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GIOVANNI IOVANE
Un paio di scarpe
 
   

 

breve appendice al passeggiare e al cadere

 


"Passeggiare" (The Walk) deriva da "passo" Il latino Passus (astratto di pandere) significa: "aprire" ed è somigliante a patere "essere aperto".
Pandere significa anche distendere, spiegare, allargare, aprire, spalancare, spaccare, manifestare, narrare, rivelare (prendere nomen: manifestare il nome. Ordine singula pandit: rivela ogni cosa per ordine). La filosofia greca classica ha una delle sue origini in una passeggiata. Durante l'età di Aristotele, il filosofo ed i suoi allievi, camminavano e discutevano attorno il Iiceo di Atene.
A causa di questo conversare mentre si passeggia, gli aristotelici sono stati definiti "peripatetici" così come la scuola di Aristotele. Peripato ("peripato", composto da "peri"=intorno e "pàtos" = passo, piede, cioè "passeggio intorno").
Non si sa quale invece furono i metodi dell'Accademia platonica ma forse è da escludere qualsiasi girovagare intorno e specialmente all'esterno.
Un retaggio moderno di questo girare intorno a qualcosa all'esterno, è dato dal sostantivo italiano "peripatetica" - ora in completo abbandono - che significa "prostituta".
L'attribuzione filosofica classica per un soggetto al lavoro vicino ad un lampione, in città, o a un fuoco, lungo le strade extraurbane, oltre a ricondurci a un'iconografia dei primi decenni del Novecento fa pensare a un ritorno del platonismo in virtù di quel camminare in tondo e soprattutto per gli effetti delle ombre.
E' abbastanza perturbante che la filosofia occidentale, quella che si occupa dell'esterno, del mondo, si possa riassumere nell'espressione italiana "pensare - e parlare - con i piedi" (in inglese l'equivalente è to talk trought one's hat; un esempio di catena verbale feticistica).
Ad ogni modo, e senza più interporre le leggi del desiderio, pensare, camminare intorno e filosofare sono tutte azioni che si svolgono simultaneamente con il necessario ausilio dei passi, dei piedi. E quando penso, o persino quando scrivo con i piedi, questo cammino ha bisogno di un altro: di un altro che ascolta e conversa. L'affermazione dell'artista Hamish Fulton, "No walk, no work", comprende efficacemente questa situazione in chiave moderna.
Un celebre saggio di Martin Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, ci riconduce a questo girare in tondo. Il saggio fu scritto nel 1935, ma appare in forma definitiva all'interno del libro Sentieri interrotti (Holzweg zu sein) (1) ma anche, nelle varie traduzioni internazionali, con i "sentieri che non portano da nessuna parte".
Tale sviamento ci sembra appropriato (nel senso di un procedimento appropriazionista) per la nostra rievocazione del "camminare male", sebbene lo stesso Heidegger riconosca un merito al boscaiolo in questa interruzione del sentiero, che comunque riesce a "fare legna" nel centro e nel fitto del bosco.
Nell' Origine dell' opera d'arte, Heidegger si interroga appunto sull'origine e dopo una pagina e mezzo è costretto a interrompersi e a scrivere che si è costretti " a muoversi in tondo" : "Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un ripiego, né di un difetto.
Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero, e nel non uscire da esso la sua festa, posto che il pensiero sia un mestiere.
Non fa circolo soltanto il passo decisivo dell'opera d'arte - in quanto passo dall'arte all'opera - ma ognuno dei passi che arrischiamo fa circolo in questo circolo". (2)
In questo passaggio, apparentemente oscuro in italiano, il filosofo sembra ricordarci che il pensiero deve molto ai passi, al cammino e che questo cammino è un circolo vizioso o meglio, dal punto di vista estetico, un cerchio che si riproduce allo stesso modo di quelli prodotti da un sasso gettato su uno stagno. Il saggio di Hedegger è tutto giocato sulla affettività e sulla evocazione e sopratutto sulla idea che l'opera d'arte si determini come un fare, un mo0vimento o una spinta. L'opera d'arte si presenta come una sospensione dello stato normale delle cose ed è grazie ad essa che si riesce a cogliere o a camminare sullo stato proprio delle cose.
La materia dell'arte, in assonanza con la sua Gestalt, Hedegger la definisce inoltre come un piedistallo, un supporto, un ripiano o forse anche più tradizionalmente come un cavalletto (Gestell).
Le cose che funzionano male, o che cadono perfino dal loro cavalletto, sembrano essere le cose dell'arte: le opere d'arte. Essendo poste su di un cavalletto, su una mensola (e in verità, le opere sono questo supporto, questo cavalletto) possiamo vedere le opere solo in verticale, in posizione eretta, atracciare un percorso, un sentiero tra il basso e l'alto o per usare le parole di Heidegger tra la (madre) terra e il cielo.
Nonostante sull'Origine dell'opera d'arte negli anni trenta la sua era una prospettiva di tipo rinascimentale. La novità, o il nuovo inizio, il ricominciare da capo con i piedi, era dato dal fatto che la definizione di opera d'arte era ora affidata (e fidata) a una "messa in opera" , da un fatto, appunto o da un evento:
Tuttavia il saggio di Heidegger è divenuto ancor più famoso per una citazione che ha dato luogo a numerosi centri concentrici : le scarpe di Van Gogh.
Può sembrare pretestuoso o arbitrario, in un breve saggio che si occupa di camminare male o di ascese e di repentine cadute, occuparsi in conclusione di scarpe. E per di più, di scarpe famose, griffate, con una loro storia firmata da Jean Francois Milet, e che dal suo mondo contadino giungono direttamente a Van Gogh. Eppure riteniamo che un autentico pensare con u i piedi possa anche concedersi, in ultimo, allo strumento necessario per una passeggiata confortevole, quali sono appunto le scarpe.
In breve, e interrompendo subito il sentiero, per Heidegger le due scarpe sinistre dipinte da Van Gogh, sono scarpe di campagna. In realtà non sono nemmeno scarpe dipinte, appartenenti al mondo della campagna, ma sono delle "cose" che aprono ad un mondo particolare e che, nello stesso tempo non essendo più strumenti, cadendo dalla loro funzione ci rivelano la verità del loro essere cose.
Il grande storico dell'arte americano Mayer Shapiro, in un suo saggio del 1968, The Still Life as a Personal Object, prende di mira l'inconsistenza di Heidegger, come critico d'arte, e puntualizza che le scarpe di Van Gogh sono scarpe di artista e sopratutto sono scarpe di città (alla stessa stregua della comune differenza che corre tra un topo di campagna e uno di città).
La vicenda di questa "scontro" è riportata da un bel saggio dell'artista appropriazionista Sherrie Levine (3) (che ne ha anche tratto delle sculture a cominciare dal prototipo in bronzo Sabots, del 2001) ma anche e sopratutto da Jacques Derrida in un suo libro del 1978, La vérité en picture. (4)
Il capitolo finale del libro di Derrida, in cui si occupa delle scarpe di città e di quelle di campagna, s'intitola Restituzioni della verità in pointure (in francese, "pointure" significa anche il numero di punti di una scarpa).
L'impressione è che nelle numerose pagine in cui Derrida decostruisce il conflitto Shapiro-Heidegger, il filosofo francese sembra parteggiare per Heidegger (per le scarpe o per il topo di campagna).
Nondimeno, nella nostra prospettiva che non è solo monoculare ma anche distesa a terra, ci pare opportuno appropriarci (5) di alcune frasi di Derrida che vengono incontro nei nostri stessi sentieri interrotti. Frasi che non autenticano la provenienza delle scarpe di Van Gogh ma che corrispondono perfettamente a quel ricominciare da capo, con i piedi, che abbiamo denunciato e ammirato nell'Origine dell'opera d'arte.
Derrida, per ancorarsi, quasi come un corpo morto, alla discussione aperta da Heidegge sull'opera d'arte traccia brevemente lo schema di una sua possibile performance:

Comincerò col fissare la certezza di un procedimento assiomatico.
Installandomi, per così dire, in un punto che sembra ben stabile, in cui non si scivoli più, partirò da lì (velocemente) dopo aver bloccato un piede, uno dei miei sostegni, restando immobile e piegato in due, in attesa del segnale dello starter. Questo luogo che io incomincio a occupare lentamente, prima della corsa, non può essere quì che un luogo che riguarda il linguaggio. (6)

Subito dopo questa premessa in style body art, Derrida fa ricorso all'abituale maestria nel declinare e deformare frasi idiomatiche francesi riguardanti ka marcia, il cammino, i piedi e le scarpe che nelle altre lingue, perdono il fascino dell'allitterazione sonora ma non il peso della sostanza del cavalletto.

Ecco. Le interrogazioni sul cammino impacciato (zoppicante o
storto?), le interrogazioni del tipo 'dove mettere i piedi?', 'come
vanno le cose?', 'e se non vanno tanto bene?', 'che cosa succede quando
non va tutto bene o quando si ripongono le scarpe in soffitta o ci
si comporta come esige il proprio rango', 'quando tutto smette -
per qualche ragione - di funzionare?' (marcher?), 'chi cammina
(marche?), 'con chi?', 'con che cosa?', 'pestando i piedi a chi?', 'chi
fa camminare (marcher) chi?', 'chi fa camminare (marcher) che
cosa?', 'che cosa fa camminare (marcher) chi o che cosa?', ecc...
tutte queste figure idiomatiche dell'interrogazione mi sembrano,
anche qui, necessarie. (7)

Anche a noi tutte queste interrogazioni sembrano necessarie soprattutto perché il "fare legna", in questo bosco oscuro, consiste nell'osservare un dato di fatto, e cioè che i sentieri s'interrompono, e che il sentimento della perdita, del perdersi, del fallimento come nella caduta divengono, tutti insieme,delle azioni intenzionali. Persino le scarpe, un rassicurante paio di scarpe, non funzionano più (ne marche pas, assicura Derrida nel suo commento critico).
Una zoppia evidente è presente nelle scarpe dipinte da Van Gogh (e naturalmente nei sabots in bronzo derivati da Sherrie Levine). Un camminare male, che Freud aveva individuato nel feticismo dei piedi e delle scarpe (Introduzione alla psicoanalisi) (8) che aveva origine da un particolare gioco di sguardi piuttosto che dall'oggetto in sè, dalla sua sostituzione o dalla sua forma (Gestalt). Tutto sembra avere origine da una traiettoria precisa, da una situazione orientata, per la quale, alzando gli occhi, dal pavimento, dal punto più basso del pavimento verso l'alto (dal chiuso della terra verso il cielo, direbbe Heidegger) scopriamo che qualcosa ac-cade dal suo supporto, o esteticamente, dal suo cavalletto (Gestell).



1- Martin Heidegger, Sentieri Interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p.1.
2- Ivi. p.4.
3- OCTOBER 101, Summer 2002, pp.84-95.
4- Trad. it., La verità in pittura, Newton Compton, Roma 1981.
5- Cosa che non ha fatto Sherrie Levine, ignorando Derrida, nel suo pur
documentato saggio.
6- Jacques DErrida, La verità in pittura, trad. it., Newton Compton, Roma 1981
(cito dalla riedizione del 2005), p.252.
7- Ivi, pp.252-253.
8- Cfr. Derrida. La verità in pittura cit.,p.256.

 
 
 
 
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