimentazione, quali sono state le
potenzialità e le criticità di questo luogo?
D: I progetti realizzati negli scorsi anni hanno
coinvolto gli spazi della scuola nel campus
principale di via Bufalini. Questi erano gli
spazi comuni come l’entrata della scuola,
i corridoi, gli spazi studio; ogni anno abbiamo
affrontato sfide importanti nel ripensamento
dello spazio educativo in una nuova funzione
espositiva che doveva comunque mantenere
la sua funzionalità principale all’interno della
scuola.
Nella relazione con Palazzo Strozzi (tranne
il primo anno, quando tutto il progetto è
stato realizzato in una mostra in Strozzina)
abbiamo ragionato sulle potenzialità degli
spazi educativi della scuola ripensati come
spazi espositivi, e quelli del Palazzo usati
come spazi più processuali ed educativi.
La possibilità di lavorare in un ‘vero’ spazio
espositivo ha cambiato completamente
l’approccio al progetto e ci ha permesso di
costruire una mostra in cui il dialogo fra le
opere e il contesto in cui sono presentate ha
acquisito un’importanza fondamentale.
Il fatto che l’ex Teatro fosse nello stadio finale
della ristrutturazione ci ha dato l’occasione
di partecipare alla sua trasformazione e
ripensarla.
Insieme agli studenti abbiamo fatto numerosi
sopralluoghi con gli artisti, e abbiamo
discusso molto cercando di adattare e
ripensare insieme le opere a partire dal
luogo: molti degli elementi del Teatro sono
stati, infatti, motivo di ispirazione dei lavori
degli artisti.
Con la Scuola di Santa Rosa abbiamo deciso
di usare un sipario lasciato appeso
dal 1991, anno di chiusura dello spazio:
l’abbiamo smontato dal binario originale,
dove era rimasto per 30 anni, pulito e
ri-installato lungo i muri di una nicchia,
come a ricreare una cappella. Sulla tenda
abbiamo appeso moltissimi disegni dei
partecipanti della Scuola di Santa Rosa,
ricreando quell’idea di comunità a cui sono
legati. Alcune tavole del vecchio palco del
Teatro, così come la sua architettura, in
particolare una nicchia, sono diventate parte
dell’installazione di Franco Menicagli che
ha inglobato il luogo e i suoi elementi in una
scenografia temporanea.
La parete di fondo che accoglie la scultura di
Đuravčević è stata pensata appositamente
per ospitarla, allungata rispetto alla misura
originale, dipinta di un colore diverso dal
resto, come a creare una quinta ideale che
incornicia
History in your blood. Anche la foto
che ritrae il pranzo della domenica, realizzato
a conclusione del lavoro con il gruppo
Wurmkos, testimonia un abitare dello spazio
del Teatro che ha accolto una comunità
composta da noi, i giovani partecipanti al
progetto e gli artisti in un pranzo collettivo sul
collage realizzato insieme.
Agnese Banti (o) Immersione nel suono di Speaking Cables, 2024, Festival di Santarcangelo, aprile 2024 foto Margherita Caprilli
Courtesy l’arstista
D: Nel corso degli ultimi quattro anni
IED e Palazzo Strozzi hanno sperimento
insieme vari formati espositivi e spazi in
cui realizzare i propri progetti. Il progetto di
quest’anno prevede l’uso della Strozzina in
tre modalità diverse.
Come è cambiato nel
corso dei 4 anni la relazione e l’approccio
agli spazi delle due istituzioni?
M: Il nostro primo progetto condiviso,
Alter
Eva. Natura Poter Corpo del 2021, è stato
il frutto di una particolare convergenza: la
nascita del Master in Curatorial Practice di
IED e l’opportunità offerta dalla Fondazione
Hillary Merkus Recordati di sostenere
mostre dal carattere sperimentale dedicate
alle nuove generazioni di artisti. Questo
ha portato alla realizzazione di una mostra
in Strozzina, con un programma di visite
guidate, un ciclo di conferenze e un catalogo
che ne raccogliesse l’esperienza.
Un progetto ambizioso e molto ben riuscito,
che però si è rivelato carente sul piano del
coinvolgimento della classe del Master.
Lavorare in uno spazio istituzionale con
dinamiche molto strutturate restringeva
l’azione delle studentesse entro dei confini
piuttosto rigidi e il processo decisionale,
così come il coinvolgimento pratico, era
limitato.
L’anno seguente, con la seconda
mostra
Eco Esistenze. Forme del naturale
e dell’artificiale, abbiamo trasformato la
sede di IED, generalmente luogo di studio e
apprendimento, in spazio espositivo, mentre
Palazzo Strozzi accoglieva tutto il public
program sviluppato in sinergia con gli artisti
in mostra (workshop, lecture, un gruppo di
lettura, passeggiate nei parchi, un picnic con
le nutrie al lago dell’Argingrosso a Firenze).
Questa soluzione ha permesso un intervento
più consistente nella partecipazione
dell’allestimento, nella progettazione della
mostra e del programma di incontri. Il terzo
anno con
The Tilt of Time abbiamo proseguito
sulla falsariga dell’anno precedente, ma
siamo tornati a occupare la Strozzina, solo
con pratiche performative: uno sleepling
concert e una performance di lunga durata.
L’obiettivo era di vivere l’esperienza del
tempo secondo una modalità inusuale e
sfruttare i connotati e l’atmosfera di uno
spazio sotterraneo per accentuarne alcuni
caratteri.
Quest’anno abbiamo nuovamente
riformulato il progetto suddividendo tra lo
spazio espositivo dell’ex Teatro dell’Oriuolo
e una tre giorni di performance in Strozzina
che abbiamo trasformato nel corso dei tre
eventi, ospitando esperienze molto diverse
tra loro: danza, musica e una lectureperformance).
Comprendere le potenzialità
di uno spazio e le necessità tecniche,
l’illuminazione e l’allestimento temporaneo
può rappresentare una grande palestra per
un curatore.
Sara Leghissa
MUSCLES, 2023, Public Literature, Photo credit: Iman Salem, Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca
M: Che cosa ti senti di aver imparato
quest'anno nella relazione con gli studenti
(e gli artisti)?
D: All’inizio dell’anno ero un po’ spaventata
dal numero di studenti (17), temevo che
sarebbe stato difficile coinvolgere tutti in un
processo di apprendimento che li vedesse
partecipi a pieno. Ho imparato, invece, che
un grande gruppo è una forza in più, le idee
che hanno circolato e il lungo processo di
elaborazione hanno portato ad un risultato
ricco in cui ognuno ha trovato il modo di
esprimere la propria personalità e allo stesso
tempo sperimentare modalità di lavoro che
non conoscevano. Ho imparato a fidarmi
ancora di più perché alcune delle relazioni
fra gli artisti e gli studenti hanno avuto un
buon grado di autonomia e hanno portato
nuove soluzioni e energie. Dagli artisti imparo
sempre qualcosa, ogni progetto è un nuovo
universo. La relazione creativa nello sviluppo
del lavoro fatto insieme cambia la mia
percezione del mondo.
D: Insegnare a essere curatori… Quali
ritieni siano gli aspetti più difficili
da trasmettere in questa esperienza
educativa?
M: Acquisire una capacità organizzativa, non
anteporre la forma al contenuto, lavorare
con cura e nei tempi giusti, rispettando
le scadenze e le priorità, evitare quello
che chiamo “l’effetto imbuto” quando
tutto converge senza lasciare respiro.
Confrontarsi, rispettare il lavoro degli altri,
saper accogliere critiche e suggerimenti,
negoziare e analizzare quello che si sta
osservando, sfuggire all’idea che una galleria
di immagini su Instagram possa farti entrare
nel lavoro di un artista. Ingenuamente, mi
stupisco sempre che tutto questo faccia
parte del bagaglio di esperienze della classe
solo in minima parte, poi ripenso al mio
percorso, a quanto ho imparato sul campo,
e mi pare legittimo che si commettano errori
anche grossolani. Tuttavia, quello che reputo
fondamentale in questo percorso di crescita,
è riuscire ad abbandonare l’attitudine da
studenti e assumere un atteggiamento da
professionisti. Seppure la loro esperienza
lavorativa sarà tutta da costruire il progetto
svolto insieme, durante questo intenso anno,
innesca sempre un cambiamento importante
che percepiamo nella gran parte di loro.
Firenze, 2 dicembre 2024
Annamaria Ajmone,
Senza Titolo, 2023. Performance. Photo Lorenza Daverio
Courtesy l’artista
Teatro delle relazioni
IED ex Tetro dell'Oriuolo
Palazzo Strozzi
7 11 2024 / 20 12 2024
@ 2025 Artext