Saretto Cincinelli
David Claerbout. Turbare il tempo. Moltiplicare l’istante
Sento il bisogno di aprire lo sguardo e per questo il tempo è il mio
strumento.
David Claerbout
La storia di David Claerbout prende le mosse da un nucleo di lavori tesi
a ri-animare foto di archivio. La sua ricerca sembra dunque avere inizio
con la diade fisso/animato, quindi non cominciare affatto. Iniziare
con la ri-animazione di qualcosa di pre-esistente, significa infatti iniziare
dal ri-cominciamento, facendo svanire l’idea stessa di origine.
Per Claerbout l’origine è radicalmente contingente, non rimanda ad alcun
prima di, non è una né semplice, non coincide con una sorgente ma con
una piega, una duplicazione e una complicazione originarie. Per Claerbout,
come per Benjamin, l’origine non si identifica con “il divenire di ciò che
scaturisce” ma, al contrario, con “ciò che scaturisce dal divenire e dal
trapassare”. “L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina
dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita” 1.
Nei primi lavori dell’artista, infatti, non viene concettualmente
prima la fotografia e dopo il video, o prima il video e dopo la fotografia,
quanto piuttosto l’idea, incubata per lungo tempo, di modificare
e trasformare delle immagini di affezione 2. L’accento non deve però
cadere sul verbo “ri-animare”, poiché anche quest’ultimo va inteso
in una accezione particolare: l’artista non si propone di resuscitare
tout court ma quasi...
Ci pare di poter dire che l’intento che muove queste prime opere
sia non tanto quello di resuscitare la foto quanto la volontà di sollecitare
e far vibrare, accarezzare 3, il suo è stato 4. Claerbout non è un mago
né un prestigiatore, a lui, più che la riuscita della rianimazione interessa,
del resto, il suo necessario mancare il bersaglio: la messa in campo
di un quasi capace di testimoniare l’ineludibile differenza che separa
la medusazione della foto dal permutare dell’immagine video; in questione,
qui, è soprattutto, la (im)possibilità di sanare un anacronismo,
il paradossale tentativo di annullare il ritardo originario fra la posa
e la sua restituzione, quello scarto differenziale che, separando movimento
e immobilità, rimanda ad infinitum l’epifania di una resurrezione.
Paragonato alla foto, sguardo di Medusa che cattura ogni presenza
trasformandola immediatamente in icona, il video appare una sorta
di antidoto, capace di resuscitare quest’ultima al suo dinamismo:
è sovrapponendo queste divergenti peculiarità all’interno del corpo unico
di un’immagine plurale che Claerbout crea quell’impasse tra movimento
e immobilità, quella compresenza simultanea di non ora e adesso che
costituisce il nucleo di gran parte delle sue prime opere, quali Kindergarten
Antonio Sant’Elia, 1932 (1998), Untitled (Single-Channel View)
(1998-2000), Retrospection (2000), Vietnam, 1967, near Duc Pho
(reconstruction after Hiromichi Mine) (2001) che si offrono come
una sorta di tableaux vivants del movimento e di trompe-l’oeil temporali.
Untitled (Single-Channel View), 1998-2000 video proiezione b/n, monocanale, 10 min loop
Courtesy Musée d’Art moderne et contemporain de Strasbourg
Untitled (Single-Channel View) mostra l’aula di una scuola media
con gli studenti, sui loro banchi, in un momento di pausa della lezione.
Tutti, tranne uno, sembrano guardare fuori dalla grande finestra a vetri
della classe. Si ha l’impressione che ciò che attira la loro attenzione, più che
un evento esterno, sia la sua possibilità. Il solo movimento visibile in questa
inquadratura che taglia fuori la cattedra, è l’ombra proiettata sulla parete
di fondo dell’aula da due alberi, fuori campo, le cui foglie ondeggiano
lievemente nel vento.
A prima vista il frame si presenta immobile, come la proiezione di una
foto in bianco e nero.
Solo après coup l’occhio scorge la lieve oscillazione
delle foglie che sembra restituire un fremito di vita ad una immagine che
si annunciava sigillata in se stessa; oscillazione che, col suo solo apparire,
rende immediatamente poroso il confine fra passato e presente, facendo
vacillare ogni concetto di tempo lineare di fronte all’incongruo coesistere
di qui ed ora e di là ed allora riferiti alla medesima immagine.
Ri-animare una foto d’archivio, mantenendone intatto il potere
di verosimiglianza, significa rendere indecidibile il confine tra ciò che
è fotografia e ciò che appare fotografia, creando un cortocircuito
che finisce, fatalmente, per mettere in crisi le aspettative dello spettatore.
Lavorando ad uno ad uno i singoli pixel che compongono le ombre
degli alberi della foto analogica di partenza, Claerbout instaura una
dialettica in stato d’arresto tra l’è stato fotografico e il sempre ora del
video, introducendo all’interno dell’immagine un’impercettibile vibrazione
che sorprende lo spettatore: egli assiste, infatti, al fondersi senza
confondersi di due immagini incompossibili che producono l’inedita
sensazione di una coesistenza di reale e virtuale a proposito di un medesimo
evento. Mentre il dinamismo del video reclama, infatti, un ancoraggio
al presente, l’immobilità della fotografia sembra chiamarsene fuori, abitare
una lacuna temporale, una precedenza a-cronologica che risuona
ambiguamente sia come eco che come matrice dell’immagine in movimento.
È ciò a provocare l’effetto quasi ipnotico che perturba l’immediato
hic et nunc della nostra percezione.
Tutta giocata nell’abolizione del confine che separa immagine
della realtà e realtà dell’immagine, Untitled (Single-Channel View) non
si propone di ingannare lo spettatore tramite un eccesso di verosimiglianza
ma, al contrario, di sedurlo con l’introduzione di un’omeopatica dose
d’irrealtà; nonostante la paradossalità del lieve movimento, concentrato
unicamente su una porzione dell’immagine, dichiari esplicitamente il proprio
artificio, non si dissolve la seduzione che emana dalla lentissima visione
di un’immagine in movimento che pare catturata dal fantasma della fotografia.
La fascinazione che scaturisce dalle opere di Claerbout non deriva da una
dimensione in più ma, se è possibile dir così, da una dimensione in meno
dell’immagine. “Occorre – scrive Baudrillard – che in ogni immagine
qualcosa scompaia” ma che “la sparizione resti viva”. Sembra esser questa
la via percorsa dalle videoanimazioni “immobili” dell’artista.
Come Untitled (Single-Channel View), anche altre opere della prima
fase della ricerca di Claerbout da Ruurlo, Bocurloscheweg, 1910 (1997),
a Kindergarten Antonio Sant’Elia, 1932 (1998), sembrano “generarsi”
dall’inquadratura fissa di una foto d’archivio, generalmente databile nella
prima metà del Novecento; leggermente diverse appaiono invece
Retrospection (2000) e Vietnam,1967, near Duc Pho (reconstruction after
Hiromichi Mine).
La prima – anonima fotoricordo di una classe ginnasiale
degli anni trenta – perché, oltre al sonoro, che ne denuncia la dimensione
temporale, introduce degli zoom (sorta di soggettive dello sguardo dello
spettatore) che vanno di volta in volta ad isolare il volto di un giovane che,
grazie ad un sottile lavoro di animazione, per qualche istante pare
ri-prendere vita sotto lo sguardo che lo ha condotto in primo piano;
la seconda – immagine di un aereo americano in frantumi nel cielo
di un paesaggio vietnamita – perché pur presentandosi come un’immagine
muta, introduce il colore, dissolvendo la patina temporale che avvolge
i precedenti lavori e soprattutto perché “spalma” l’animazione su tutto
lo sfondo paesaggistico, col risultato apparentemente paradossale
di mimetizzare ancor di più il movimento introdotto surrettiziamente
nell’immagine. In questa occasione infatti l’effetto dell’animazione,
più impercettibile e diffusa, e quindi meno facilmente rilevabile, sembra
attutito ad arte per trattenere l’immagine nel contrappunto del tempo,
in un “vibrato” che pare non conoscere sviluppo.
Bordeaux Piece, 2004 video proiezione a colori, monocale, dual mono
in cuffia e speaker, 13 h 43 min Courtesy collezione Sylve Winckler
Le descrizioni verbali di queste opere risultano problematiche perché
finiscono per portare allo scoperto i minimi eventi che esse mimetizzano
al proprio interno, esponendoli alla svista. Nel vis à vis con l’opera, più
che la chiara percezione dell’animazione indotta, emerge, infatti, l’aura
di un eccesso o di un difetto che, non immediatamente localizzabili,
perturbano in sordina la visione.
È questo perturbamento, più che la secca
immobilità o l’impercettibile movenza dell’immagine, a in-formare, sempre
di nuovo, l’orizzonte di tableaux vivants del movimento che si sottraggono
volontariamente all’eloquenza e alla prevedibilità che caratterizza l’attuale
uso del linguaggio audiovisivo.
La ricerca di Claerbout non si limita del resto ad in-stallare
(nella duplice accezione di “porre in stallo” e “mettere in scena”) l’immagine
veicolata dal video, tenta anche, parallelamente, di sommuovere e incrinare
la staticità della foto in quanto tale. Un’ambiguità costitutiva circa la genesi
dell’immagine è riscontrabile, infatti, anche nella serie Venice Lightboxes
(2000), che non casualmente l’artista definisce “photographies
conditonelles”, in cui il tempo necessario richiesto dalla messa a punto
percettiva di immagini intraviste nell’oscurità e giocate sulle gradazioni
del nero, sembra produrre una sorta di oscillazione interna alla visione,
che tende a far perdere alla foto la sua caratteristica di immutabile fissità.
Accostata alle opere precedenti, Venice Lightboxes crea una risonanza
tra il fantasma della foto e quello del video che paiono abitare stabilmente
la ricerca dell’artista.
In entrambi i casi, colti da un moto di stupore, ci ritroviamo
intempestivamente esitanti sulla natura dell’oggetto della nostra
contemplazione, un’esitazione che mette in crisi il meccanismo di visione
già in atto: ciò che pensavamo essere un’immagine fissa va completamente
ripensato come stasi di un’immagine animata o viceversa, un’immagine
statica pare muoversi leggermente, con il risultato che le caratteristiche
proprie ai due diversi regimi di rappresentazione si trovano entrambe
rimesse in questione, assieme all’orizzonte delle nostre aspettative.
“Evito” – dichiara Claerbout – “il confinamento dell’opera entro
una durata invariabile, come nel cinema, ma evito anche che l’opera
diventi un oggetto costante, come un quadro o un’immagine. I due termini
sono in tensione tra loro: non si tratta di cinema e neppure di un montaggio
che ha qualcosa da raccontare, ma ci sono maggiori possibilità
di fuga e di proiezione, più spazio per l’indeterminatezza rispetto
alla pittura”5.
Vietnam, 1967, near Duc Pho (reconstruction after Hiromichi Mine), 2001
Video proiezione col., monocanale 3 min loop
Non approvo l’egemonia del montaggio, la sua
erotizzazione del tempo e del luogo. Ciò che mi interessa
è trovare un modo per guardare una superficie
che si muove senza che lo spettatore rimanga passivo.
David Claerbout
Mentre la maggioranza dei film o dei video sembrano realizzati per farci
dimenticare il tempo che passa e la nostra condizione di spettatori, quelli
di Claerbout paiono esistere, all’opposto, per farceli percepire. La forza
di queste opere risiede tutta nella seduzione impropria di una staticità
mancata o di una apparente reiterazione dello “stesso” che aiuta
ad immergersi in una visione più che a sperare in un’azione che risolva
la scena. Quando, finalmente, non attendiamo più, improvvisamente, ci
rendiamo conto après coup di ciò che, già da sempre, era esposto alla svista
e il piano dell’immagine diviene allora una sorta di specchio che ci rinvia
l’incertezza del nostro stesso spaesamento.
È forse per tematizzare questa sorta di spiazzamento minimo,
ma costitutivo, che Claerbout realizza, nei primi anni del 2000, alcune opere
come Untitled (Carl & Julie) (2000), Study for a Portrait (Violetta) (2001)
e Rocking Chair (2003) che implicano minimi motivi di interattività.
Untitled (Carl & Julie) mostra un uomo e una ragazzina seduti
all’ombra della loggia di una abitazione modernista. La ragazzina è occupata
a disegnare, e volge le spalle allo spettatore, mentre l’uomo posizionato
di fronte a lei guarda in direzione della camera. Ogni visitatore, entrando
nella sala, aziona inconsapevolmente un sensore e la ragazzina si volta,
come se avvertisse la presenza di un intruso, per poi riprendere il suo disegno.
Questa semplice azione, che non può non sorprendere, tende a cooptare
lo spettatore nel “momento” pre-registrato dell’immagine, e dunque
a indebolire, ancora una volta, sia pur da una diversa prospettiva, il confine
fra il qui ed ora e il là e allora ma, mentre lo fa, mira, contestualmente,
a farci esperire l’essere passato di quel tempo e la sua irriducibilità
al presente.
Veduta dell’installazione video di Breathing Bird
presso la Parasol unit Foundation, Londra, 2012
Un cortocircuito spazio-temporale non troppo dissimile è all’opera
anche in Study for a Portrait (Violetta): in un piccolo ambiente, immerso
nel buio, una retroproiezione su uno schermo di modeste proporzioni,
mostra il volto di una giovane donna la cui espressione immobile contrasta
fortemente con l’animazione dei suoi capelli mossi dal soffio costante
di una brezza, la stessa che avverte lo spettatore sulla propria nuca,
quando entra nella sala, quasi si trovasse in un luogo comunicante.
Installato nello spazio in penombra della proiezione, c’è infatti un ventilatore
che soffia quasi impercettibilmente al di sopra della sua testa, perché
egli possa, in un certo senso, sperimentare direttamente l’effetto di ciò
che vede.
L’interattività di queste opere, come appare evidente dalla descrizione,
è misuratissima. Ancora una volta Claerbout non vuole stupire ma
semplicemente insinuare nella visione un contrattempo teso a sospendere,
per un brevissimo periodo, la ricezione dello spettatore, come indica
il paradossale Four Persons Standing (1999), film a immagine unica6
e, diversamente da tutti i precedenti, radicalmente immobile che, forse,
può essere avvicinato a questi lavori solo per difetto.
Proprio perché
privo di qualsiasi effetto di perturbamento dell’immagine di partenza,
Four Persons Standing finisce per insinuare nello spettatore, abituato alle
precedenti opzioni di Claerbout, l’attesa di un evento minimo che giustifichi
la scelta del medium operata dall’artista.
L’immagine in bianco e nero, di grande formato, mostra quattro persone
(due uomini e due donne) in piedi sul marciapiede all’esterno di un edificio
di chiaro impianto modernista. Nella loro ostinata fissità le figure divengono
prototipi umani, simili ad attori immortalati mentre recitano una parte,
cosicché risulta naturale soffermarsi di fronte alla proiezione, aspettando,
inutilmente, che accada qualcosa: l’insistere nell’attesa, il chiedersi
perché niente si muova, divengono parte integrante dell’opera, una sorta
di suo completamento, il compito che l’artista, con sottile insidia,
ha predisposto.
Nonostante una strana relazione non-verbale, costruita per mezzo
di silenziosi sguardi d’intesa tra i singoli personaggi conferisca alla scena
un implicito dinamismo narrativo, risulta comunque difficile stabilire
se di fronte ad un’opera che eternizza un’unica immagine statica si possa
ancora parlare di video.
La permanenza immutabile di un’immagine non pertiene
tradizionalmente alla fotografia o alla pittura?
Più che tentare di avventurarci in una risposta, resa sempre più ardua
dallo sviluppo delle tecnologie digitali, ci interessa qui semplicemente
rimarcare come, nonostante tutto, l’immobilità di un’immagine video
o cinematografica continui ad inquietarci, ad apparirci, in un certo senso,
innaturale, inadeguata per eccesso: come se l’immobilità, trasmessa
con mezzi per così dire impropri, producesse un deficit nel tessuto
del senso, introducesse nel discorso comunicativo un in meno, capace
paradossalmente di restituire all’immagine un surplus di presenza che la fa
vacillare in quanto immagine-icona. È quanto ci pare constati, sia pur
indirettamente, Jean Cocteau quando scrive: “una casa fotografata e una
casa filmata non si rassomigliano affatto. Per quanto non accada nulla
il cinema registra lo stesso il tempo che passa”. “Il cinema” – sostiene
infatti, Deleuze – “non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe
il movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento”7.
Cosa accade allora quando, come nei primi video di Claerbout,
e particolarmente in Four Persons Standing, macchina da presa e soggetto
ripreso si immobilizzano stregandosi a vicenda?
Accade che l’immagine-movimento, ostinatamente ri-condotta verso
la medusazione tipica dell’immagine fotografica, mostra una staticità
mancata, precaria e vibratile che, proprio perciò, tende a spostare l’attenzione
verso la dimensione temporale, sonora e strutturale dell’immagine.
Se Barthes ha potuto affermare che “il noema della fotografia si altera
quando quella fotografia si anima” siamo, forse, autorizzati a parafrasarlo
asserendo che, allo stesso modo, il noema del cinema (o del video) si altera
quando l’immagine si immobilizza?
Veduta della mostra personale
presso Mart Rovereto, 2012/3
Un’inquadratura, per quanto immobile e piatta possa apparire, non
sarà mai la condensazione di un momento unico, ma sempre la traccia
di una durata. Una inquadratura, appunto, ma è proprio questo,
lo vedremo più avanti, il problema, o per meglio dire uno dei problemi
che si pongono, quando ci confrontiamo con l’immagine digitale.
[...]
Philippe Dubois
La materia-tempo e i suoi paradossi percettivi nell’opera di David Claerbout
Dire che nel cuore del lavoro e dell’opera di David Claerbout c’è il tempo, è un’ovvia banalità. Più appropriato è dimostrare come per l’artista belga il tempo, o più esattamente il tempo dell’immagine e non il tempo nell’immagine, sia inteso, letteralmente, come una materia della percezione e come tale sia all’origine di molteplici paradossi per lo spettatore. E come questo costituisca un’evoluzione storica ed estetica del pensiero visivo, tramite un superamento delle vecchie categorie del secolo scorso(un superamento che in questa sede definirei “post-fotografico”e “post-cinematografico”), è esattamente quello che vorrei dire con questo breve saggio.
….
Ampliamo e storicizziamo un po’ la questione. Abbiamo preso l’abitudine, nel corso del XX secolo (e della sua pretesa “modernità”), di contrapporre in modo estremamente manicheo il mondo (e quindi il tempo)
dell’immagine statica a quello dell’immagine in movimento, come se si trattasse di una distinzione assodata e consolidata, di un sapere acquisito nei secoli, di una storia chiaramente radicata e persino istituzionalizzata:
la fotografia da una parte (“erede del XIX secolo”), con il suo culto dell’“istante”, conquistato dalla macchina, della porzione di tempo bloccata nello status di istantanea e resa eterna nella sua condizione
di un tempo cristallizzato, la “fotografia-fotografia” quindi, contro il cinema (“arte del XX secolo”), con la sua pellicola che scorre, con le sueinquadrature “nella durata”, con i movimenti della ripresa, eccetera.Il cinema come “vera durata” con il suo tempo “reale” per lo spettatore,il cinema che passa, che scorre, che fugge, come la vita, il cinema che ci trascina, che crea una colata continua, che non si può far altro che seguire come un filo che si dipana.
Questa contrapposizione, forte e imperante, per tutto il secolo scorso ha acquisito una valenza realmente strutturante nella concezione del rapporto tra immagine (tecnologica) e tempo. Da Muybridge a Cartier Bresson, dalla cronofotografia all’istante decisivo, da Lartigue al fotoreportage, da Walter Benjamin a Roland Barthes, la fissità era ontologicamente nel cuore dell’immaginario fotografico; proprio come dai Lumière a Epstein o da Bergson a Deleuze, il movimento ha costituito il nodo fenomenologico del cinema. C’era, in questa distinzione, in questa ripartizione, qualcosa nell’ordine dell’evidenza, che ha prevalso fin dagli inizi (dalla fine del XIX secolo) e che, dopo aver funzionato per un secolo intero, e quindi alla fine del XX secolo, si è clamorosamente concettualizzata ad opera di due autorevoli teorici che hanno suggellato gli anni ottanta: da un lato Roland Barthes, che nel suo saggio, La Camerachiara (1980), sanciva il concetto di punctum, mettendo in gioco la fotografia contro il cinema (con tutti i corollari sulla posa/pausa, i tempi morti, il fermo sull’immagine, l’effetto mortifero dello scatto, eccetera). E dall’altro lato, la filosofia bergson-deluziana del cinema che dal canto suo imponeva i concetti di immagine movimento (1983) e di immagine tempo (1985), per rafforzare l’idea che il film è un perpetuo sfilare di immagini che riproduce il movimento apparente (anch’esso con i suoi corollari: il flusso, l’impeto, la fuga, l’inafferrabilità delle immagini, eccetera – e le difficoltà che ciò poteva comportare per l’esegeta di film: come arrestare il fiume, come far acquisire pensivité 1– Barthes, Bellour – a ciòche sparisce nel momento stesso in cui appare, eccetera?). Fino agli anni ottanta, la distinzione tra “fotografia” e “cinema” sembrava ancora abbastanza chiara. La linea di demarcazione era (quasi) chiaramente segnata, come se l’uno e l’altro, il mobile e l’immobile, il fisso e il mosso, l’istante e la durata, non potessero esistere se non in un rapporto di reciproca esclusione. Era sufficiente una scelta (di campo). Il tutto è piuttosto noto e ha posto le basi della modernità.
Più interessante è quello che è successo dopo. Infatti negli anni 1990-2000 – e solo oggi riusciamo a coglierne tutta la dimensione teorica (l’era del “Post”) –, diventa evidente che, per effetto del video agli inizi e in seguito soprattutto del digitale, gli ordini temporali dell’immagine si sono notevolmente elasticizzati, rendendo sempre più obsolete e indistinguibili le vecchie suddivisioni “moderniste”.
L’opposizione dichiarata (tra immobilità e movimento) si è trasformata in modulazione. Una delle caratteristiche più rilevanti delle modalità contemporanee dell’immagine, è certamente quella di cambiare costantemente la velocità, di passare da un ordine di tempo a un altro, e di farlo con la massima scioltezza, tramite variazioni senza soluzione di continuità, senza interruzioni né cambiamenti di natura. Oggi lo scorrimento non si contrappone più radicalmente alla fissità, come se si trattasse di due mondi in contraddizione tra loro. L’istante non è più il contrario della durata, così come il movimento non è più la negazione dell’immobilità. Non abbiamo più a che fare con la “fotografia contro il cinema”, ma siamo passati oltre. Sempre in un gioco tra i due. In forme di immagini (come chiamarle altrimenti?) che superano questa scissione diventata arcaica. Siamo entrati nell’era del cambiamento di velocità permanente dell’immagine, a prescindere dalla sua “natura”.
Dall’opposizione radicale (la negazione reciproca) siamo passati all’inclusione reciproca. L’immobilità (apparente) è concepita come una forma di movimento, l’istante come una forma di durata. Ed è così che
si dischiudono per la percezione, i paradossi temporali delle immagini contemporanee. Ci troviamo, per esempio, nell’immobile mobile (ed è esattamente questo il caso di Untitled di Claerbout descritto sopra), o nel mobile immobile (la posa lunga in fotografia, il fermo immagine in un film che scorre, la veduta panoramica nell’immagine statica, eccetera) o nel rallentato-accelerato sistematico (non si nota praticamente più la differenza perché si è perso il tempo di riferimento, come nel morphing che crea una temporalità e una velocità di immagine sue proprie).
Certo, non si tratta di forme “nuove”. Erano già presenti, per esempio, nelle avanguardie degli anni venti, solo che oggi tendono a diventare una norma (finalmente Marey sta forse per avere la meglio su Lumière…). Basta dialogare con gli artisti contemporanei per rendersi conto che non hanno più gli stessi rapporti percettivi o immaginativi, le stesse forme di analisi o gli stessi modi di pensare della generazione precedente, quella della “fotografia-fotografia” o del “cinema-cinema”. Siamo entrati in un’era che è al contempo “post-fotografica” e “post-cinematografica”, in cui il tempo e il movimento sono diventati delle forme di elasticità dell’immagine e non sono più un dato di fatto (una volta per tutte) di essa. Al di là della “fotografia” e del “cinema”, l’immagine contemporanea fabbrica il proprio tempo,
esattamente come si lavora un materiale, ed è questa materia-tempo dell’immagine che si offre direttamente alla percezione dello spettatore.
È questo cambiamento sostanziale che mi interessa sopra ogni cosa e di cui l’opera di David Claerbout mi sembra nell’insieme il sintomo perfetto, tra i più clamorosi ed eccellenti.
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