David Claerbout     
  Long Goodbye, 2007 video proiezione a colori, monocanale, 12 min Courtesy Bergen Art Museum  
David Claerbout  
Saretto Cincinelli   Philippe Dubois  
 
   
 

 

Saretto Cincinelli
David Claerbout. Turbare il tempo. Moltiplicare l’istante

Sento il bisogno di aprire lo sguardo e per questo il tempo è il mio strumento.
David Claerbout

 

 

La storia di David Claerbout prende le mosse da un nucleo di lavori tesi a ri-animare foto di archivio. La sua ricerca sembra dunque avere inizio con la diade fisso/animato, quindi non cominciare affatto. Iniziare con la ri-animazione di qualcosa di pre-esistente, significa infatti iniziare dal ri-cominciamento, facendo svanire l’idea stessa di origine.
Per Claerbout l’origine è radicalmente contingente, non rimanda ad alcun prima di, non è una né semplice, non coincide con una sorgente ma con una piega, una duplicazione e una complicazione originarie. Per Claerbout, come per Benjamin, l’origine non si identifica con “il divenire di ciò che scaturisce” ma, al contrario, con “ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare”. “L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita” 1.
Nei primi lavori dell’artista, infatti, non viene concettualmente prima la fotografia e dopo il video, o prima il video e dopo la fotografia, quanto piuttosto l’idea, incubata per lungo tempo, di modificare e trasformare delle immagini di affezione 2. L’accento non deve però cadere sul verbo “ri-animare”, poiché anche quest’ultimo va inteso in una accezione particolare: l’artista non si propone di resuscitare tout court ma quasi...
Ci pare di poter dire che l’intento che muove queste prime opere sia non tanto quello di resuscitare la foto quanto la volontà di sollecitare e far vibrare, accarezzare 3, il suo è stato 4. Claerbout non è un mago né un prestigiatore, a lui, più che la riuscita della rianimazione interessa, del resto, il suo necessario mancare il bersaglio: la messa in campo di un quasi capace di testimoniare l’ineludibile differenza che separa la medusazione della foto dal permutare dell’immagine video; in questione, qui, è soprattutto, la (im)possibilità di sanare un anacronismo, il paradossale tentativo di annullare il ritardo originario fra la posa e la sua restituzione, quello scarto differenziale che, separando movimento e immobilità, rimanda ad infinitum l’epifania di una resurrezione.
Paragonato alla foto, sguardo di Medusa che cattura ogni presenza trasformandola immediatamente in icona, il video appare una sorta di antidoto, capace di resuscitare quest’ultima al suo dinamismo: è sovrapponendo queste divergenti peculiarità all’interno del corpo unico di un’immagine plurale che Claerbout crea quell’impasse tra movimento e immobilità, quella compresenza simultanea di non ora e adesso che costituisce il nucleo di gran parte delle sue prime opere, quali Kindergarten Antonio Sant’Elia, 1932 (1998), Untitled (Single-Channel View) (1998-2000), Retrospection (2000), Vietnam, 1967, near Duc Pho (reconstruction after Hiromichi Mine) (2001) che si offrono come una sorta di tableaux vivants del movimento e di trompe-l’oeil temporali.

 


David Claerbout

  Untitled (Single-Channel View), 1998-2000 video proiezione b/n, monocanale, 10 min loop
    Courtesy Musée d’Art moderne et contemporain de Strasbourg
 
  

Untitled (Single-Channel View) mostra l’aula di una scuola media con gli studenti, sui loro banchi, in un momento di pausa della lezione. Tutti, tranne uno, sembrano guardare fuori dalla grande finestra a vetri della classe. Si ha l’impressione che ciò che attira la loro attenzione, più che un evento esterno, sia la sua possibilità. Il solo movimento visibile in questa inquadratura che taglia fuori la cattedra, è l’ombra proiettata sulla parete di fondo dell’aula da due alberi, fuori campo, le cui foglie ondeggiano lievemente nel vento.
A prima vista il frame si presenta immobile, come la proiezione di una foto in bianco e nero.
Solo après coup l’occhio scorge la lieve oscillazione delle foglie che sembra restituire un fremito di vita ad una immagine che si annunciava sigillata in se stessa; oscillazione che, col suo solo apparire, rende immediatamente poroso il confine fra passato e presente, facendo vacillare ogni concetto di tempo lineare di fronte all’incongruo coesistere di qui ed ora e di là ed allora riferiti alla medesima immagine.
Ri-animare una foto d’archivio, mantenendone intatto il potere di verosimiglianza, significa rendere indecidibile il confine tra ciò che è fotografia e ciò che appare fotografia, creando un cortocircuito che finisce, fatalmente, per mettere in crisi le aspettative dello spettatore.
Lavorando ad uno ad uno i singoli pixel che compongono le ombre degli alberi della foto analogica di partenza, Claerbout instaura una dialettica in stato d’arresto tra l’è stato fotografico e il sempre ora del video, introducendo all’interno dell’immagine un’impercettibile vibrazione che sorprende lo spettatore: egli assiste, infatti, al fondersi senza confondersi di due immagini incompossibili che producono l’inedita sensazione di una coesistenza di reale e virtuale a proposito di un medesimo evento. Mentre il dinamismo del video reclama, infatti, un ancoraggio al presente, l’immobilità della fotografia sembra chiamarsene fuori, abitare una lacuna temporale, una precedenza a-cronologica che risuona ambiguamente sia come eco che come matrice dell’immagine in movimento.
È ciò a provocare l’effetto quasi ipnotico che perturba l’immediato hic et nunc della nostra percezione.
Tutta giocata nell’abolizione del confine che separa immagine della realtà e realtà dell’immagine, Untitled (Single-Channel View) non si propone di ingannare lo spettatore tramite un eccesso di verosimiglianza ma, al contrario, di sedurlo con l’introduzione di un’omeopatica dose d’irrealtà; nonostante la paradossalità del lieve movimento, concentrato unicamente su una porzione dell’immagine, dichiari esplicitamente il proprio artificio, non si dissolve la seduzione che emana dalla lentissima visione di un’immagine in movimento che pare catturata dal fantasma della fotografia. La fascinazione che scaturisce dalle opere di Claerbout non deriva da una dimensione in più ma, se è possibile dir così, da una dimensione in meno dell’immagine. “Occorre – scrive Baudrillard – che in ogni immagine qualcosa scompaia” ma che “la sparizione resti viva”. Sembra esser questa la via percorsa dalle videoanimazioni “immobili” dell’artista.
Come Untitled (Single-Channel View), anche altre opere della prima fase della ricerca di Claerbout da Ruurlo, Bocurloscheweg, 1910 (1997), a Kindergarten Antonio Sant’Elia, 1932 (1998), sembrano “generarsi” dall’inquadratura fissa di una foto d’archivio, generalmente databile nella prima metà del Novecento; leggermente diverse appaiono invece Retrospection (2000) e Vietnam,1967, near Duc Pho (reconstruction after Hiromichi Mine).
La prima – anonima fotoricordo di una classe ginnasiale degli anni trenta – perché, oltre al sonoro, che ne denuncia la dimensione temporale, introduce degli zoom (sorta di soggettive dello sguardo dello spettatore) che vanno di volta in volta ad isolare il volto di un giovane che, grazie ad un sottile lavoro di animazione, per qualche istante pare ri-prendere vita sotto lo sguardo che lo ha condotto in primo piano; la seconda – immagine di un aereo americano in frantumi nel cielo di un paesaggio vietnamita – perché pur presentandosi come un’immagine muta, introduce il colore, dissolvendo la patina temporale che avvolge i precedenti lavori e soprattutto perché “spalma” l’animazione su tutto lo sfondo paesaggistico, col risultato apparentemente paradossale di mimetizzare ancor di più il movimento introdotto surrettiziamente nell’immagine. In questa occasione infatti l’effetto dell’animazione, più impercettibile e diffusa, e quindi meno facilmente rilevabile, sembra attutito ad arte per trattenere l’immagine nel contrappunto del tempo, in un “vibrato” che pare non conoscere sviluppo.


David Claerbout

   Bordeaux Piece, 2004 video proiezione a colori, monocale, dual mono
   in cuffia e speaker, 13 h 43 min Courtesy collezione Sylve Winckler
  

Le descrizioni verbali di queste opere risultano problematiche perché finiscono per portare allo scoperto i minimi eventi che esse mimetizzano al proprio interno, esponendoli alla svista. Nel vis à vis con l’opera, più che la chiara percezione dell’animazione indotta, emerge, infatti, l’aura di un eccesso o di un difetto che, non immediatamente localizzabili, perturbano in sordina la visione.
È questo perturbamento, più che la secca immobilità o l’impercettibile movenza dell’immagine, a in-formare, sempre di nuovo, l’orizzonte di tableaux vivants del movimento che si sottraggono volontariamente all’eloquenza e alla prevedibilità che caratterizza l’attuale uso del linguaggio audiovisivo. La ricerca di Claerbout non si limita del resto ad in-stallare (nella duplice accezione di “porre in stallo” e “mettere in scena”) l’immagine veicolata dal video, tenta anche, parallelamente, di sommuovere e incrinare la staticità della foto in quanto tale. Un’ambiguità costitutiva circa la genesi dell’immagine è riscontrabile, infatti, anche nella serie Venice Lightboxes (2000), che non casualmente l’artista definisce “photographies conditonelles”, in cui il tempo necessario richiesto dalla messa a punto percettiva di immagini intraviste nell’oscurità e giocate sulle gradazioni del nero, sembra produrre una sorta di oscillazione interna alla visione, che tende a far perdere alla foto la sua caratteristica di immutabile fissità.
Accostata alle opere precedenti, Venice Lightboxes crea una risonanza tra il fantasma della foto e quello del video che paiono abitare stabilmente la ricerca dell’artista.
In entrambi i casi, colti da un moto di stupore, ci ritroviamo intempestivamente esitanti sulla natura dell’oggetto della nostra contemplazione, un’esitazione che mette in crisi il meccanismo di visione già in atto: ciò che pensavamo essere un’immagine fissa va completamente ripensato come stasi di un’immagine animata o viceversa, un’immagine statica pare muoversi leggermente, con il risultato che le caratteristiche proprie ai due diversi regimi di rappresentazione si trovano entrambe rimesse in questione, assieme all’orizzonte delle nostre aspettative.
“Evito” – dichiara Claerbout – “il confinamento dell’opera entro una durata invariabile, come nel cinema, ma evito anche che l’opera diventi un oggetto costante, come un quadro o un’immagine. I due termini sono in tensione tra loro: non si tratta di cinema e neppure di un montaggio che ha qualcosa da raccontare, ma ci sono maggiori possibilità di fuga e di proiezione, più spazio per l’indeterminatezza rispetto alla pittura”5.


David Claerbout

   Vietnam, 1967, near Duc Pho (reconstruction after Hiromichi Mine), 2001
     Video proiezione col., monocanale 3 min loop
  
   


Non approvo l’egemonia del montaggio, la sua
erotizzazione del tempo e del luogo. Ciò che mi interessa
è trovare un modo per guardare una superficie
che si muove senza che lo spettatore rimanga passivo.
David Claerbout


Mentre la maggioranza dei film o dei video sembrano realizzati per farci dimenticare il tempo che passa e la nostra condizione di spettatori, quelli di Claerbout paiono esistere, all’opposto, per farceli percepire. La forza di queste opere risiede tutta nella seduzione impropria di una staticità mancata o di una apparente reiterazione dello “stesso” che aiuta ad immergersi in una visione più che a sperare in un’azione che risolva la scena. Quando, finalmente, non attendiamo più, improvvisamente, ci rendiamo conto après coup di ciò che, già da sempre, era esposto alla svista e il piano dell’immagine diviene allora una sorta di specchio che ci rinvia l’incertezza del nostro stesso spaesamento.
È forse per tematizzare questa sorta di spiazzamento minimo, ma costitutivo, che Claerbout realizza, nei primi anni del 2000, alcune opere come Untitled (Carl & Julie) (2000), Study for a Portrait (Violetta) (2001) e Rocking Chair (2003) che implicano minimi motivi di interattività.
Untitled (Carl & Julie) mostra un uomo e una ragazzina seduti all’ombra della loggia di una abitazione modernista. La ragazzina è occupata a disegnare, e volge le spalle allo spettatore, mentre l’uomo posizionato di fronte a lei guarda in direzione della camera. Ogni visitatore, entrando nella sala, aziona inconsapevolmente un sensore e la ragazzina si volta, come se avvertisse la presenza di un intruso, per poi riprendere il suo disegno. Questa semplice azione, che non può non sorprendere, tende a cooptare lo spettatore nel “momento” pre-registrato dell’immagine, e dunque a indebolire, ancora una volta, sia pur da una diversa prospettiva, il confine fra il qui ed ora e il là e allora ma, mentre lo fa, mira, contestualmente, a farci esperire l’essere passato di quel tempo e la sua irriducibilità al presente.

David Claerbout

   Veduta dell’installazione video di Breathing Bird
     presso la Parasol unit Foundation, Londra, 2012
   


Un cortocircuito spazio-temporale non troppo dissimile è all’opera anche in Study for a Portrait (Violetta): in un piccolo ambiente, immerso nel buio, una retroproiezione su uno schermo di modeste proporzioni, mostra il volto di una giovane donna la cui espressione immobile contrasta fortemente con l’animazione dei suoi capelli mossi dal soffio costante di una brezza, la stessa che avverte lo spettatore sulla propria nuca, quando entra nella sala, quasi si trovasse in un luogo comunicante. Installato nello spazio in penombra della proiezione, c’è infatti un ventilatore che soffia quasi impercettibilmente al di sopra della sua testa, perché egli possa, in un certo senso, sperimentare direttamente l’effetto di ciò che vede. L’interattività di queste opere, come appare evidente dalla descrizione, è misuratissima. Ancora una volta Claerbout non vuole stupire ma semplicemente insinuare nella visione un contrattempo teso a sospendere, per un brevissimo periodo, la ricezione dello spettatore, come indica il paradossale Four Persons Standing (1999), film a immagine unica6 e, diversamente da tutti i precedenti, radicalmente immobile che, forse, può essere avvicinato a questi lavori solo per difetto.
Proprio perché privo di qualsiasi effetto di perturbamento dell’immagine di partenza, Four Persons Standing finisce per insinuare nello spettatore, abituato alle precedenti opzioni di Claerbout, l’attesa di un evento minimo che giustifichi la scelta del medium operata dall’artista.
L’immagine in bianco e nero, di grande formato, mostra quattro persone (due uomini e due donne) in piedi sul marciapiede all’esterno di un edificio di chiaro impianto modernista. Nella loro ostinata fissità le figure divengono prototipi umani, simili ad attori immortalati mentre recitano una parte, cosicché risulta naturale soffermarsi di fronte alla proiezione, aspettando, inutilmente, che accada qualcosa: l’insistere nell’attesa, il chiedersi perché niente si muova, divengono parte integrante dell’opera, una sorta di suo completamento, il compito che l’artista, con sottile insidia, ha predisposto.
Nonostante una strana relazione non-verbale, costruita per mezzo di silenziosi sguardi d’intesa tra i singoli personaggi conferisca alla scena un implicito dinamismo narrativo, risulta comunque difficile stabilire se di fronte ad un’opera che eternizza un’unica immagine statica si possa ancora parlare di video.
La permanenza immutabile di un’immagine non pertiene tradizionalmente alla fotografia o alla pittura?
Più che tentare di avventurarci in una risposta, resa sempre più ardua dallo sviluppo delle tecnologie digitali, ci interessa qui semplicemente rimarcare come, nonostante tutto, l’immobilità di un’immagine video o cinematografica continui ad inquietarci, ad apparirci, in un certo senso, innaturale, inadeguata per eccesso: come se l’immobilità, trasmessa con mezzi per così dire impropri, producesse un deficit nel tessuto del senso, introducesse nel discorso comunicativo un in meno, capace paradossalmente di restituire all’immagine un surplus di presenza che la fa vacillare in quanto immagine-icona. È quanto ci pare constati, sia pur indirettamente, Jean Cocteau quando scrive: “una casa fotografata e una casa filmata non si rassomigliano affatto. Per quanto non accada nulla il cinema registra lo stesso il tempo che passa”. “Il cinema” – sostiene infatti, Deleuze – “non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe il movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento”7.
Cosa accade allora quando, come nei primi video di Claerbout, e particolarmente in Four Persons Standing, macchina da presa e soggetto ripreso si immobilizzano stregandosi a vicenda?
Accade che l’immagine-movimento, ostinatamente ri-condotta verso la medusazione tipica dell’immagine fotografica, mostra una staticità mancata, precaria e vibratile che, proprio perciò, tende a spostare l’attenzione verso la dimensione temporale, sonora e strutturale dell’immagine.
Se Barthes ha potuto affermare che “il noema della fotografia si altera quando quella fotografia si anima” siamo, forse, autorizzati a parafrasarlo asserendo che, allo stesso modo, il noema del cinema (o del video) si altera quando l’immagine si immobilizza?



/David Claerbout

   Veduta della mostra personale presso Mart Rovereto, 2012/3
   


Un’inquadratura, per quanto immobile e piatta possa apparire, non sarà mai la condensazione di un momento unico, ma sempre la traccia di una durata. Una inquadratura, appunto, ma è proprio questo, lo vedremo più avanti, il problema, o per meglio dire uno dei problemi che si pongono, quando ci confrontiamo con l’immagine digitale.

[...]


 

Philippe Dubois
La materia-tempo e i suoi paradossi percettivi nell’opera di David Claerbout

 

Dire che nel cuore del lavoro e dell’opera di David Claerbout c’è il tempo, è un’ovvia banalità. Più appropriato è dimostrare come per l’artista belga il tempo, o più esattamente il tempo dell’immagine e non il tempo nell’immagine, sia inteso, letteralmente, come una materia della percezione e come tale sia all’origine di molteplici paradossi per lo spettatore. E come questo costituisca un’evoluzione storica ed estetica del pensiero visivo, tramite un superamento delle vecchie categorie del secolo scorso(un superamento che in questa sede definirei “post-fotografico”e “post-cinematografico”), è esattamente quello che vorrei dire con questo breve saggio.
….
Ampliamo e storicizziamo un po’ la questione. Abbiamo preso l’abitudine, nel corso del XX secolo (e della sua pretesa “modernità”), di contrapporre in modo estremamente manicheo il mondo (e quindi il tempo)
dell’immagine statica a quello dell’immagine in movimento, come se si trattasse di una distinzione assodata e consolidata, di un sapere acquisito nei secoli, di una storia chiaramente radicata e persino istituzionalizzata:
la fotografia da una parte (“erede del XIX secolo”), con il suo culto dell’“istante”, conquistato dalla macchina, della porzione di tempo bloccata nello status di istantanea e resa eterna nella sua condizione
di un tempo cristallizzato, la “fotografia-fotografia” quindi, contro il cinema (“arte del XX secolo”), con la sua pellicola che scorre, con le sueinquadrature “nella durata”, con i movimenti della ripresa, eccetera.Il cinema come “vera durata” con il suo tempo “reale” per lo spettatore,il cinema che passa, che scorre, che fugge, come la vita, il cinema che ci trascina, che crea una colata continua, che non si può far altro che seguire come un filo che si dipana.
Questa contrapposizione, forte e imperante, per tutto il secolo scorso ha acquisito una valenza realmente strutturante nella concezione del rapporto tra immagine (tecnologica) e tempo. Da Muybridge a Cartier Bresson, dalla cronofotografia all’istante decisivo, da Lartigue al fotoreportage, da Walter Benjamin a Roland Barthes, la fissità era ontologicamente nel cuore dell’immaginario fotografico; proprio come dai Lumière a Epstein o da Bergson a Deleuze, il movimento ha costituito il nodo fenomenologico del cinema. C’era, in questa distinzione, in questa ripartizione, qualcosa nell’ordine dell’evidenza, che ha prevalso fin dagli inizi (dalla fine del XIX secolo) e che, dopo aver funzionato per un secolo intero, e quindi alla fine del XX secolo, si è clamorosamente concettualizzata ad opera di due autorevoli teorici che hanno suggellato gli anni ottanta: da un lato Roland Barthes, che nel suo saggio, La Camerachiara (1980), sanciva il concetto di punctum, mettendo in gioco la fotografia contro il cinema (con tutti i corollari sulla posa/pausa, i tempi morti, il fermo sull’immagine, l’effetto mortifero dello scatto, eccetera). E dall’altro lato, la filosofia bergson-deluziana del cinema che dal canto suo imponeva i concetti di immagine movimento (1983) e di immagine tempo (1985), per rafforzare l’idea che il film è un perpetuo sfilare di immagini che riproduce il movimento apparente (anch’esso con i suoi corollari: il flusso, l’impeto, la fuga, l’inafferrabilità delle immagini, eccetera – e le difficoltà che ciò poteva comportare per l’esegeta di film: come arrestare il fiume, come far acquisire pensivité 1– Barthes, Bellour – a ciòche sparisce nel momento stesso in cui appare, eccetera?). Fino agli anni ottanta, la distinzione tra “fotografia” e “cinema” sembrava ancora abbastanza chiara. La linea di demarcazione era (quasi) chiaramente segnata, come se l’uno e l’altro, il mobile e l’immobile, il fisso e il mosso, l’istante e la durata, non potessero esistere se non in un rapporto di reciproca esclusione. Era sufficiente una scelta (di campo). Il tutto è piuttosto noto e ha posto le basi della modernità.
Più interessante è quello che è successo dopo. Infatti negli anni 1990-2000 – e solo oggi riusciamo a coglierne tutta la dimensione teorica (l’era del “Post”) –, diventa evidente che, per effetto del video agli inizi e in seguito soprattutto del digitale, gli ordini temporali dell’immagine si sono notevolmente elasticizzati, rendendo sempre più obsolete e indistinguibili le vecchie suddivisioni “moderniste”.
L’opposizione dichiarata (tra immobilità e movimento) si è trasformata in modulazione. Una delle caratteristiche più rilevanti delle modalità contemporanee dell’immagine, è certamente quella di cambiare costantemente la velocità, di passare da un ordine di tempo a un altro, e di farlo con la massima scioltezza, tramite variazioni senza soluzione di continuità, senza interruzioni né cambiamenti di natura. Oggi lo scorrimento non si contrappone più radicalmente alla fissità, come se si trattasse di due mondi in contraddizione tra loro. L’istante non è più il contrario della durata, così come il movimento non è più la negazione dell’immobilità. Non abbiamo più a che fare con la “fotografia contro il cinema”, ma siamo passati oltre. Sempre in un gioco tra i due. In forme di immagini (come chiamarle altrimenti?) che superano questa scissione diventata arcaica. Siamo entrati nell’era del cambiamento di velocità permanente dell’immagine, a prescindere dalla sua “natura”.
Dall’opposizione radicale (la negazione reciproca) siamo passati all’inclusione reciproca. L’immobilità (apparente) è concepita come una forma di movimento, l’istante come una forma di durata. Ed è così che
si dischiudono per la percezione, i paradossi temporali delle immagini contemporanee. Ci troviamo, per esempio, nell’immobile mobile (ed è esattamente questo il caso di Untitled di Claerbout descritto sopra), o nel mobile immobile (la posa lunga in fotografia, il fermo immagine in un film che scorre, la veduta panoramica nell’immagine statica, eccetera) o nel rallentato-accelerato sistematico (non si nota praticamente più la differenza perché si è perso il tempo di riferimento, come nel morphing che crea una temporalità e una velocità di immagine sue proprie).
Certo, non si tratta di forme “nuove”. Erano già presenti, per esempio, nelle avanguardie degli anni venti, solo che oggi tendono a diventare una norma (finalmente Marey sta forse per avere la meglio su Lumière…). Basta dialogare con gli artisti contemporanei per rendersi conto che non hanno più gli stessi rapporti percettivi o immaginativi, le stesse forme di analisi o gli stessi modi di pensare della generazione precedente, quella della “fotografia-fotografia” o del “cinema-cinema”. Siamo entrati in un’era che è al contempo “post-fotografica” e “post-cinematografica”, in cui il tempo e il movimento sono diventati delle forme di elasticità dell’immagine e non sono più un dato di fatto (una volta per tutte) di essa. Al di là della “fotografia” e del “cinema”, l’immagine contemporanea fabbrica il proprio tempo,
esattamente come si lavora un materiale, ed è questa materia-tempo dell’immagine che si offre direttamente alla percezione dello spettatore.

È questo cambiamento sostanziale che mi interessa sopra ogni cosa e di cui l’opera di David Claerbout mi sembra nell’insieme il sintomo perfetto, tra i più clamorosi ed eccellenti.

[...]

 
 
 

Note
David Claerbout  Mart Rovereto  26 ottobre 2012 / 13 gennaio 2013  A cura di Saretto Cincinelli

1. Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980, p. 24. Cfr. anche G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 80.
2. “…Nei corsi di litografia ho imparato a pensare alle procedure, a pre-visualizzare il risultato, ad essere paziente... Ho provato la fotografia, ma l’ho trovata deludente. Volevo sempre modificare il risultato. A un certo punto ho deciso di non produrre niente per un anno intero, passando il tempo ad osservar e e animare mentalmente quello che avevo trovato di incompleto in una fotografia. E quello è stato il momento in cui ce l’ho fatta…” (D. Claerbout, David Claerbout. L’incredibile essenza del Tempo, intervista di S. Manganaro, in “Drome”, 17, primavera-estate 2010). ~
3. D. Claerbout, Entretien, intervista di C. van Assche, in David Claerbout, The Shape of Time, a cura di id., catalogo della mostra (Parigi, Centre Georges Pompidou, 2 ottobre 2007 -7 gennaio 2008) Editions du Centre Pompidou -JRP/Ringer, Parigi-Zurigo 2008, p. 9. I passaggi tratti da questa intervista sono stati tradotti dall’originale in francese.
4. È questo, notoriamente, il noema della fotografia secondo Roland Barthes (R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 78).
5. Cfr. D. Claerbout, Le bruit des images, conversation avec David Claerbout, intervista di M. Muracciole, in “Les Cahiers du Musée National d’Art Moderne”, 94, inverno 2005-2006, p. 126. I passaggi tratti da questa intervista sono stati tradotti dall’originale in francese.
6. Definizione coniata da Peter Schjeldhal, per le Untitled Film Stills di Cindy Sherman.
7. G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, p. 15.

 

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