Francesco Lauretta    
  Performance da Apologhi   MadeinFilandia 2013
 
Francesco Lauretta  
SARAI  Apologhi  
 
   
 

 

SARAI
     

 

In verità ero a Noto quando avevo scritto nella mia Moleskine sotto uno schizzo:

Il sole tardi ‘mane, s’è svegliato, è il 22 agosto, inverno, sono uscito così e mi sono portato al Caffè Sicilia, da Ispica, per la colazione con un dolce rosso, di prugna, con granuli di pistacchio, ruhm e altre sfoglie di creme di sapore molesto e divino. Pioveva appena svegliatomi, sferzate d’altra stagione riempivano la mia stanza come adesso davanti alla Cattedrale di Noto, altre stagioni soggiornano ‘mane: Ci sono i rossi, neri i piedi, un raso lungo afferra i muscoli delle gambe scolpite e in questa attesa non vedo, non riesco a sentire l’abbraccio del vento. In quest’ultimo giorno comincio ad intravvedere le forme geometriche, arancioni, spirituali, i fiori soffiati, e mentre attendo mi sorprendo circondato di mostri. Sono vicinissimi, accerchiato e con gli ombrelli a tutto punto vestiti, abbottonati fino all’ultimo bottone, i moncherini bene esibiti, trofei e macchine elettriche, le protesi, la tosse sconveniente e vomitevole riverbera sui monumenti barocchi come fosse un organo. Ecco, stamattina ho visto un narratore su una poltroncina nera, nera, fragile, impaurito, spaventato, annientato, dimenticato, possente. Pensa al sublime, a come svolgerlo, e come, ditiglielo voi, non ha dubbi, in quest’età del dubbio, nessuno, nulla scopre.

Un uomo che scrive, una poltrona, ecco, null’altro sarò in quei giorni.

Questo volevo fare in Madeinfilandia ma successe qualcosa che mi mise in una posizione scomoda e attraente allo stesso tempo.
Nel 2006 quando morì Guido Carbone realizzai due piccoli ritratti di lui, morto, nella bara. Avevo vegliato il suo corpo e nella lunga malattia avevo come subito il male, la carogna, e prima che ci lasciasse gli dissi che avrei disegnato il suo corpo privo di vita. Lui semplicemente mi sorrise. Così dopo averlo lasciato lì, in via Cavour, a Torino, appena tornai a casa, feci due disegni con penna rossa, due ritratti di Guido morto. Esposi quei due disegni poi alla Permanente di Torino. Quei due disegni credo che siano rimasti alla sua famiglia, alle figlie. In quei due disegni si sentiva tutto l’amore e l’orrore per la vita e la morte. Il segno era leggero, rosso, slabbrato qua e là dalle lacrime e dalle parole dette, parole d’amore ricordo per un uomo che per 7 anni mi era stato vicino fino a diventare, come dire, un punto di riferimento, quasi un padre per me. Quasi un padre.

Sono tante le sfumature dell’amore.

La scorsa estate chiesi a mio padre cosa ricordava del funerale di suo padre. Rispose che non ricordava. Non ricordava. Non è che avesse rimosso quel momento, il lutto, semplicemente mio padre aveva e ha dei vuoti, innesti di vuoto assoluto, di memoria perché, perché beveva. Sono cresciuto con orrore verso mio padre. Beveva e diventava molesto, rabbioso, cattivo. Pestava mia madre che da sempre ha avuto cura di lui, e me. Il mio gemello era al riparo dai nonni materni da quest’orrore. Poi intorno alla metà degli anni 90 ha smesso di bere ma indubbio è che sia un essere fuori dal comune. Ho indagato così sulla sua vita e formato racconti senza imbarazzo. Così ho cominciato a pensare agli Apologhi da questo allarme, da questo buco profondo e vuoto di memoria visto che lui, adesso, è prossimo alla morte, o così spero, per lui, per me. Intanto sto componendo un monumento intorno a lui.
Ho scritto tanto:


  Francesco-Lauretta

           Senza titolo 2013
          

 

Apologhi

Tutto si è svolto proprio stamattina prima di uscire dalla casa madre, mentre andavo a prendere le mie splendide infradito nere e gialle, mi sono fermato nella sua tana. L’ho visto: un animale quasi accucciato in una sedia a sdraio, bianco come morto, mio padre.
“Cosa ricordi del funerale di tuo padre?”
“Niente”
Lo vedo, mi guarda dal suo unico occhio vivo, l’altro è morto, nero, un buco buttato al di là di quanto vede, già sepolto e senza vita, e mi guarda anche con l’altro, quello morto intendo –mi rendo conto- come a condurmi all’inferno, anche me
“Niente”, ripeto, “niente? Cosa ricordi del funerale di mio nonno?”
Lui mi interrompe: “Del funerale di mio Padre, niente… Niente. Perché queste parole?”
Credo mi prenda in giro ma lo vedo serio, bianco straordinariamente bianco
“Le parole ‘funerale di tuo padre’ che parole credi che siano?, è solo curiosità la mia, null’altro, volevo ricordare, lo ricordo”
“Niente”, ripete.
Poi con fatica come se si rianimasse dice: “Niente, non ricordo niente. Non so quando è morto, il giorno, il mese, l’anno, niente, assolutamente niente ricordo, non so neanche se è morto mio padre” dice, “ ma credo di sì, non lo vedo e non lo ricordo più, non so niente e questo è tutto”
Lo guardo. Non so se è fortunato a non ricordare nulla della morte di suo padre, il suo funerale. Stupidamente mi domando se anche io non ricorderò niente della sua morte, di mio padre, e quel “niente” sparato dalla bocca di mio padre lo trovo pieno, perfetto, così come vorrei essere io-morto per quell’evento spaventoso di morte e successione: il resto. Come un disturbo, per la prima volta nella mia vita, intuisco la genialità di mio padre, un padre mostro, quasi perfetto.

Da qui, da quel giorno estivo ho cominciato a tarlare il progetto narrativo anche perché molti anni orsono avevo già dipinto, col colore della salma che individuo in un rosa prezioso, e bitume, con schegge d’oro, un funerale e dato titolo “Dolce”, il funerale di Francesco Lauretta, mio nonno e padre di mio padre che ricordavo.
Voglio fare un dipinto, un cartiglio che si ferma su quella stazione, dove noi siamo protagonisti, veri protagonisti quando non ci siamo più affatto. Voglio dipingere un funerale nuovo, di Francesco Lauretta ed esporlo in Madeinfilandia. Ma non solo. Quella stazione ricorderà questo evento di noi tutti, nessuno escluso, in una processione, in un transito che ho sviluppato necessario anche per risolvermi come ingegnere che lavora sulla ri-costruzione del medium della pittura. Intanto ho compreso tutti i racconti, o quasi, che potevano definire l’apologo, e spiegati.


 
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