PITTURA di CUPOLA : Nicola De Maria
Nicola De Maria, mediante un linguaggio astratto, sfonda la cornice del quadro ed invade l’architettura del vissuto. Il risultato è una pittura che assume la cadenza spaziale del concavo, una curvatura che include lo sguardo e la complessità sensoriale dello spettatore. Perché qui l’arte non vuole una frontalità contemplativa ma il movimento del corpo che vive la transfigurazione estetica senza alcuna distanza.
Una pittura a cupola quella di De Maria che bene interpreta il genius loci italiano, in cui «vita brevis et ars longa» diventa l’emblema reso evidente dalle tracce stratificate di una grande cultura che tocca anche l’architettura del quotidiano. Il barocco è lo stile che meglio interpreta l’ansia di assorbimento da parte della sensibilità artistica di tutte le circostanze.
Una cupola discreta e filiforme si adagia su tutto ciò che preesiste alla pittura.
Un fraseggio di linee astratte, diversamente colorate, attraversa le pareti, il soffitto e si raggruma intorno all’evidenza di piccoli quadri sovrapposti sull’architettura nuovamente dipinta. La cupola esegue silenziosi movimenti di vertigine, abbandona il ritmo concavo per rimbalzare da una parete all’altra, da dentro verso il fuori, sulle strade abitate dalle rincorse distratte di uomini e cose.
Come quadri affacciati alle finestre, la pittura adotta anche la cornice di queste che danno sulla strada.
Alla festa dell’accumulo della città, De Maria risponde con quella selezionata della pittura, fatta costruttivamente di interventi cromatici meditati eppure pieni d’abbandono, precocemente annunciati già all’inizio degli anni Settanta da un uso interiorizzato della fotografia. La forza del colore non è mai aggressiva o competitiva, semmai rinviante ad una nostalgia di totalità, nota caratterizzante dell’artista rispetto all’edonismo puramente gestuale sotteso alla ritrovata creatività della sua generazione.
Non incombe sull’uomo questa pittura che si propone di coabitare con lui accompagnandolo nel dentro e fuori del quotidiano, come uno stato di esistenza reso visibile e silenziosamente insinuante nella dimensione disadorna dell’esistenza.
«Non procurare mai vergogna agli altri» ci ha insegnato Nietzsche.
L’arte di De Maria si mette fuori dalla superbia logocentrica della pittura occidentale, giocata quasi sempre sulla bravura della tecnica e della esecuzione, sulla superiorità di un procedimento e di un prodotto semplicisticamente stupefacente.
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Manifesto, Norma Bellini, Arènes de Nimes 1987 Courtesy dell’artista
Manifesto Festival dei due mondi, Spoleto 1991 Courtesy dell’artista
La cupola di pittura qui è protettiva e mai invadente o frontalmente alternativa.
Dunque non produce vergogna o senso di inferiorità a chi non è adusato alle tecniche dell’arte.
Qui l’artista è artefice di una costruzione di moralità, una architettura dipinta coinvolgente, ma senza l’autorità del barocco che voleva piegare il corpo sociale. La delicatezza quasi lirica dell’intervento pittorico indica una diversa strada della contemplazione, fatta di assorbimento progressivo e non di frontale meraviglia.
Si mette in moto un’architettura al rallentatore che non denuncia mai il proprio inizio e la fine, che non conosce confini spaziali e temporali. Anormale come la pittura stessa che trabocca silenziosamente dalla cornice e senza rumore come un liquido si riversa fuori dai recinti assegnati, con una ineluttabilità cromatica che ricorda Poliakof all’incrocio arioso con Klee.
Flessibile è la pelle di pittura, il tatuaggio segnico e cromatico impresso da De Maria sulle mura romane. Dilatabile ed elastico, indistruttibile e luminoso. Fuori da ogni decadimento. Forte è la mano industriosa dell’artista che si adopera sull’antica architettura per trasfigurarla e nello stesso tempo proteggerla.
Intervento prezioso è quello dell’artista. De Maria riveste la muta parete col suono cromatico di una pittura viaggiante e nomade, che tocca spazi di molti paesi senza mai perdere la sua identità o cadenza.
Come la musica la si può suonare in ogni dove, nella sua flessibilità inossidabile ed incessante capacità di dialogo. Infatti l’artista ha lavorato sulla tipologia della cupola e dell’inquadratura, assorbendo nella mostra il luogo antistante ed esterno all’esposizione, visibile dalla strada nella dimensione alternativa al vicino, quella del lontano. In tal modo si produce un’estensione estetica della pittura capace di vivere interno ed esterno, attenzione e distrazione sociale, frontalità e lateralità dello sguardo.
La dilatazione diventa la possibilità della pittura di avere un corpo organicamente in crescita, in ogni caso in sviluppo per contrazione ed espansione.
Un corpo naturalmente non figurativo, senza membra definite e delimitate. I punti di sosta sono rappresentati dai sei piccoli quadri che talvolta abitano le pareti, come campi di rallentamento e condensazione della pittura, disseminazioni di centralità preziose che racchiudono e sintetizzano il processo creativo.
In definitiva Nicola De Maria realizza una pittura di frontiera tra arte e vita una cerniera per lo sguardo sociale che può oscillare tra l’inerzia del quotidiano e l’intensità del campo estetico in un movimento di delicata continuità.
Questo è l’aspetto laico di un’opera incessante e febbrile che si applica al grande ed al piccolo formato, nella consapevolezza di un gesto eccellente e magnanimo capace di creare un cortocircuito tra l’io dell’arte ed il noi del mondo.
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