Emanuele-Becheri  
    Stampa da affresco su impressione 2010-2013 trittico (3 pezzi 100x70 cm)
Saretto Cincinelli
 fabula muta
 
   

 

il quadro come processo. Emanuele Becheri

 

Time out of Joint
William Shakespeare

...Solo dopo aver indagato la superficie delle
cose ci si può spingere a vedere cosa c’è sotto;
ma la superficie delle cose è inesauribile...
Italo Calvino

 

[...] la ricerca di Emanuele Becheri, si presenta, come un entretien infini in cui copia e originale vanificano vicendevolmente il proprio ruolo. Indicazioni in tal senso si colgono sin dai disegni ciechi, primi sintomi di una progressiva erosione della soggettività autoriale 21 che condurrà l’artista al desoeuvrement della serie Shining. In quest’ultima, definita una machine à dessiner, ad agire tracciature cieche non sono più le sue mani ma il muco madreperlaceo di alcune chiocciole, liberate (con un evidente richiamo al coup de dés) su grandi carte nere, che registrano le loro singolari peregrinazioni per fuoriuscire da un terreno avvertito come innaturale.
Recentemente l’artista ha proposto una serie di nuove opere che, già nel titolo: Stampa da Affresco su
Impressione, risultano il prodotto di una genesi stratificata e plurale, poiché uniscono in una sorta di
palinsesto una sovrapposizione di lavori appartenenti a serie diverse (Impressioni e Affreschi) che, per riprendere una paradossale metafora freudiana, possono essere viste come rovine intatte. Si tratta di lavori che nel risultato finale incorporano diversi passaggi, facilmente decodificabili à rebours da chi conosce la sua ricerca o da chi ha la pazienza di osservarle senza fretta: a voler decostruire la loro genesi, al primo stadio si collocano le Impressioni, su cui si appoggiano gli Affreschi e infine la Stampe. Le Impressioni, realizzate tramite il sezionamento e il prelievo di una porzione di realtà, si configurano come una sorta di “fotografie” realizzate senza macchina, ma che, facendo a meno persino del processo chimico da cui scaturiscono i cosiddetti fotogrammi 22, appaiono maggiormente avvicinabili a qualcosa che si colloca a metà tra un ready-made e/o un frottage: dopo aver fatto aderire in maniera uniforme un foglio di carta adesiva, su una porzione di parete, segnata dalla presenza di ragnatele, l’artista lo ritrae, “strappandolo” con un gesto simile a quello che i restauratori utilizzano per delocare gli affreschi, in sofferenza, dal loro luogo originario. Il risultato evidenzia una imprevedibile qualità “pittorica”: da una certa distanza infatti le Impressioni appaiono come grandi e minuziosi disegni a grafite di straordinaria complessità, mentre da una posizione ravvicinata mostrano, come in un’eco ritardata, la loro inusitata genesi materiale. Da questo punto di vista, e per quanto possa sembrare paradossale, queste opere richiamano la dinamica visiva di quadri impressionisti (come indica in maniera asettica ma, forse, non priva di ironia, il titolo della serie).
Quel che caratterizza le Impressioni è la dimensione di indicalità e l’unicità del gesto instauratore, che identificano analogamente anche gli Affreschi, in cui si tratta di sollevare in un sol colpo un foglio di carta
adesiva sul cui lato, generalmente quello più corto, è stata preventivamente predisposta una abbondante
striscia di polvere da affresco: Sollevare, premere, strappare in entrambi i casi si tratta di azioni uniche ma articolate in due tempi: preparazione (la pittura prima della pittura) 23 e gesto risolutivo; sollevare in un caso strappare nell’altro o far fuoriuscire qualcosa da una carta piegata a metà, come nel caso delle recenti Pda., azioni aliene a una pratica pittorica tradizionale, ma che possono benissimo richiamarne di analoghe e già storicizzate: i tagli di Fontana, i dripping di Pollock, le combustioni di Burri, le ossidazioni di Warhol ecc.) l’accento però, nel caso di Becheri, proprio come negli esempi ricordati, non deve essere posto unicamente sulla procedura realizzativa, che indubbiamente acquista una sua rilevanza proprio nel distaccarsi dalla pratica tradizionale ma, sul risultato che appare sempre imprevisto, visivamente straordinario e concettualmente coerente.
Il paradosso che da sempre assilla l’operazione di Becheri, e che sottotraccia informa anche queste serie,
è la volontà di confondere il prima con il dopo e condurre al suo limite ogni potenzialità dell’opera, esaurendone ogni possibile restanza attraverso la continua rimessa in gioco di pratiche, strumenti e risultati. Sottoporre un lavoro già concluso a un’ulteriore trattamento fa immediatamente retrocedere après coup quest’ultimo ad uno stadio precedente: è quanto accade negli Affreschi su Impressione, in cui un’opera della serie Impressione, finisce per giocare il ruolo di un mero supporto: stesa a terra in posizione orizzontale viene bruscamente sollevata, dopo aver accumulato sul suo bordo una striscia di polvere nera da affresco.
L’azione, provocando una dispersione abbastanza omogenea del pigmento su tutta la sua superficie, risulta assimilabile ad una sorta di cancellazione che non annulla l’immagine originaria ma la sottopone a una integrale metamorfosi: a balzare in primo piano, ora, più che la dimensione ottica è quella aptica dell’opera: le minuziose architetture del segno, prima perfettamente leggibili, cedono il passo alle infime escrescenze e i modesti rilievi formati dallo spessore infrasottile delle ragnatele, che ostacolando, sia pur minimamente, la corsa della polvere verso il fondo del foglio, trattengono una sorta di leggero deposito che occulta e insieme ribadisce la loro presenza sotterranea. L’elemento grafico e chiaroscurale e l’adombramento di spessori illusori che trasparivano, da una visione a distanza, dell’originaria Impressione, svaniscono per far posto a un monocromo di indubbio fascino materico. Ciò che si perde sul registro della leggerezza emerge in quello della risonanza del processo e della fisicità della superficie: mentre le Impressioni introiettano una sorta di memoria del disegno, gli Affreschi e i successivi Affreschi su Impressione richiamano piuttosto una memoria della pittura.
Non pago del duplice passaggio, l’artista ha recentemente rimesso in gioco anche alcuni Affreschi su Impressione, utilizzandoli a loro volta come una sorta di enormi matrici per realizzare delle stampe a contatto.
Sottoposte a un passaggio al torchio, opere già concluse producono una sorta di simulacro speculare di se stesse. Evitando accuratamente di manipolare la “copia”, l’artista la ri-sottopone ad una nuova ulteriore tiratura. Generalmente, da ogni Affresco su Impressione scaturiscono 3 lavori: quello che potremmo definire, con tutte le precauzioni del caso, l’originale 24, che però nell’operazione stessa di tiratura muta alcune delle sue caratteristiche primarie, la prima copia, che in qualche modo si distanzia dall’originale poiché perde una parte della definizione di quest’ultimo e per di più lo rovescia visivamente facendolo ruotare sul suo asse di simmetria, invertendo – come in uno specchio – la sua parte destra con quella sinistra e, infine, la seconda copia, che re-invertendo l’inversione si riavvicina all’originale pur distanziandosene per l’introduzione al proprio interno di un’ulteriore fading. Potrebbero dirsi dei trittici che mostrano la loro implicita temporalità e la loro progressiva evanescenza. Opere multiple ma unitarie, che si riferiscono ad un “originale” stesso e completamente diverso, che ad ogni nuova tiratura, muta retroattivamente alcune caratteristiche.
La copia giunge così a modificare après coup il modello. Diversamente da un negativo fotografico che sopporta infinite tirature o da una lastra d’incisione che produce, tramite successive inchiostrature, perfette copie di un originale, qui si realizza – come nel caso degli affreschi su impressione – una sorta di metamorfosi reciproca dell’originale e della copia. L’intento che muove l’operazione non è tanto quello di produrre multipli perfetti quanto la volontà di trasformare il “difetto” in una chance: l’effetto che paradossalmente scaturisce dalla copia e dalla copia-della-copia non è infatti quello di un originale (quale?) indebolito, ma quello di un originale sottoposto contemporaneamente ad una inversione ed a una specie di “solarizzazione” 25.
La radicale posta in gioco di questa complessa operazione è la definitiva vanificazione della gerarchia fra copia e modello. Entrambi i concetti risultano infatti preda di una profonda metamorfosi che, tramite una progressiva serie di reciproci slittamenti, tende a trasformare l’intero insieme della catena in una serie di copie prive di originale o, ma il risultato non cambia, ciascun esemplare in unico. In un caso o nell’altro tutti i singoli passaggi finiscono per differire tra loro solo per grado ma non per natura, vanificando così ogni differenza “ontologica” tra copia e modello.


note

21 Cfr. S. Cincinelli, in Emanuele Becheri, Hauntology, a cura di S. Cincinelli, Nuoro, Man, Milano, Mousse, 2010, pp. 4-30.
22 Secondo la definizione di Moholy Nagy o rayografie o rayogrammi secondo quella di Man Ray.
23 Il concetto mutuato da Deleuze sta qui ad indicare tutto ciò che sta prima del gesto indicale e automatico del prelievo e che si configura, invece come interamente culturale, implicando una sorta di prefigurazione del risultato in base a determinate scelte: la porzione di muro da inquadrare, la densità maggiore o più rarefatta di ragnatele, la grandezza del foglio.
24 Già, a sua volta, prodotto di una stratificazione, un duplice passaggio
25 Tecnica fotografica detta anche “cambiamento tonale di un’immagine”: quando un’emulsione sensibilizzante, sviluppata ma non fissata, viene esposta alla luce e di nuovo sviluppata, l’immagine che ne scaturisce appare con una inversione dei toni e mostra contorni marcati da linee nere.

 


 
 
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