Luca Bertolo  
  Luca Bertolo Et in arcadia ego, 2007-2009 oil on olio plastic, ∅22,8 x 2,5 cad.
LUCA BERTOLO
  Lecture
 
   

 

DI COSA SI OCCUPA L'ARTISTA

 

 

Il bisogno, in un sistema che si regge sulle comunicazioni veloci, di definirsi: quello si occupa di ecologia, quella recupera i lavori femminili, quelli si occupano di identità culturali postcoloniali..

Si può dire che Duchamp si occupava di vetri o di spose?
Duccio si occupava di madonne?
Picasso si occupava di prostitute o di massacri?
Van Gogh di floricultura o architettura del paesaggio?



Esempio del bell'articolo di André Rottmann su Florian Pumhösl (Artforum, settembre 2009): Prima una lunga e brillante introduzione dove rimarca che a partire dagli anni '60 il postcolonialismo ha delegittimato l'utopia modernista che si voleva universale etc etc, citando anche Hal Foster: “l'arte attuale vive tanto sulla scia della pittura e scultura moderniste quanto sulla scia della decostruzione postmodernista di queste forme”. A quel punto dell'articolo introduce l'artista austriaco Pumhösl e parla del suo lavoro per ben due pagine: le sue “complesse istallazioni” non solo chiariscono ulteriormente l'influenza del modernismo in vari campi (arte, design e architettura), but also provide insights into modernsism's historicization and, specifically, into how the paradigms guiding its critique since the '60 have themselves turned into the conventions of the international infrastructure of contemporary art”.

Viene da chiedersi se e quanto lo stesso artista lavori aspettandosi che escano articoli di questo genere...
(cfr George Steiner contro l'interpretazione, e la letteratura di primo grado che nasce già ammiccando a quella di secondo grado).

Quanti artisti attuali intendono il loro lavoro come didascalia o illustrazione di idee, analisi, interpretazioni? Fino a che punto inconsapevolmente?

Un esempio simile, su flash art di marzo (?) Riccardo Previdi “intervista” una sua collega di galleria tedesca (?): chiaccherano del loro rapporto col design, col modernismo, quasi fossero funzionari del settore visivo del dipartimento di antropologia culturale... (mai un accenno a sé, alla propria vita, ai desideri, ai dolori, ai materiali, alle urgenze, al caso...)

 

Esiste un'agenda dell'arte, come ce n'è una della politica internazionale?

Credo di no. L'artista ricomincia ogni volta da capo. Segue la sua biografia: biologica, culturale, emotiva. Non può far altro...

In questo senso l'arte non evolve, come la scienza, per sostituzioni e miglioramenti, ma procede per aggiunte e oblii. È una staffetta, di una corsa infinita attorno un campo...

Credo che gli artisti di oggi si sentano un po' orfani. Un tempo era diverso: l'artista si occupava di creare il bello che illustrasse il bene: era una scusa, naturalmente, ma tanto bastava. Oggi, con la miriade di microspecializzazioni del sapere (sul modello della ricerca scientifica), gli artisti hanno davanti due alternative: fare i tuttologi (e uno se ne vergogna) oppure specializzarsi, che in genere significa andare a scavare nelle specializzazioni fatte da altri e riportare, di seconda mano, quel che trovano (sociologia, politica, antropologia, etnologia del costume, storia del design etc).

Credo che la sfida più interessante sia la prima. Ma presa con il giusto tatto. In altre parole, l'artista, ogni artista, si occupa potenzialmente di tutto. Ma a differenza dello scienziato non sceglie di cosa occuparsi... (la famosa vocazione).

Gilles Deleuze e Carlo Sini: due fari che mi hanno illuminato sul concetto di PRATICA e CREAZIONE.

 

Nel libro Gli abiti, le pratiche, i saperi  Sini traccia il percorso lungo cui si forma l'autocoscienza in un individuo.

“... ogni gesto delinea un orizzonte di mondo come luogo di reciprocità di stimoli e di risposte. Questo delineare è a suo modo un formare, delimitare, disegnare il corpo e il mondo posti in essere dalla relazione gestuale medesima che insieme li distanzia e li collega... Il gesto è, in questo senso, la scrittura originaria dell'esperienza”.

Molto in sintesi, e a rischio di banalizzare, quello che spiega Sini è che non si può presupporre una mente, una volontà comunicativa, un'intenzione per spiegare il sorgere della comunicazione stessa, del significato dei gesti o delle parole. Ci si deve piuttosto calare in quella specie di esperienza primordiale del fare puro, del reagire reciprocamente (la mano del neonato prende, cioè si fa concava, nel suo esperire la convessità del dito della madre: così, pian piano, quel gesto diventa intenzionale e dotato di senso – come il piangere-per-ottenere-la pappa).

In altre parole, e per quello che mi sta a cuore rispetto all'ambito artistico, è la pratica a produrre l'universo del senso (che da poi senso alla pratica stessa). La pratica non è un semplice (anche se magari complicato) mettere in pratica intenzioni o idee. Ogni artista che lavora a fianco della materia lo intuisce: interrogando le possibilità della materia interroga se stesso. Non è chiaro come ciò avvenga... Lavorare a stretto contatto con la materia non significa per forza avere le mani sporche di creta: significa dare tutto il peso necessario alle esigenze, limiti, potenzialità intrinseche ad ogni medium. Questa modalità non risparmia fallimenti né frustrazioni, ma la triangolazione tra materia intenzione e opera ripara quantomeno dalle scivolate in quel Bedeutungskitsch (Fischli & Weiss), quel kitsch del significato, da cui oggi siamo infestati.

 

Questa centralità della pratica, nel fare arte (ma anche nel fruirne) mi ha spinto a ragionare a sua volta sull'importanza dei linguaggi specifici. È il secondo passaggio. In una sua conferenza del 1987 agli studenti dell'Ecole nationale supérieure des métiers de l'image et du son, una scuola di cinema, Gilles Deleuze dice:

Che cosa accade quando si dice: “Ecco, ho un'idea?” Perché, da una parte tutti sanno che avere un'idea è un evento che accade raramente, è una specie di festa, abbastanza rara. E poi, d'altra parte, avere un'idea non è qualcosa di generale. Un'idea – proprio come colui che ha l'idea – è già consacrata a questo o quell'ambito. Può essere un'idea in pittura, in narrativa, in filosofia, in scienza. Evidentemente non è la stessa persona che può avere tutto questo. Le idee bisogna considerarle come dei potenziali già impiegati in questo o quel modo d'espressione, e quindi non posso dire che ho un'idea in generale”...

Cfr anche Josif Brodskij – lo scrittore lavora all'interno della lingua, che è qualcosa di più grande di lui.

Eppure è dai tempi dell'accademia che sento i colleghi più avanzati dire: “a seconda dell'idea, scelgo il medium che meglio riesce ad esprimerla”. Come se l’artista si trovasse nella stessa condizione di una madonna in una annunciazione… Eppure è la vulgata attuale, quello che curatori e giornalisti danno per scontato nel 95 % dei casi.

Ma insomma, gli artisti generalisti (che comunque siamo quasi tutti noi) hanno o non hanno (creano o non creano) nuove idee?...
Personalmente, posso dare una risposta precisa anche se parziale: in quanto pittore (anche se faccio altre cose) mi è chiara la diretta dipendenza tra la mia pratica e il sorgere di idee (pittoriche).

 

C'è anche il famoso motto: Nulla dies sine linea, tradotta letteralmente, significa nessun giorno senza una linea. (Plinio il Vecchio, Storia Nat., 35). La frase è riferita al celebre pittore Apelle, che non lasciava passar giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea. In questo la pratica artistica sembrerebbe assomigliare alla pratica sportiva (altro elemento che disgusterebbe la massa pseudointellettuale del mondo artistico). Ma la frase: mi si deve sciogliere la mano, non è una banale questione di articolazioni; piuttosto significa che pian piano, attraverso la mano, è il cervello che si mette a girare... Chi di voi si è trovato a disegnare con la massima concentrazione sa cosa vuol dire avere la testa nella punta della matita.

Eppure le altre, quelle che mi sembrano idee e che pure sono slegate da una pratica calata in un linguaggio specifico? Quando penso a una piccola performance da documentare con un video… e se non sono idee nel senso forte in cui le intende Deleuze, cosa sono?

Forse, esistono cose che chiamiamo idee, che a loro volta danno origine a cose che si chiamano opere, ma che poco hanno a che fare col punto di vista deleuziano (che in buona parte è il mio). Delueze dice che avere un'idea non è nell'ordine della comunicazione, cioè nell'ordine dell'informazione, che a sua volta, è circolazione di parole d'ordine (cioè qualcosa che si presume che noi si possa o debbe credere, o almeno comportarci come se credessimo). No, non tutto è comunicazione. Per fortuna!

Sia come sia, credo che gli artisti del Novecento, almeno nella vulgata che ne ha selezionato una parte chiamandoli Modernismo, abbiano peccato di sciocca vanità, credendo di essersi emancipati girando la schiena alla materia, e ritenendosi ipso facto degli intellettuali. Lo spauracchio di essere bête comme un peintre, stupido come un pittore, (cfr Duchamp) dura fino ad oggi (e in Italia in modo particolare e particolarmente caricaturale!). Dicevo sciocca vanità perché se c'è una costante nei percorsi variegati dell'arte (occidentale moderna, ma forse più in generale) è stata proprio quel situarsi dell'artista in perfetta equidistanza tra l'informe e la forma, tra materia e spirito, (da qui l'affinità col sacerdote, e tutte le metafore che soprattutto tra '800 e '900 hanno fatto apparire l'arte come il luogo che potesse sostituire il luogo del sacro) - in una posizione non di equilibrio ma di costante squilibrio e dunque di movimento... (avete mai notato come le opere troppo pensate diano l'idea di qualcosa di chiuso, fermo, concluso, asfissiante dopo un po'?)

 

E qui si aprirebbe un'enorme discussione sulla portata (e sulla validità o meno) della cosiddetta arte concettuale nella sua forma più pura, un’arte che intende sé stessa come tendenzialmente indipendente da ogni sua manifestazione fisica (cioè - con una definizione ricorsiva - l’opera coincide con l’idea dell’opera).

Invece concluderò con un’altra citazione dalla stessa conferenza di Deleuze. Mi piace perché, per quanto radicale, questa presa di posizione, alla fine, non chiude ma apre.
Apre attraverso un termine disponibile a tante diverse interpretazioni - resistenza – un termine che mi pare importante rimettere oggi al centro di molte riflessioni.

“Che rapporto ha l'opera d'arte con la comunicazione?
Nessuno. L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L'opera d'arte non contiene letteralmente la minima informazione. C'è invece un'affinità fondamentale tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza.”

 

 

Di cosa si occupa l'artista?
(appunti per l'intervento all'interno del ciclo di incontri Collecting People organizzato dal progetto Diogene, Torino 13 aprile 2010)
- Carlo Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, 1996
- Giles Deleuze, Che cos'è l'atto di creazione, Cronopio, Napoli, 2003



 
 
 
 
 
   Art Gallery - SpazioA -
  2010 © Artext