DALLA TRAMA
Il partito preso del feltro nel
Se non possiamo vedere chiaramente le cose, almeno vedremo chiaramente in cosa consiste l’oscurità.
Sigmund Freud
In questo testo cercherò di enucleare, necessariamente per approssimazione, l’uso ‘inappropriato’ del feltro in tutto il lavoro di Daniela de Lorenzo. Questo materiale costituisce un vulnus davvero focale nell’economia generale dell’artista, esso sembra davvero incarnare il pharmakon, ad un tempo cioè rimedio e minaccia di un qualcosa che sembra davvero consistere in una materia, direi quasi, supplementare a priori, materia di un’anticipazione inaugurale che la stessa pratica dell’artista non può che limitarsi a scontornare custodendola sullo sfondo, cercando così di trattenerla come al di qua della propria formulazione. Il feltro è inteso qui, mutuando un’espressione di Roland Barthes, come il portato, il ductus ottuso di un’eterogeneità di visibilità del visibile che lo fa consistere appunto a monte della propria fomulabilità e al di là della propria manifestazione. Esso in qualche modo rende presente la transitività assoluta di una presenza che non arriverà mai a rendersi presente, né attraverso un’affermazione né attraverso una negazione, né attraverso una progressione né attraverso una regressione. Nel feltro di De Lorenzo si ravvisa dunque una pulsione amorfa che si spinge nel reale, di cui si nutre e del quale è traccia e scrittura e una potenza del reale che l’accoglie mentre le lascia in cambio, ora più o meno evidenti, ora più o meno percettibili, i tratti del suo chiuso consistere, distante da quella pulsione. Di ciò che accade sotto il nome di feltro, si può averne, in qualche modo, solo un’ esperienza transitivamente riferita, perché nessun altra cosa al di là di esso potrà mai esibire le prove materiali di questa esperienza realmente inesprimibile. Infatti risulterebbe vano cercare una misura adeguata al fuori di esso; è soltanto nella propria inseità che si può tentare di cogliere il precipitare cosale e modale di un concetto che annienta il suo stesso limite quale concetto. Credo che la nozione sviluppata da Freud sul trauma possa in qualche modo concederci un appiglio per tentare se non altro d’incorniciare il problema di questo problema senza alcun problema. Secondo Freud il trauma è quella cosa che non cessa mai d’irrompere attraverso l’immagine immediata di una forza deformante di cui non si conosce peraltro nessuna causa e di cui non siamo perciò capaci di elaborarne il lutto attraverso una qualche elaborazione. Il trauma è quell’ evento già accaduto che, per questa ragione, non accadrà mai. Non esiste alcuna possibilità di elaborazione di tale precipitato poiché la sua presunta ‘presenza’ risulta essere totalmente estranea a ciò nondimeno ne porta segretamente le stimmate, facendosene, per così dire, portatore sano. Altro non resta davvero che subire i sintomi bianchi, assolutamente irrelati e allosemici di una persistenza ed una insistenza “grezza”, scriveva Kant nella Critica del Giudizio, che, esattamente come il feltro in questione, non presenta alcuna attrattiva e non suscita alcuna paura di un pericolo reale, in quanto, continua Kant, “è semplicemente grande”. Ci avviciniamo in questo modo al luogo inallogabile di ciò che rimane morto in ogni cosa che nasce, il non-realizzato, ciò che non è mai nato in quanto è sempre già nato, il modo dividuale del feltro che (è) stato dove non è mai stato. Qualcosa di molto prossimo alla pulsione di morte; si può parlare di una pulsione del feltro? Potremmo forse chiosare così il ‘semplicemente grande’ kantiano, ovvero tutto ciò che il lavoro di De Lorenzo, in una ri-torsione per molti versi aberrante, provvede ad innescare malgrado il lavoro stesso? Seguendo Freud a proposito della pulsione di morte potremmo dire che se qualcosa si è mosso per tornare a quello stato inanimato che è la morte, se l’animazione, l’immagine dunque, non è altro che quel tentativo d’interrompere ed esaurire la vettorialità ignota che si è smarcata dalla morte per cercare peraltro di tornarvi, l’al di là del principio del feltro consiste proprio in questa motilità senza moto che è già qui poiché, come nel trauma, non si è mai mossa da qui, essendo stata qui prima della sua presenza, essendo (mai) stata qui prima della sua assenza. Qualcosa si muove, il qualcosa si muove, esattamente la transitività del trauma che continua ad accadere senza elaborazione, alla lettera, senza spostarsi mai dalla propria prima volta che continua così ad accadere integralmente già accaduta nella propria impossibilità d’accadimento ( una cosa molto simile “all’esplorazione amebica” - di cui parla Deleuze a proposito del dinamismo dinamicida delle figure in Bacon – cui la figura si dedica più dentro il contorno, che nello spostamento medesimo”). Credo che il feltro, nel lavoro dell’artista, imponga proprio questa ritmicità claustrale che dispone simultaneamente sia la prescrizione della propria inevitabilità sia la proscrizione della propria inafferrabilità. Questa cosa atopica, questo oggetto a, così scrive Lacan, diventa perpetuamente ciò che è sempre stato nella propria ineliminabile presenza; forse è questo il “semplicemente grande” di Kant, ossia la mostrazione in fieri di ciò che non può fare a meno di mostrarsi pur (non) avendo niente da mostrare. Ovviamente la portata di tale non-evento non può non investire, nel lavoro dell’artista, anche gli aspetti che a prima vista non rientrano nell’uso intransitivo del feltro come semplice vettore enunciazionale, ossia in quei lavori che non lo dispongono direttamente. Va da sé che questo supposto processo di sorvolo, extra-materiale non può semplicemente ridursi ad una semplice trasduzione teorica applicata a monte del processo. Il feltro non abbisogna certo di esserci per marcare la sua presenza, così come non ha bisogno di mancare per non esserci mai stato. Se esso sopravvive, non alla morte come stato, alla morte come posizione d’essere, per quanto tale essere sia preceduto dal segno negativo, bensì nella morte , nel processo del suo interminabile morire, allora noi non potremo non pensare che esso sopravvive da sempre, da prima ancora d’aver avuto inizio, esattamente come indica Freud a proposito del trauma. Si potrebbe arrivare a dire che se il feltro, in questo lavoro, si sacrifica, lo fa per restare, “per assicurarsi la propria protezione, per legarsi a se stesso, saldamente, diventare se stesso, per sé, unito a sé”, scrive Derrida. Il feltro si sussume qui interamente in quella sostanza che soltanto sorge senza calare in se stessa, meno come Abgrund, inteso appunto come abisso in cui si cade per sprofondamento del fondamento che come Urgrund, non-fondo costitutivo di tutto ciò che si forma “fissandosi in impotenza”, scrive Levinas. C’è del feltro, solo questa cosa sarebbe in qualche misura degna di trasmissione (ammesso e non concesso che ciò sia possibile), e non perché come una testimonianza viva impedisca l’oblio dell’inimmaginabile, ma perché trasmetta l’inimmaginabile stesso, l’intraducibile, l’innominabile o addirittura l’impensabile. Ma tutto ciò in una modalità incommensurabilmente transitiva, senza scarti, senza rimozioni, senza lutti: il feltro in de Lorenzo ripete solo ciò che la prima volta non sarà mai in grado di far accadere, e precisamente la reiterazione infinita che non indosserà mai le mentite spoglie di ciò che manca o che non c’è proprio per marcare la sua presenza. Il feltro (non) manca di nulla proprio perchè niente gli appartiene che non sia il precipitato nucleare, il nocciolo indecostruibile di contingenza e di necessità che infetta ogni scorza significante; l’osso, la contrazione asintomale su cui il significante scivola condannandosi a lambire in eterno quel pieno di vuoto, quell’attività senza potere sul quale il lavoro non può che tentare di costruire barricate proprio per contenere o sventare, una volta di più, la propria interminabile elisione significante. La trama del trauma consiste infatti in una sorta di non-evanescenza come impossibile rinnovamento del presente, una positività dell’al di qua che dura senza avvenire, senza nessuno scarto o trascendenza, estenuandosi nell’assoluto asservimento a sé, nella pietrificazione in sé che ha sempre già rotto con il passato nella misura in cui dura senza nessuna durata, in una morte che non viene. Il feltro domina ora sul proprio attributo, esso ‘significa’ come limite infigurabile, ovvero nel suo reale più proprio, nel suo reale irriducibile alla catena significante in cui esso stesso non può che raffigurarsi come l’incarnazione stessa d’un impossibilità genealogica; ciò che non cessa mai di mostrarsi si rovescia in ciò che cessa di
non mostrarsi. Questa è l’estimità irriducibile e segregata del feltro nel feltro, né fuori né dentro - esattamente come accade per il trauma - esso ritorna, senza esserci mai stato, allo stato inorganico in cui ciò che viene temuto come esterno è già da sempre presente all’interno. Il feltro in De Lorenzo afferma senza affermazione e trasgredisce senza trasgressione, esso prende atto, si prende sul proprio atto rimanendoci integralmente infitto senza possibilità o passibilità derivativa, costituendo il centro vuoto sul quale far affaccendare gli anticorpi plastici, che da sempre e per sempre orfani della loro matrice, impalcheranno senza requie il cenotafio sintomale atto a coprire ciò che per antonomasia non potrà che restare oscenamente esposto malgrado ogni esposizione. Potremmo arrivare persino a dire che il feltro ci rimarrebbe totalmente inaccessibile se appunto non affiorasse in immagini che non possono non tradirlo proprio nell’intento estremo di non farlo? La ritenzione in atto dell’atto del feltro dis-fa infatti, attraverso la corea del seppellimento, ciò che il feltro non potrà mai mettere in pratica. Essa infatti si plasma attraverso l’incavo e l’alzata di un’accumulazione che sommerge e stratifica la falla cieca del feltro-trauma; si verifica una sindrome del rigonfiamento, della tumulazione, come la copertura di una tomba che custodisce, nell’inesausta elevazione, la spoglia di una minaccia anomica, il cadavere recalcitrante, lo schibboleth vivo del feltro ( “il profondo allora, un allora mai abbastanza”, scrive Levinas), con il quale nessun confronto è pensabile né tantomeno attuabile. L’esposizione neutra e neutralizzata del feltro e del trauma nel lavoro dell’artista, ricorda molto da vicino ciò che lo psicanalista francese André Green teorizza a proposito di ciò che lui chiama psicosi bianca. Questa condizione psicotica si caratterizza primariamente come una sorta di vuoto di pensiero, di una impossibilità si simbolizzazione dell’assenza dell’oggetto, la quale comporta, come scrive a proposito Massimo Recalcati, “l’esistenza costante di un oggetto intrusivamente presente”, il quale, esattamente come il feltro nel lavoro di De Lorenzo, “ non si assentifica mai (mediante una qualche rimozione), ma si mantiene presente nella paralisi indelebile di una presenza che, proprio per continuare ad incarnare l’irriducibilità atarassica che la contraddistingue, resterà per sempre e da sempre confinata nell’al di qua di un “gelo semantico” (ancora Recalcati) che nessuna presenza riuscirà a surriscaldare. Il feltro impone e dispone l’impasse coercitivo di un’estrinsecazione che manca di qualsiasi esperienza di mancanza; implacabile, senza nessuna perdita o scolatura, il feltro ha delineato se stesso in una sorta di struttura matriciale senza che ve ne sia necessariamente la manifestazione palese, mostrificandosi, o meglio ancora mortificandosi in una totale assenza di indici diagnostici che potrebbero desomatizzare la presentificazione cieca della sua tirannica in-consistenza. Tutto ciò che nasce attorno a questo vuoto senza vuoto, il lavoro stesso dell’artista in ultima analisi, sembra sottostare a ciò che, mutuando Lacan, potremmo forse chiamare l’imballamento del pensiero plastico, che altro non segnala che il dissesto fondamentale dell’ordine simbolico. In altre parole il simbolo, ciò che appare sotto-comparizione non aspira la cosa-feltro, non l’uccide, trovandosi invece come sopraffatto da un’eccesso di presenza di questa cosa e dal costitutivo difetto del suo trattamento e intrattenimento significante. In difetto dunque, ciò che si mostra in De Lorenzo, si sparge e si raccoglie nel ritrarsi del ritrarsi di un lavoro che argina e rimargina senza fine e senza fini il lutto anasemico del feltro che ingiunge così, a tutto ciò che potremmo definire l’acronimo del plastico, di non sapere cosa mostrare prima di aver somatizzato, per così dire, senza somatizzazione, il trauma bianco che aderisce senza aderenza a questa metastasi dell’interruzione simbolica che caratterizza appunto la catastrofe generalizzata del proprio affiorare in una continua emergenza indicale. Emergenza che si determina come l’apertura stessa in cui il lavoro si presenta, producendosi in un qualcosa che si mette ad avanzare ( nel doppio senso di progredire ma anche di farsi resto) proprio come ciò che si ritrae e si chiude, cioè come insanabile riserva. In De Lorenzo si mostra, direi quasi programmaticamente, il lavoro d’incorporazione criptica che il lavoro subisce (ad opera del feltro) senza portarne direttamente le stimmate. L’incorporazione consiste in una zona, una cripta appunto, sepolta nell’io di cui l’io stesso non può dare assolutamente ragione pur essendone totalmente ma inconsapevolmente affetto. Nel nostro caso l’effetto senza effetti del feltro che consiste in una sorta di cripta calcinata di sé e sulla quale ciò che si mostra non ha nessuna presa introiettiva, lavora inoperosamente sepolta viva nel ritorno plastico di qualcosa che soffre la presenza di un c’è senza nome che non salva e che ne corrode e corrompe silenziosamente la seppur instabile teleologia, rimanendole totalmente incommensurabile, inassimilabile.
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AL TRA(U)MA
lavoro di Daniela De Lorenzo
La Vita non vuole guarire.
Jacques Lacan
Il feltro in Agile assume una doppia valenza destrutturante, simultaneamente centrifuga e centripeta. La figura si trova letteralmente infestata dal di dentro e dal di fuori dalla pressione d’infeltrimento traumatico che slabbra i bordi di un’impossibile attuazione. La storia senza storia del feltro in Daniela De Lorenzo (lo si ravvisa del resto ‘cronicamente’ in tutto il suo lavoro) assumerebbe così una doppia pulsione chiasmica, quella di uno spostamento, una rottura, una mutazione, scarto senza origine, e quella di cadenza di un’erosione progressivamente a luogo, di un’elisione estenuata dal non essere mai stata assente, in altre parole, e precisamente con quelle di Derrida, “ di un’astrazione empirica senza estrazione dal luogo natio”. Parafrasando il Barthes della Camera Chiara, il feltro assorbe indecidibilmente ambedue le funzioni che il semiologo francese attribuisce alla resa fotografica, lo studium e il punctum. Questa incoercibile sovrapposizione è del resto ravvisabile anche nel lessico lacaniano, essa si può riferire al concetto di doma-sguardo. Esso s’instaura appunto per sbarrare la strada, rendendo perciò comunicabile l’irruzione neutra e neutralizzante del trauma, detto altrimenti di tutto ciò che per antonomasia non può essere esperito de visu; il reale. Accanto a questa accezione se ne sovrappone però subitamente un’altra ( ma a guardare bene le due definizioni sono esattamente le facce della medesima medaglia) che intende il doma-sguardo come la cosa stessa che così appare tale e quale, proprio nell’impossibilità di essere esperita. Una doppia interdizione dunque, una intransitiva e una transitiva. Nel caso di Agile il feltro agisce attraverso questo doppio regime paramimetico, uno che fa vedere attraverso ciò che non può essere visto e uno che non fa vedere attraverso ciò che può essere visto. Ecco che in Agile il doma-sguardo dom(in)a il doma-sguardo stesso, dall’interno e dall’esterno. Il feltro-punctum come l’occhio o meglio l’orbita del feltro che s’installa come caput mortuum sulla figura, come terminale d’assorbimento visivo che inaugura, sempre di nuovo, la strategia dell’ispessimento tumulante del cadavere infeltrito di sé di cui parlavamo sopra. Lo sguardo imbalsama e mummifica così, attraverso le falde ritenzionali della propria pulsione legante, il nucleo astenico ed incriptato del feltro, concentrando proprio su di esso il fuoco incrociato della propria resa o scena simbolica che in tal modo continua a simbolizzare a vuoto il suo vuoto. Il feltro-studium che comprende la figura, sollevandola, in tutta la sua tautologia, non già dal suo ruolo , ma bensì nel suo ruolo, assegnandoli una sorta di protoscena su cui inscenare una qualsiasi scena. In questo caso il feltro ipostatizza - ma ciò accadrà anche in altri lavori - anche cromaticamente l’organo interno più legato alla dissoluzione traumatica; il fegato. Il feltro così, arrossato nel più interno dell’esterno di sé, secerne nel fuori campo più all’interno di sé, il sintomo d’incorporazione celibe, l’inclusione clandestina che balbetta senza fine il ritornello bloccato di ciò che non può non consistere che attraverso l’inesausta comparizione della letteralizzazione in atto del proprio divieto di mostrarsi. Esso, come il trauma o la cripta del resto, non è ciò che sfugge al senso ma ciò da cui non si sfugge,. Ma in che modo? Se la dinamica del divieto della rappresentazione non può che incardinarsi in una rappresentazione, a che tipo di rappresentazione assistiamo? Si può arrivare a postulare la possibilità di tale evento? Un evento talmente colmo di presenza da non avere nessuna necessità di dispiegarla? Proprio così, in De Lorenzo il lavoro si tiene come in una sorta di riserva che ostacola la propria capienza associativa tramite la presenza indelebile, l’ostacolo auto-fagico che mostra di sé tutto ciò di cui non può sbarazzarsi in una presenza. Se prendiamo ad esempio Harmonica, vediamo costituirsi in esso, direi quasi esemplarmente, l’affezione di ciò che deve fare i conti con qualcosa che impegna proprio attraverso l’impossibilità di farlo. Una specie di responsabilità irresponsabile che ingiunge al mostrarsi la riserva sempre già estenuata e quindi immotivatamente corrisposta di un qualcosa di cui non si conosce né la causa né origine e che tuttavia s’infiltra senza fine in un’ incoazione metaforicamente asemantica. Una metafora di cui si è smarrito la causa scatenante, ecco un’altra accezione del feltro. Questa metafora balbetta a vuoto ciò che è costretta a ripresentare senza fine senza sapere di farlo e come farlo. Assistiamo, come in Agile, all’incagliarsi del ritornello d’interdizione simbolica che mima audiovisivamente, l’imbricazione impossibile di una vedovanza bianca. Il feltro gira su se stesso, tramite un automaton, un dispositivo elettrico che lo riavvolge e lo reinfeta senza soluzione di continuità, elevandolo, sollevandolo nella propria presa di possesso anomica come oggetto-aggetto svincolato da qualsiasi agglutinazione significante,. Il feltro si leva ( nel doppio senso di porsi in una ritrazione ) verticalmente, seppellendosi, avvitandosi ( conficcando i chiodi per sigillare la propria bara ) nella torsione interna più esposta di sé, restando, per così dire, nel tempo morto in cui si è stappato dal proprio bisogno. Contestualmente ascoltiamo il ‘suono orizzontale’, entropico, di biglie da biliardo .che si urtano. Più precisamente ascoltiamo meno un tocco che un rintocco che altro non innesca che il rapporto senza rapporto che il feltro intrattiene con l’impossibilità a perdere di una simbolizzazione in perpetua convalescenza. Assumere in qualche modo qualcosa alla muraglia di prensilità cieca del feltro è compito assai arduo e di difficile decifrazione. Voglio dire che, nel caso di De Lorenzo, nel momento esatto in cui il feltro cessa di avvenire proprio per avvenire, ciò che (non) si cancella mostrandosi non è altro che il supplemento mortifero del simbolico che sostituisce, attraverso la propria impossibilità in atto, il difetto di significazione che questo trauma bianco ha incubato prima e dopo la sua presenza o assenza. Non è possibile non mostrare l’infeltrimento senza correre il rischio di affidarlo, e perciò di neutralizzarlo relegandolo in una qualche metempsicosi ineffabile, escatologica. Per evitare ciò altro non resta che ‘certificare’ questa impasse generativa che sfugge all’economia del significante azionandone però il principio causativo, il motore immobile. Il feltro non fa altro che reiterare senza soluzione di continuità l’incaglio generativo che sta alla base di una risposta impossibile ad un domanda parimenti impossibile da formulare; infatti, se non si può non parlare sempre metaforicamente della metafora del feltro, come si può determinare il momento in cui la si assume come proprio tema, con il suo nome proprio? La risposta impossibile pare proprio incarnarsi nel fatto che, lacanianamente parlando, il difetto di simbolizzazione - che sta alla base di ciò che si dice proprio nell’impossibilità di farlo - fa quel che vuole, tra la riserva, il trattenersi, e ciò che si vede, metaforicamente. Ecco che ciò che apparentemente si poteva mostrare come irrelato, addirittura arbitrario, (il suono delle biglie) si rivela essere il sostituto in tempo reale, la tautologia tautologica di un tutto-già-da-dire-da-sempre-detto, la metafora bianca bloccata, incagliata in sé che somatizza per sempre la propria irrecuperabile topologia. Il suono di Harmonica si fa dunque barratura in perdita di un defilé mimetico che, proprio per mostrare ciò che non può mostrare, prende per così dire, il posto di se stesso nell’impossibilità di farlo, mettendo il qualcosa al posto del qualcosa nello stato a luogo dinamogeno e dinamicida che la cripta del feltro installa senza requie e senza reliquie. In altre parole il feltro qui pone una specie di prossemica della lontananza, uno iato che interrompe, un arco teso tra ciò che resta senza significato e ciò che significa senza restare. Si potrebbe anche riassumerlo con una terminologia particolarmente intonata al lavoro dell’artista; il difetto di simbolizzazione teso fra l’interdizione del simbolico e la simbolizzazione dell’interdizione è quasi sovrapponibile alla terza fase del grande attacco isterico teorizzato da Jean-Martin Charcot; la fase clonica. Questa fase potrebbe corrispondere quasi per antonomasia, a tutto ciò che andiamo approcciando a proposito del trauma. La fase clonica è la fase estrema che decede nel momento esatto in cui s’incarna e s’inarca nel vuoto attimale che allucina la resilienza subliminale di un’incompossibilità posturale. Essa non è già più l’attacco e non è ancora la fase di risoluzione; è piuttosto la sospensione che, come l’atto rispetto all’azione, si ripete restando sospesa, già conclusa, nel momento in cui non è più, bloccata nella radicale attivazione di una passività simbolica infitta tra il noumeno dell’incorporazione (criptica, come dicevamo) e l’impossibilità di esserlo proprio per farsene portatore sano e quindi inconsapevole. L’ecceità del feltro si presenta, per così dire, a se stessa, sempre già prima della possibilità stessa di se stessa, esso c’è perché non è mai stato lì. L’habeas corpus incancellabile, l’osso di reale di cui parla Lacan, il feltro significa niente, un niente che esiste proprio per separarsi dall’altro, per prenderne le distanze, un niente che mostra l’essere niente attraverso una coazione a rimanere al di qua di una presenza che non è in quanto c’è e al di qua di un tempo che non passa in quanto dura. In lavori come Pantomima, A Parte, Cura la tua destra, l’atto costitutivo del tempo-feltro si coglie, per così dire, sul fatto, precisamente nell’azione passiva di un tempo traumatizzato che blocca il suo infinito scorrimento nella durata che non lo qualifica, che non possiede alcuna significazione, alcuna motricità orientata, alcun importo rappresentativo, consistendo appunto nel grafo muto che più nulla è in diritto o in grado di manifestare. Questa proprietà essenziale non può in alcun modo venire rappresentata, ma paradossalmente è proprio questo divieto che, come una specie di guanto rovesciato, (in)calza a tergo il simbolico che riesce a far “asparire” (Giorgio Caproni) il feltro nel tutt’altro di visibiltà da cui non si è mai mosso pur non avendone mai fatto parte. Il feltro qui si dispone nell’indisponibilità di un reale del quale non può certificare l’esistenza ma solo la presenza come “eccesso di tutto quello che in questo modo rimane occultato nell’essere, e vi riposa” (Jean-Christophe Bailly), e precisamente in una sorta di latenza sempre già venuta al di qua dell’immagine latente sempre già realizzata. Si tratterà infatti, sempre sulla scorta di Bailly, di capire a quale distanza il feltro si è tenuto dalla rappresentazione, nell’esatto momento in cui non avrà mai potuto farlo. Si tratterà forse di assistere alla scena primaria del feltro che sa che quanto si vede non è da vedere. Si tratterà di sbirciare attraverso il sipario strappato che scoperchia la forma a fondo perduto del feltro che pone di sé l’evidenza del fatto che nulla renderà ragione di se stesso. Sipario che si colloca però su di un piano diametralmente opposto rispetto a ciò che comunemente ci si aspetta da una scena già da sempre estenuata, sempre già esaurita che conseguentemente aspetta teleologicamente e indifferentemente la decollazione o il guinzaglio del proprio sipario. Infatti sembrerebbe che il precipitare del sipario tenda a situarsi immancabilmente e diacronicamente aposteriori, a cose fatte, a priori, come sudario o velo pietoso che viene a significare, a coprire, a bendare il vulnus, la piaga aperta del ‘si è svolto’ della flagranza rappresa del senza tempo dell’atto che pur essendo concluso, nondimeno continua a spargere le sue spore d’attualizzazione in pre-senza sia progressiva che regressiva, sia centrifuga che centripeta. Ciò che inversamente accade o, visto che si tratta del sipario, cala nella pratica criptoforica (portatrice di cripta) imbastita dall’artista sempre a dispetto di sé, è ciò che anacronisticamente preesiste in un’inassimilata posterità; che si sottrae sul posto pervasivamente assoluto di una presenza irremovibile, incancellabile, in altre parole, ancora il reale. Aby Warburg, a proposito di ciò che egli chiama anacronismo inteso come risacca plastica che appunto ritorna continuamente sul luogo del delitto della visibilità ( si pensi solo, tra le altre cose, alla sua costitutivamente incompiuta Mnemosyne), parla di nachleben, sopravvivenza, ritornanza, formula di pathos, in altri termini ancora di sipario, ma di un tipo affatto particolare. Se infatti il reale altro non è che una cicatrice a priori innescata dal fallimento operoso e in diretta della simbolizzazione, se il fallimento è proprio l’oggetto-feltro che fonda e sfonda, che fora ed ottura ad un tempo la sua stessa possibilità d’inscrizione impossibile, ecco che è proprio sul simbolico stesso, sul collo del sipario stesso, che il reale cala da per sempre la lama del proprio sipario. Un sipario scleroftalmico, senza palpebre e quindi perennemente aperto sulla scena primaria della propria chiusura a cui il simbolico corrisponde, partecipando agendo, recitando il copione della doppia rimozione di cui parlavamo sopra; la visione come rimozione del divieto e il divieto come rimozione della visione. Ritorniamo così a ciò che intendevamo quando traslavamo la pulsione di morte con la pulsione del feltro. L’animazione del trauma, la motilità senza moto che non progredisce e non regredisce, che non è ferma e che non si muove. Una figura che muove lo stato a luogo che si ferma nel moto a luogo. Animazione di Daniela De Lorenzo incarna tautologicamente ciò che il trauma dice di sé come “discorso senza parole”, direbbe ancora Lacan. Si vede qui una sorta di corea segregazionista, conficcata tra la bidimensionalità e la tridimensionalità. La figura si muove davanti al muro, facendosi ancora e letteralmente sipario strappato del reale, tentando l’aggetto tridimensionale che lungi dal risolverla in qualcos’altro altro non fa che saldarla ossimoricamente al non-più-bidimensionale-e-non-ancora-tridimensionale che la risolve nel tutt’altro che è sempre stata. La stessa postura è contagiata dal morbo diremmo unidimensionale o infradimensionale del feltro che tarla la simbolizzazione che a questo punto simbolizza, per così dire, solo la simbolizzazione di sé, la propria impossibilità di ac-cedere a sé. L’acrostico chiodato alla visibilità di Animazione si diparte dall’inorganico della morte-feltro nel tentativo di farvi ritorno, facendosi così cassa o bara di risonanza della causa persa del feltro, che gli ingiunge il movimento inceppato della propria impossibile stasi. Derrida, a proposito dell’Ulisse di Joyce, parla di un farsi grammofono attraverso ciò che lui definisce “le oui dire”, il dire sì, l’accordare senza accordo, l’acconsentire a portare il peso di una responsabilità innomiminabile, impensabile, senza misura, una responsabilità talmente irresponsabile da essere totalmente estranea a chi ne trasporta l’intollerabile carico d’inconoscibilità; esattamente come accade nella dissolvenza infeltrita sulla figura di Animazione che spalanca di nuovo il sipario chiuso della bocca incagliata in una paresi motile dell’assecondamento. Una paresi che salda, sciogliendolo, il legame indissolubile del feltro con la sua simbolizzazione difettiva che si rianima ad ogni istante in quanto deve restare fuori dalla sua portata, da ciò che deve portare senza saperlo, tautologizzando così il messianesimo senza messianesimo di una tensione che l’immagine intrattiene con la propria impossibilità.
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