robert longo     
  Keith Haring, Untitled 1982  
Marco Bazzini  
Sciamani e showman?  
 
   
 

 

SONO TUTTI CONTEMPORANEI ?     

 

Rispondere alla domanda se tutti coloro che frequentano il mondo dell’arte di oggi possano essere considerati contemporanei non implica l’esclusione a priori di alcuni piuttosto che altri.
Tra chi era presente all’ultima edizione della Biennale di Venezia, c’era chi lo era di più e chi meno?
Almeno per me, purtroppo, non è stato possibile vedere di persona le mostre realizzate oltre vent’anni fa, e nemmeno tutte quelle di questi ultimi decenni, e questo non soltanto per problemi anagrafici ma di numero. Eppure non esito a considerare gli artisti allora presenti come contemporanei anche quando oggi li ritrovo con quelle stesse opere nelle sale dei musei. Magari a fianco o vicini a chi in quel momento non era considerato un buon testimone del suo tempo o a chi non lo è mai stato, come oggi in molte presentazioni di moda nelle collezioni permanenti quando si mescolano epoche diverse.
Questo per limitarmi alle cosiddette arti plastiche, ma vale anche per la musica che da oltre quarant’anni domina il mondo: il rock.
Ho vissuto momenti straordinari ai concerti dei Rolling Stones, piuttosto che a quelli di Bruce Springsteen, in anni lontani dalle loro prime apparizioni sulla scena, mentre mi sono goduto Sonic Youth e Nick Cave in momenti non sospetti.
Anche nell’atteggiamento più purista, che non deve mai coincidere con un eccesso di fanatismo, la risposta alla domanda iniziale può sempre essere sospesa tra il sì e il no.
Sicuramente c’è chi si muove nelle sperimentazioni culinarie da grande chef, così come chi rivisita la tradizione o chi ama restare fedele alla vecchia trattoria, alle ricette della nonna o dell’Artusi, anche se gli alimenti di oggi non hanno più lo stesso gusto o caratteristiche organolettiche. È pur vero che tutte le volte che andiamo dall’ortolano ci sentiamo dire che la sua frutta e verdura sono le più fresche, ma questo non basta a renderle saporite, gustose, appetitose.
L’aggettivo contemporaneo quindi non coincide con l’espressione di giornata!
“ALL ART HAS BEEN CONTEMPORARY”. Tutta l’arte è stata contemporanea, dichiara in lettere capitali al neon Maurizio Nannucci sulle facciate di diversi musei europei, tra cui gli Uffizi di Firenze. Una frase illuminata – anche nel senso stretto della parola – e lapidaria, che ricuce le diverse epoche con un paradosso temporale. Una comunicazione che scavalca la questione del presente e dell’artista vivente per allargare il raggio della riflessione, così come deve fare un’opera d’arte, a tutto l’arco della storia e a chi la guarda. Nonostante la luce proposta dall’artista fiorentino, continuiamo a barcollare nel buio su cosa voglia dire contemporaneo. E certo i nostri studi accademici non ci vengono in aiuto se pensiamo che, per l’università italiana, con questo aggettivo si definisce il periodo che inizia con il congresso di Vienna del 1814, non proprio coincidente con la nostra vita o con quella dei nostri genitori o nonni.
Ci può invece essere di aiuto quanto dichiarò, alla metà degli anni Novanta, chi mi ha preceduto alla direzione del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci in risposta a un’inchiesta curata da Catherine Millet, direttrice della rivista francese “Art Press”: “Le forme artistiche possono essere divise in: tradizionali, quali la pittura, scultura, installazioni; e in sperimentali, quali performance, arte concettuale, arte elettronica. La differenza sembra situarsi tra le opere d’arte e la contaminazione di forme visive, letterarie, teatrali, musicali, cinematografiche o di design, dalle novità tecnologiche e la combinazione di queste forme con la novità”.1
Dichiarazione contestuale alla situazione del momento: erano passati trent’anni dal celebre articolo intitolato Specific Objects (1965) in cui Donald Judd pretendeva di rintracciare l’arte al di fuori della pittura e della scultura, unici generi che avevano organizzato il campo fino al periodo moderno, Modernismo incluso.
Superata anche la nozione di avanguardia e lascito fondamentale per gli anni a venire per le attività di quello che è stato a fine anni Ottanta il primo museo italiano costruito ex novo per l’arte contemporanea, ecco che sono arrivato alla parola magica arte contemporanea, che da quasi cinquant’anni ha abdicato, con una circolazione ampia e negli ultimi due decenni globalizzata, al suo significato letterale.
Probabilmente dovremmo attendere la fine del contemporaneo, epilogo che non sembra annunciato nell’immediato nonostante sia nato a Roma il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo (MAXXI) e gli ultimi dieci anni siano ormai già stati definiti gli anni Zero, per determinarne in qualche modo dall’esterno la natura. Non una novità, è successo così anche per il Manierismo o il Barocco!
Dice Andy Warhol nella sua celebre Filosofia: “Non è arte nuova. Tu non lo sai se è nuova. Non diventa nuova prima che siano passati dieci anni perchè è solo allora che appare nuova”.2
Ci dà una speranza perché, anche se a poca distanza, non è certo impossibile mettere l’accento su alcune dominanti facilmente individuabili soprattutto perché, anche se non ancora condivisibili dalla massa, si sono diffuse oltre un ristretto manipolo di pionieri (contrariamente a quanto succede con le avanguardie di inizio secolo). Dagli inizi degli anni Sessanta e via via per gli anni successivi fino ad arrivare al loro termine, è un susseguirsi di rotture, contrasti e lotte, aspettative e attitudini diverse che marginalizzano le categorie di pensiero tradizionale. Avanzano le novità tecnologiche, si affinano gli strumenti della comunicazione, ci si divide in apocalittici e integrati, secondo il titolo di un famoso saggio di Umberto Eco che già aveva segnato una pietra miliare nel 1962 con il concetto di opera aperta (parte dalla musica!). La società dello spettacolo deborda da ogni ribalta perché in molti iniziano la corsa ai loro quindici minuti di celebrità. Un’epoca che, secondo un’espressione ormai abusata ma non ancora usurata, fa dire: formidabili quegli anni!
Infatti, tra le lame della forbice di quel decennio, molta della rivoluzione dei linguaggi che oggi conosciamo prende corpo come gli omini che si prendono per mano nei festoni ritagliati dai bambini: Pop Art, Nouveau Réalisme, Op Art e Arte Cinetica, Minimal Art e, per non farci mancare nulla, le esperienze verbo-visuali come la Poesia Visiva in Italia, che dalla letteratura trasmigrano nelle arti visive proprio all’inizio del decennio, e che in parte raccolgono l’idea di progetto leggero e di coinvolgimento dell’arte nella vita del coetaneo Fluxus. È in questo movimento che si hanno le prime sperimentazioni con i media e i primi festival dove queste appaiono, come quello di Wiesbaden nel 1962, ormai da molti considerato l’evento fondatore del movimento. A queste neoavanguardie si aggiungono gli happening, l’Arte Concettuale, l’Anti-Form, l’Arte Povera, la Land Art, la Body Art, l’Architettura radicale…
Queste, con le loro differenze, sono state allineate o critiche verso la società, specchio o coscienza dei fatti, proprio come succede anche alle altre discipline, letteratura, teatro, musica, che più facilmente accordiamo a quanto ci succede intorno. In fondo, gli artisti leggevano gli stessi giornali e libri dell’uomo della strada, e come ognuno di noi oggi non sono privi di Internet o della televisione.
Ma questi sono fatti già raccontati nella storia dell’arte, invece noi vogliamo aprire l’orizzonte a una storia delle arti e, in particolar modo, a un racconto dei due ambiti che più di tutti hanno rappresentato, anche per le larghe maglie che con difficoltà riescono a contenere o a far filtrare nel loro campo le novità, la provocazione e la ribellione: l’arte contemporanea e la musica rock.
Nate negli stessi anni e immerse in un unico flusso di vita, condividono visioni e atteggiamenti molto più di quanto si possa immaginare. Pensate a Laurie Anderson o ad Art & Language quando i loro testi sono musicati negli anni Settanta dai Red Crayola (sono loro però a volerlo), oppure alle attuali esperienze sonore di Janet Cardiff. E non dimentichiamo quanto un musicista non proprio rock come John Cage abbia pesato sul rinnovamento dell’arte con la sua corrispondenza con Robert Rauschenberg e attraverso il rapporto quotidiano con il troppo dimenticato artista concettuale William Anastasi. O ancora chi come Yoko Ono ha vissuto a braccetto con la musica fino a esserne oscurata come artista, passando poi il testimone a Björk per le collaborazioni familiari con Matthew Barney. Per fare anche qualche nome di casa nostra, recentemente Michelangelo Pistoletto ha collaborato con Gianna Nannini, nostra unica rocker, mentre Jovanotti, che si diletta anche in pittura, con il funambolico Maurizio Cattelan. Sarebbe uno sgarbo se non ricordassimo in questo elenco Giuseppe Chiari o le prime sperimentazioni di musica elettronica di Pietro Grossi alla fine degli anni Cinquanta.
Pur importanti, non sono soltanto questi i fatti che in quest’occasione ci interessano. Non vogliamo restare all’interno dell’arte o nei suoi paraggi ma piuttosto creare, a partire da un’unica storia, una visione sdoppiata e trasformata, come fece Alighiero Boetti con la sua identità in Shaman Showman (1968). Un’immagine certamente enigmatica che rappresenta un suo autoritratto duplicato e invertito: la figura è contemporaneamente eretta e capovolta, frontale e di spalle.
Arte e rock, da un’unica radice, si sono separati in due figure e camminano per strada dandosi la mano. Proprio come un’altra opera dello stesso artista, Gemelli (1968): anche questa una riflessione sull’identità che diventa simbolo di un racconto dove sono privilegiati i momenti live, ovvero mostre e concerti. Credo siano questi, forse più delle singole opere, le situazioni in cui sono più evidenti gli sperimentalismi, le contaminazioni, i rimandi, la stessa energia tra coloro che sono stati sciamani e showman. Non sono interessato a rintracciare primogeniture, ricadrei nelle autonomie, né tanto meno a fare un unico brodo primordiale tra una cultura troppo spesso e a torto considerata di élite e una di massa.
L’arte deve stregare e intrattenere. Parola di Boetti.

 

1969

Come sempre accade prima dell’anno fatidico dove tutto emerge e i fatti si tatuano nell’immaginario collettivo, quanto doveva succedere è già successo. Il rock è arrivato a maturità e l’arte è un universo complesso e ricco di tendenze, capace di inglobare materiali da ogni provenienza. Continua a soffiare il vento delle novità, ma è soltanto la fragorosa dimostrazione dei processi iniziati tempo prima: in quest’anno ci sono molti eventi finali, soltanto pochi saranno però epiloghi, che confermano la definitiva accettazione di ciò che ha messo in subbuglio le certezze acquisite per farsi a loro volta, nei decenni successivi, acquisite certezze. Gli anni Sessanta sono stati un decennio formidabile, dominato dalla cultura alternativa che ha trovato il suo slogan nell’ormai evergreen Peace & Love, con le sue battaglie per la convivenza civile, per un mondo unito contro la guerra, in cui torna a dominare l’incontrastata fiducia nell’amore come motore universale dell’armonia tra gli uomini. Parola che Robert Indiana nel 1964 scrisse a lettere capitali, e con la “O” inclinata, all’interno di un quadrato: non più un’opera ma ormai una chiara immagine simbolo che ha travalicato anche la cultura in cui è nata. Lo stesso succede anche all’aggettivo giovane, che non indica più soltanto un’età anagrafica ma diventa una categoria, un ruolo sociale, un mondo a parte in cui riconoscersi e farsi etichettare. Le sottoculture e le esperienze artistiche giovanili nate in quel periodo, nonché le istanze per un futuro diverso più sognato che realizzato su tutte e due le sponde dell’Atlantico, sono state un fiume che si è disperso in mille rivoli: dagli hippie ai rocker ai mod, dal Minimalismo alla Funk e Body Art.
Lentamente cominciano a sottrarre terreno a quel mondo statico e pesante che è il moderno. Sebbene la serialità, caratteristica principale di quest’epoca che sta per tramontare, si ritrovi anche nel riff del rock, introdotto in quel laboratorio che è Londra in quegli anni – si pensi a (I Can’t Get No) Satisfaction (1965) dei Rolling Stones – questa non ha nulla a che spartire con quella “cultura quadrata”, soprattutto quando a fine decennio arrivano i virtuosismi dei Led Zeppelin o le distorsioni del “Black Elvis”, ovvero Jimi Hendrix.
La griglia del moderno si apre: in arte si supera anche il codice minimalista e fra le prime esperienze c’è quella dell’italiano Paolo Icaro, in quegli anni di base a New York.
Siamo ancora nel 1967 ma si cominciano già a vedere i primi fuochi, proprio come quando Hendrix al festival di Monterey lascia il pubblico ad ascoltare la musica prodotta dalle fiamme della sua Fender.
Icaro supera l’idea di scultura come oggetto da contemplare e con la serie delle gabbie, strutture spaziali costruite con sbarre in acciaio distanziate tra loro in modo che ci passi una persona, chiede allo spettatore di partecipare attivamente all’opera. Un lavoro che pone interrogativi anche a Germano Celant, che in quell’anno pubblicava Appunti per una guerriglia sulla rivista “Flash Art”. In occasione della mostra “Arte Povera e IM-Spazio” presso la galleria La Bertesca a Genova dove è esposta la Gabbia gialla, il critico afferma di non capire più se si tratti di contenitore o contenuto. “Penetrando in essa, siamo in uno spazio chiuso o entriamo in uno spazio aperto? Siamo liberi fuori o dentro? Qual è in nostro posto?”.3
Interrogativo che accompagna la seconda ondata che incombe. I Beatles così come la Pop Art e le altre tendenze che avevano incarnato gli ideali della prima parte del decennio stanno per essere superati, il cambio della guardia si avvicina. Entrano in scena il nuovo rock inglese e le esperienze concettuali americane, anche se i precedenti eroi sono ancora tutti attivi come dimostra la longevità dei Rolling Stones o quella di Robert Morris, forse non più grandi innovatori ma certamente ancora all’altezza per esprimere lo spirito del nostro tempo.
Ma ripartiamo dall’inizio dell’anno. Il 30 gennaio i Beatles organizzano a sorpresa un concerto sul tetto dell’edificio che ospitava la Apple, la loro casa discografica, in pieno centro a Londra.
È l’ultima volta che si presentano insieme in pubblico. La cultura pop più che in soffitta finisce sul tetto. Nello stesso mese Jannis Kounellis espone presso la galleria La Salita di Roma i suoi ormai più che famosi cavalli vivi: al contrario del nome, si scende per entrare in quello che realmente è un garage. In quell’anno prende definitivamente forma il mito del concerto, rito di massa per eccellenza, momento di estasi ed emozione che si crea tra pubblico e performer. Woodstock ne diventa l’emblema, il modello da seguire, luogo di sperimentazione oltre che esperienza irripetibile. Cos’altro è l’inno americano che Jimi Hendrix ha distorto con la sua Fender trasformandolo nell’agghiacciante onomatopea di un bombardamento in Vietnam? Woodstock fu vissuto direttamente sul corpo: brividi di musica, pioggia e fango.
Il 22 marzo presso la Kunsthalle di Berna si apre una mostra non tanto concepita per definire i significati dell’arte del tempo ma proprio per il suo contrario: allargare il concetto di arte e modificare la sua percezione così com’era stata avvertita fino ad allora. Il curatore, ma sarebbe meglio dire l’orchestratore, è Harald Szeemann.
Un evento che rinnova la pratica della curatela e che, come tale, ad anni di distanza è diventato il punto di partenza della nuova storia dell’arte contemporanea.
“When Attitudes Become Form”4 si presenta come una mostra ambiziosa e caotica, in cui è Szeemann a definire spazi e abbinamenti, lasciando però liberi gli artisti di esprimere le loro idee o le loro visioni del mondo, soprattutto perché quasi tutte le opere sono direttamente costruite in loco con interventi integrati allo spazio.
“Gli artisti di questa mostra non sono fabbricanti di oggetti; cercano, anzi, di starne lontani e proiettano così i propri livelli significanti per attingere l’essenziale al di qua dell’oggetto, per essere situazione”.5
Partecipano soprattutto artisti americani ma sono presenti anche gli europei con olandesi, tedeschi, belgi, italiani e qualche francese. In tutto una sessantina. Joseph Beuys modella l’angolo tra il pavimento e la parete con del grasso mentre da un registratore viene irradiata un cantilena che suona più o meno così: Ja Ja Ja Ja Ne Ne Ne Ne. Come ancora oggi purtroppo accade c’è chi commentò: “Szeemann sporca il museo, ed è con il denaro del contribuente che bisognerà pulire tutta questa immondizia”.6
Michael Heizer si serve dell’intervento di una ditta di demolizioni per sventrare una parte del marciapiede dirimpetto allo spazio espositivo per creare Depression. Lawrence Weiner ritaglia un quadrato togliendo l’intonaco del muro per A 36"x36" Removal to the Lathing or Support Wall of Plaster or Wallboard from a Wall. La polizia arresta Daniel Buren la sera dell’inaugurazione mentre procedeva a un’affissione selvaggia di un suo outil visuel nel centro della capitale della Svizzera. Walter De Maria non si muove da New York e fa posizionare al centro di una sala un apparecchio telefonico con l’intento di usarlo e far sì che una persona presente alla mostra possa rispondergli e parlare con lui. Raccontata così sembra che, oltre al pubblico, anche il direttore abbia qualche problema da risolvere! Proprio come li ebbero i quattro giovani organizzatori di Woodstock.
Opere ferme alla frontiera che mai arrivano a Berna, come quelle di Emilio Prini e Pier Paolo Calzolari, ma anche Pistoletto e Icaro non riescono a far realizzare i loro lavori, mentre Kounellis risolve il problema presentando alcuni sacchi riempiti con legumi o altri alimenti comprati al mercato. Gli altri italiani che vi partecipano sono Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo, Pino Pascali, Mario Merz e Gilberto Zorio. Quest’ultimi due, accompagnati anche da Marisa Merz e Tommaso Trini, coinvolto da Szeemann con un testo in catalogo, partono da Torino alla volta di Berna su di un furgoncino con dentro i materiali per la realizzazione delle opere.7
Sulla scia del movimento hippie la mostra doveva essere un progetto autogestito direttamente dagli artisti, almeno così Piero Gilardi l’aveva pensata e più volte discussa con l’orchestratore.
“L’allora direttore della Kunsthalle di Berna, Szeemann, aveva accettato l’idea che i nuovi artisti si autogestissero una grossa mostra, ma all’ultimo momento, accampando a pretesto le pressioni dello sponsor, la Philip Morris, si rimangiò la parola data e contrattò la mostra con l’apparato mercantile newyorchese, Leo Castelli in testa”.8 Doveva essere una mostra fuori dal sistema, era necessario far uscire l’arte dalle grinfie del mercato perché essa si diffondesse nella vita, proprio come in quegli anni Gilardi inizia a praticare nonostante l’affermazione dei suoi tappeti natura.
Con un anticipo di una settimana si era inaugurata allo Stedelijk Museum di Amsterdam una mostra dello stesso tenore di quella di Berna dal titolo “Op Losse Schroeven”, ma è “When Attitudes Become Form”, anche per quel carattere da carovana che la porta prima al Museum Haus Lange di Krefeld in Germania e poi all’ICA di Londra (lo spazio in cui a metà anni Cinquanta nasce il pensiero pop), a incarnare “l’unica autentica mostra della contestazione a porsi al di là delle dichiarazioni politiche e a trascendere le forme di protesta, per recuperare il ‘paradigma dell’utopia’”.9
Alcuni dettagli in comune tra questa mostra e Woodstock fanno scoprire l’altra faccia della luna, sulla quale proprio quell’anno l’uomo aveva messo il primo piede in quel memorabile 21 luglio, momento storico per l’umanità che la BBC commenta con la musica dei Pink Floyd.
Il processo che porta a cristallizzare la spontaneità degli anni precedenti sta arrivando a integrarsi nell’establishment. È la fine delle utopie? Senza i soldi della Warner Bros che si assicurò in anticipo i diritti dei prodotti discografici e cinematografici attraverso i quali si è poi creato il mito, il festival non si sarebbe potuto fare. Così come senza le vivande che arrivano dal cielo grazie agli aerei della US Air Force, quella stessa forza militare che scarica napalm in Vietnam e che in altri contesti è oggetto di vive proteste, sarebbe andata in tutt’altro modo per i 400.000 presenti sulle colline di quella provincia americana. Da parte sua Szeemann capisce subito che, se vuole fare qualcosa di veramente nuovo, non può rifiutare l’offerta di Jean-Marie Theubet della Philip Morris di Losanna che mette sul piatto 15.000 dollari per i preparativi e 10.000 per il catalogo. Inoltre ha bisogno delle gallerie. Non è un caso che nella mostra sono presenti molti artisti della galleria di Leo Castelli, italoamericano e conosciuto ai più per essere stato il mercante di Andy Warhol in precedenza. Tutti erano già dentro al sistema, anche se non se ne erano accorti. Arte e rock sono già anche merce ma ho sempre pensato che, al contrario di Icaro, raggiungano il sole senza bruciarsi.

Il caso ha sempre giocato un ruolo nell’arte contemporanea, basti pensare all’oggi santificato padre Marcel Duchamp o a Daniel Spoerri che, sull’imprevista coincidenza, hanno basato molte loro opere. Ritroviamo nella fotografia questa stessa peculiarità, benché essere al posto giusto nel momento giusto non è sempre garanzia per uno scatto di entrare nella storia. Certamente questo non è successo a Gianfranco Gorgoni che da Bomba, un paesino degli Abruzzi, arriva nel 1968 a New York dove, in soli quattro anni, riesce a realizzare il libro The New Avant-Garde of the ’70, in cui ritrae tutta la scena dell’arte: Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Richard Serra, Dan Flavin, Carl Andre, Sol LeWitt… un libro voluto da Leo Castelli, conosciuto pochi anni prima in occasione di un servizio richiesto da “L’espresso” con il quale collaborava.
Rimasto imbottigliato nel caos di macchine che occupa la strada per New York mentre sta rientrando in città, a causa di un improvviso guasto non può non fermarsi nella grande conca della fattoria di Max Yasgur. Forse è il segno di un destino. Scatta molte panoramiche della folla che si accalca sulla collina e immagini del palco, nascondendo sotto terra le sue macchine nei momenti in cui decide di ascoltare il concerto. Ma la mattina del 18 agosto sale su quel palco insieme a chi più di ogni altro ha incarnato la leggenda di Woodstock: Jimi Hendrix. Forse la faccia tosta da italiano che non conosce barriere, forse un servizio d’ordine ormai allo stremo per come sono andati avanti i tre giorni precedenti, fatto sta che in quel mattino ci regala alcuni tra gli scatti più belli del chitarrista durante una sua performance. Gorgoni continua a dire che se si guarda attentamente il film di Michael Wadleigh, si può riconoscere anche lui sul palco ma ancor di più si ritrovano i momenti da lui immortalati: con una chitarra Fender fiammeggiante Jimi è tutt’uno con il suo strumento, circondato dai pochi superstiti in quello che è un prato inondato di immondizia, tende, carte. Ciò che resta normalmente dopo un concerto rock non può essere scambiato per la fine dell’utopia che è stata vissuta.
Pochissima musica, molte le voci e i rumori della folla, un girotondo di nudisti in pieno stile flower, qualche scena astratta che ricorda le prime sperimentazioni d’interferenza sugli schermi dei televisori del più noto Nam June Paik. In realtà sono i fari nella notte di alcune motociclette, il loro rombo fa da colonna sonora. Più che un documento, un diario personale in bianco nero. Lungo non più di quindici minuti, è il video girato da Ira Schneider a Woodstock con i primi apparecchi video messi in circolazione dalla Sony soltanto pochi anni prima. Un lavoro d’artista che nulla ha a che fare con il celebre film prodotto dalla major. Se le sole immagini in movimento fossero state queste, il concerto per antonomasia non sarebbe andato oltre il mondo dell’arte.
Schneider è uno dei pochi a possedere in famiglia un televisore a 18 anni (nasce nel 1939 a New York) e uno dei primi uomini al mondo a possedere una videocamera portatile, partecipa al festival perché chiamato dai Jefferson Airplain a registrare la loro performance. Non lo farà che per pochi minuti, il resto è la sua visione da uomo d’arte.
Eppure l’immagine video rischiara già le sale delle gallerie. La luce lattiginosa emanata da qualche anno dagli schermi televisivi ha sostituito quella rappresentata nella pittura. Nel maggio Schneider insieme a Frank Gillette, due dei pionieri della videoarte, presenta quella che è considerata in assoluto la prima installazione video, Wipe Cycle, che avrà un’influenza determinante per lo sviluppo delle installazioni video negli anni Ottanta. Costituita da nove monitor dove scorrono immagini registrate, è presentata alla mostra “TV as a Creative Medium”, il primo appuntamento americano dedicato a questa nuova forma d’arte presso la Howard Wise Gallery di New York.
Siamo già tutti dentro al tubo catodico come nella corsa finale verso la telecamera dei ragazzi di Woodstock, un altro modo per simboleggiare, inconsapevolmente, che il vivere il mondo sta ormai scivolando nel solo guardarlo dalla poltrona del proprio salotto. L’epoca dei figli dei fiori si trasforma in mitologia.
Ma il caso tira un altro colpo a Schneider e a tutti quelli della sua generazione. Lo rende testimone dell’appuntamento che invece di rivelarsi i “tre giorni di pace e musica” della costa occidentale si ricorderà come la fine della parabola della favola pacifista che su quella stessa costa era nata: il concerto dei Rolling Stones ad Altamont (California). Ancora una volta al seguito dei Jefferson Airplane, il loro è un live sofferto perché Marty Balin, uno dei fondatori del gruppo, viene colpito alla testa sul palco tanto che i Grateful Dead presenti in scaletta decidono di non suonare. Schneider questa volta registra un home video in cui parte della line up è ben presente: Flying Burrito Brothers, Crosby, Stills & Nash (Young arriverà soltanto l’anno successivo), oltre al suo gruppo preferito. Sempre in bianco nero, la telecamera traballante, registra la sequenza di Mick Jagger che parla alla folla rendendo il senso di immediatezza e di tensione del tragico fatto di sangue a opera degli Hell’s Angels che quel 6 dicembre scuote il mondo del rock.
“Sono andato al famoso festival sull’isola di Wight con un’amica”. Sembra abbastanza chiaro perché Franco Vaccari nell’agosto del 1970 arriva ad Afton Down, una location che si rivela inadatta a ospitare le oltre 600.000 persone che fanno di questo festival la risposta europea a quanto è accaduto l’anno precedente sulle colline di Bethel. Non solo per la cifra da capogiro di giovani ma anche per lo stellare cast: Doors, al loro debutto europeo, Ten Years After, Joni Mitchell, Miles Davis e ancora una volta Hendrix. Coerente con quello che può essere definito il nocciolo duro della sua poetica, l’occultamento dell’autore – palese nella serie “Esposizione in tempo reale”, di cui la più nota è quella alla XXXVI Biennale di Venezia del 1972 in cui, nella sua sala personale, è presente una cabina per fototessere che il pubblico è invitato a usare lasciando sulle pareti la propria immagine come traccia fotografica del suo passaggio – Vaccari non avrebbe mai scattato come il più classico dei reporter, anche se ricorda che tra quella moltitudine di persone non si vedeva nessuno con una fotocamera. I concerti venivano vissuti, non fotografati con il telefonino come oggi!
“Appena arrivato mi sono accorto che io in effetti appartenevo ad una stagione culturale diversa da quella del festival. Lì eravamo nel pieno della stagione hippie, mentre io, anche per una questione anagrafica, non ero un hippie. Mi sono sentito sostanzialmente estraneo a quel mondo. Dunque ho capito che se avessi fotografato semplicemente seguendo il mio istinto, avrei proiettato sulla situazione contenuti e significati che appartenevano più a me stesso che al contesto. Per neutralizzare i miei tic estetici, ho deciso di agire meccanicamente: fare 100 passi, e poi fotografare a destra e a sinistra, poi altri 100 passi, e così via. In questo modo avrei innescato un meccanismo apparentemente rigido, che però mi avrebbe permesso di non far venire troppo a galla il mio modo di vedere, da osservatore esterno”.
Può sembrare un escamotage, in realtà è solo il modo di guardare dell’artista e Vaccari l’ha fatto sempre “utilizzando la fotografia per produrre immagini-impronta, tracce fisiche di una presenza”.10
Tutto il contrario dell’uso narcisistico, di questo e altri medium, che si fa nel decennio appena iniziato.

 

Anni Settanta, parte 1. Corpo a corpo oltre i generi

Prima di affrontare lo specchio come immagine di se stessi rimaniamo all’aperto, questa volta non tanto con mostre ma con opere, monumentali, di larga scala, ben più onerose sia come progettualità che come realizzazione di quanto può essere un’esposizione. La fuga dai musei e dai luoghi del sistema dell’arte è in corso. L’artista cerca una rottura con quelle che erano state chiamate le Belle Arti.
“Tutte le messe in discussione del sistema dell’arte passeranno dunque ineluttabilmente per una ridiscussione tanto dell’atelier come unico luogo in cui si compie il lavoro quanto del museo come unico luogo in cui si vede il lavoro compiuto”, dice Daniel Buren.11
Ecco che allora la scelta del luogo non è secondaria, anzi opera e contesto ambientale si fondono insieme fino a diventare un tutt’uno.
Sono i lavori della Land Art, segni direttamente inferti nella terra che, nella loro artificialità, vogliono restituire all’arte quel senso del sublime che scatta tra uomo e natura per il coinvolgimento di quegli spazi desolati, selvaggi e lontani dall’urbanizzazione che, data la scala, per forza devono occupare. “L’essenza della Land Art è nell’isolamento”, ribadisce Walter De Maria, uno tra i suoi maggiori protagonisti.12
Considerati da alcuni come l’ultima espressione della lunga tradizione della pittura di paesaggio, da altri come momento di passaggio epocale nella concezione della scultura, all’inizio dei Settanta i lavori di Land Art sono ormai una realtà per lo più visibile, anche se da pochi e con uno sguardo a volo di uccello direttamente da un aereo. Oggi ci aiuta Google Earth!
Da terra non si può vedere ma vivere, anche se richiede un grosso investimento fisico percorrere l’opera forse più celebre di questo movimento, la Spiral Jetty di Robert Smithson, realizzata tra il 1969 e il 1970. Un accumulo di blocchi di basalto e di fango, largo quattro metri e mezzo, che si estende a spirale nel Grande Lago Salato a Rozelle Point nello Utah.
Questo molo che gira su se stesso è ancora oggi visibile anche se nel tempo è stato oggetto di dissipazione; Smithson è sempre stato affascinato dal concetto di entropia diventando così uno dei punti di riferimento per un nuovo rapporto tra arte e natura che ha avuto il suo momento culminante nell’arte ambientale degli anni Ottanta. A un opera di Smithoson dedicano un pellegrinaggio anche i Sonic Youth.
Il problema non è tanto come esporle in un museo, cosa che poi avviene superando la contraddizione iniziale, quanto come farle conoscere al pubblico. Ecco allora che entrano in campo i nuovi media: soltanto fotografie e filmati potevano assolvere a questo compito. Certo non è la stessa sensazione che percorrerle ma soltanto attraverso le loro riproduzioni se ne comprende anche la loro estrema articolazione e complessità.
Nel 1969, l’emittente tedesca Sender Freies Berlin (SFB) trasmette senza tanti commenti aggiuntivi il video Land Art prodotto dalla Fernsehgalerie – video galleria – fondata a Dusseldorf da Gerry Schum. Ma per quanto riguarda la Spiral forse non c’è libro che non riporti le fotografie scattate da Gianfranco Gorgoni che ancora una volta sa cogliere l’occasione.
“Mi prendevano per matto perché non mi facevo pagare, bastava che mi dessero da mangiare e dormire. Se avessi chiesto soldi a Smithson, che già tirava la carretta per pagare lo scavatore, non saremo mai arrivati da nessuna parte. Poi, lui fece una mostra al MoMA con le mie foto e da lì nacque un’altra cosa. È sempre stato un dare e avere”.
Un rapporto di stretta amicizia con l’artista che, dopo la sua prematura morte nel 1973, si trasforma in un’intima ossessione per l’opera e il luogo. Nel tempo vi è tornato moltissime volte gli ultimi scatti risalgono al 2010. Quello che non ha potuto fare Smithson l’ha fatto Gorgoni.13
Non è andata proprio così tra Adrian Maben e i Pink Floyd per il famoso Live at Pompei ma sembra proprio che l’assunto di partenza sia stato lo stesso: anche per loro un ritorno alle origini, e un evento che soltanto pochi fortunati hanno vissuto dal vero. Oltre al film, oggi ci aiuta You Tube.

È il rapporto tra arte e fotografia che negli anni Settanta diventa centrale, superando di fatto quella che da decenni era ormai diventata la sua autonomia linguistica affermatasi alla metà degli anni Trenta soprattutto in America. Si torna al nocciolo del problema: il suo occhio meccanico e l’ambiguità del suo essere uno strumento di mediazione.
Aumenta esponenzialmente la sua presenza nelle opere degli artisti, si pensi ai lavori dell’Arte Concettuale o della Narrative Art che si presentano come assemblaggi d’immagini, parole e talvolta qualche oggetto, lavori che apparentemente hanno poco a che fare con la tradizione del bello, il cui valore invece è dato dai cortocircuiti mentali che innescano nell’autore e nel visitatore. Proprio come la filosofia. Non a caso in quegli anni Joseph Kosuth sostiene che soltanto l’arte può proseguire il cammino millenario della speculazione filosofica. Ancora dopo quarant’anni queste opere restano lo scoglio visivo più difficile da superare per il comune cittadino, l’incubo di ogni sezione didattica di un museo.
Fondamentale appare il ruolo della fotografia, insieme alla registrazione video, nella documentazione. Documento o opera? Si rimane nell’ambiguità soprattutto nell’ambito della Body Art, ovvero l’uso del corpo come mezzo di espressione che in quel momento molti artisti praticano. La loro messa a nudo davanti al pubblico, l’estremo tentativo di mettersi di nuovo al mondo, il loro compiere atti radicali e pericolosi, il loro giocare con l’identità sono temi che riguardano tutte e due le nostre sfere d’interesse: Jim Morrison e Vito Acconci che si masturbano in pubblico, David Bowie e Urs Lüthi con i loro travestimenti, senza trascurare Luigi Ontani. E come non ricordare le performance di Iggy Pop intrise di acceso nichilismo e la sua caduta durante uno stage diving? Forse non un atto estremo come quelli di Chris Burden o Gina Pane, ma anche questo dalle brutte conseguenze. E come per quelle il pubblico non interviene.
Sebbene Ontani lo faccia accettando di trasformarsi in forme antiche e datate, il “tabù più duro da sconfiggere è quello dello stare abbarbicati al proprio sesso, ultima gelosa garanzia di identità con se stessi, ultima barriera frapposta alle avventure metamorfiche”.14
Chi lo supera decisamente, proponendo la forma più radicale di plagio, di fuga da sé che sia concepibile, è Urs Lüthi. In Un’isola nell’aria (1975) l’artista svizzero si fa ritrarre in una serie di pose dove il suo viso diventa luogo per uno slittamento tra femminile e maschile.
Pochi mesi prima di prendere i panni di Ziggy Stardust, Bowie fa outing dichiarando a sorpresa un’accesa femminilità che diventerà l’ingrediente fondamentale del glam rock, una versione scintillante, glamour o “del cazzo”, come fu anche chiamato dai più radicali rocker.

Il 1972 è stato definito “l’anno del vagabondaggio transessuale quando all’improvviso, nel rock’n’roll non c’è quasi nessuno che non voglia essere – o per lo meno suggerire di essere – una checca sfrenata”.15
Andy Warhol ha fatto scuola, è di moda forse perché non dipinge più dalla metà degli anni Sessanta dedicando tutta la sua energia al cinema e alla costruzione della Factory, Velvet Underground compresi. Abbandona il suo look pre punk-rock, giubbotto di pelle, jeans neri strappati e spille da balia sul collo alto del maglione, e parlando con Truman Capote dice: “Sono tutti tornati ai bei vestiti. Il look hippie è veramente finito”.16 Come ogni buon dandy, o snob, gira con il suo cane Archie, un minuscolo bassotto inglese.
Anche la copertina di Sticky Fingers, che disegna per i ragazzacci del rock Jagger e compagni, acquista un’aura di erotismo gay con l’aggiunta della cerniera lampo. Segue Love You Live.
Incontra Bowie che gli aveva dedicato una canzone nel nuovo album Hunky Dory, il cui titolo non è un’allusione: Andy Warhol.
La visita alla Factory non va meglio di quella che anni dopo farà nello studio di Damien Hirst, l’atmosfera è tesa. “È molto bella, grazie mille”. Fu l’unico commento di Warhol dopo aver ascoltato il tributo. La trovò orrenda, e come dargli torto con quel ritornello che più o meno suona così: “Andy Warhol è uno spasso / Appendetelo al muro / Andy Warhol, Schermo d’Argento”. Il rapporto andrà meglio con Lou Reed.
Leggenda vuole che in quest’occasione nasca quella creatura artefatta che è Ziggy Stardust, capelli tinti di arancione e abiti luccicanti, che termina la sua parabola nel concerto del 3 luglio 1973 durante uno show all’Hammersmith Palais di Londra, quando coglie di sorpresa anche il gruppo che lo accompagna, The Spiders From Mars, annunciandone la morte.
Le maschere in quel momento attraggono il mondo dell’arte e Warhol non si fa scappare l’occasione. Torna alla pittura con la ben nota serie dei ritratti di Mao, sull’onda del viaggio di Nixon in Cina. Oltre duemila sono i quadri fatti dall’artista al presidente cinese, dai cinque metri ai diciotto centimetri. L’artista, che ne riprende il volto dal frontespizio del famoso Libretto rosso, lo raffigura come una caricatura anche grazie ai colpi di pennello che liberamente lascia sulla tela; uno di questi dipinti di piccole dimensioni sarà l’unica opera dell’artista ritrovata nella sua casa dopo la morte nel 1987.
Nel 1973 torna di scena anche Roma, sono passati più di dieci anni da La dolce vita di Fellini che l’aveva fatta apprezzare nel mondo.
Nell’estate Andy Warhol è a Cinecittà per girare Flesh for Frankenstein e Blood for Dracula prodotti da Carlo Ponti. Nell’autunno si apre nel parcheggio di Villa Borghese un’altra mostra storica il cui titolo è più che evocativo nella sua semplicità: “Contemporanea”.
Curata da Achille Bonito Oliva e promossa dagli Incontri Internazionali d’Arte della recentemente scomparsa Graziella Lonardi Bontempo, a cui Warhol fa un ritratto, è la “prima grande esposizione internazionale a carattere interdisciplinare e multimediale tesa a verificare la situazione in atto. Articolata in dieci sezioni (arte, cinema, teatro, architettura e design, fotografia, musica, danza, poesia visiva e concreta, libri e dischi d’artista, informazione alternativa), la rassegna intendeva restituire la complessità antropologica della realtà contemporanea, attraverso le sue diverse espressioni in tutti questi ambiti artistici e comunicativi”.17
Una mostra di sintesi e di svolta, dove gli artisti finora ricordati sono tutti presenti anche se la partecipazione in quello che ancora una volta era uno spazio inusuale assume ben altro numero. Non è nella qualità degli artisti la grande novità, ABO ha sempre avuto buon fiuto e occhio d’aquila, né tanto meno nei movimenti presentati, quanto nel format messo in scena. Ed è qui che si vede il curatore! È il definitivo superamento di ogni definizione di genere perchè la mostra è impostata “sul dialogo e sul confronto, invece che sulla separazione delle discipline, le quali venivano presentate nella loro flagranza, nei termini e modi stessi delle loro relazioni”.18
Ha inizio il nomadismo dell’identità su tutti i fronti: vita, arte, musica.


Anni Settanta parte 2. Non più soltanto rumori di fondo

Il 3 maggio 1975 Autobahn dei Kraftwerk raggiunge il 25° posto nella classifica dei singoli più venduti in America. Apparentemente non è un grande risultato, anche perché non è certo la migliore canzone del gruppo tedesco, ma è un momento di svolta che non arriva da una delle grandi capitali dove troppo normalmente si pensa che tutto accada.
Non è ancora partita per il viaggio attraverso gli Stati Uniti la carovana del “Rolling Thunder Revue”, una tournée di musicisti guidata da Bob Dylan (vi partecipano anche Mick Ronson, chitarrista dei The Spiders from Mars, e Bruce Springsteen al suo debutto), ma è ormai chiaro che la direzione verso il futuro non è più quella americana di Kerouac bensì l’autostrada tedesca. Da una ex raffineria di Dusseldorf, tipico esempio di riconversione postindustriale da qualche anno trasformata in un laboratorio elettronico, esce questo disco ad opera di due giovani tedeschi, Ralf Hütter e Florian Scheneider, che cambia non soltanto la storia della musica ma anche il suo modo di suonarla. Grande è l’impatto sugli anni Ottanta, quando Afrika Bambaataa riprende quelle sonorità in un club di New York. Ma si avvera anche quello che il futurista Luigi Russolo con il suo “intonarumori” aveva sperimentato a inizio secolo. Dagli Einstürzende Neubauten ai Test Dept fino ad arrivare ai Sonic Youth, è il trionfo del rumore e del noise.
Come sempre, anche gli artisti visivi non stanno soltanto a guardare e le registrazioni ambientali poi incise su vinile sono una costola della Land Art. Lo fa Marcello Jori in Moldau on Moldau (1977) ma anche il concettuale canadese Jack Goldstein con A Suite of Nine 7-Inch Records with Sound Effects (1976) in cui sono registrati The Lost Ocean Liner piuttosto che The Burning Forest o Two Wrestling Cats.
“Puoi ascoltare Autobahn e poi guidare sull’autostrada. Solo allora potrai realizzare che la tua auto è uno strumento musicale. Così tante cose possono essere divertenti: è una vera filosofia di vita che viene dal mondo dell’elettronica”.19
Una frase di Ralf Hütter che sta alla pari con quella di Nam June Paik: “Come il collage ha rimpiazzato la pittura a olio, così il tubo catodico rimpiazzerà la tela”.20
Come i Kraftwerk lavorano alla costruzione di nuovi suoni sintetici attraverso la distorsione e la creazione di nuovi strumenti elettronici – da poco meno di un decennio è stato commercializzato il primo sintetizzatore Moog, dal nome dell’ingegnere che l’aveva costruito – l’artista di origine coreana analizza le possibilità del trasferimento di altre informazioni elettroniche sullo schermo televisivo, ricercando sul piano visivo nuove immagini. Ambedue sono interessati alle sperimentazioni sul medium più che alla ricerca di contenuti, ripartendo dalla matrice comune che è quella futurista: l’esaltazione della civiltà delle macchine. I tempi però sono cambiati.
Il lavoro d’intervento sui media popolari, nella galassia elettronica, da parte di artisti, musicisti, poeti crea una nuova coscienza dettata anche dalle innovazioni tecnologiche che cominciano a diventare di uso comune.
“Nessun inizio / nessuna fine / nessuna direzione / nessuna durata /il video come la mente”,21 dirà Bill Viola negli anni Ottanta, forse il più noto video artista che inizia la sua carriera come cameraman nella galleria Art/Tapes/22 di Firenze agli inizi del decennio.
Gli artisti usano ormai naturalmente quei linguaggi, d’altra parte una lingua non è mai progettata o sperimentata ma parlata; essi si lasciano riprendere da questo specchio narcisistico in movimento, o generano immagini per quello stesso specchio radiante che “nella sua strutturale precarietà della significazione, è una metafora, anzi di più, è un principio regolatore fondamentale della cultura contemporanea e, dunque, anche della sua arte”.22
L’elenco delle mostre in cui le opere con i nuovi media sono presenti dà il senso di come la diffusione sia stata veloce e ampia, anche se non tutte possono essere ricordate. Due, però, non possono non essere almeno citate perché una è conseguenza dell’altra. Partiamo da “Projekt ’74” presso la Kunsthalle di Colonia, una delle prime a far entrare nelle sale di un museo una ben rappresentativa selezione di video artisti.
Da questa rassegna la “Documenta 6” riprende intere sezioni “tra cui l’ampia sezione video curata in entrambe le occasioni da Herzogenrath”.23 Documenta di Kassel è tra le più importanti manifestazioni periodiche insieme alla Biennale di Venezia per l’arte contemporanea e, in particolare, questa sesta edizione del 1977 è ricordata come la “documenta dei media”. All’inaugurazione si raggiunge l’apoteosi quando vengono mandate in onda via satellite contemporaneamente su oltre cento reti televisive le performance di Joseph Beuys, Nam June Paik e Douglas Davis.
“Come reagiscono gli artisti in una società nella quale i media indubbiamente dominano e determinano la concezione della realtà?”, si domandava Manfred Schneckenburger, direttore artistico di quell’edizione. Eravamo ancora lontani dai reality show che dominano la nostra epoca e che, negli anni Novanta, saranno anch’essi digeriti dall’arte.
La risposta non arriva soltanto dalla sua mostra: Germano Celant in quello stesso anno dà alle stampe Offmedia. Nuove tecniche artistiche: video disco libro, un libro in cui ricostruisce tutta la storia. Come già detto, il sogno dei futuristi è diventato realtà. L’opera d’arte si fa democratica assumendo la forma dei normali prodotti dell’industria culturale.
Limitiamoci al rapporto con la musica. Nel 1971 Ed Ruscha pubblica Records, un libro che, dopo la ben nota serie delle Twentysix Gasoline Stations (1963), è composto da trenta fotografie in bianco e nero di dischi in vinile con rispettive copertine di famosi cantanti e gruppi rock, pop, country e jazz da poco usciti nei negozi.
Ancora dal laboratorio decentrato di Dusseldorf, dove in quegli stessi anni dipinge Gerhard Richter e opera Beuys, il riff sono le fotografie di edifici industriali realizzate da Bernd & Hilla Becher che trovano spazio anche sulle pagine stampate oltre che sui muri delle gallerie. Il mondo industriale è fonte di ispirazione in questa città della Ruhr, Kraftwerk significa “centrali elettriche”. Non ci si scorda mai però di guardare all’uomo. Vale anche per Hütter e Schneider, anche se sono identificati come gli uomini robot.
La produzione di quelli che vengono definiti libri d’artista continua anche negli anni a seguire, come dimostra l’esperienza tra Mike Kelley e Kim Gordon, una dei membri dei Sonic Youth, su Fama e Fortune Bullettin no.8 (1991). Lo stesso artista californiano un anno dopo farà la copertina di Dirty.
Sul fronte dei dischi la nenia proposta da Beuys a Berna viene incisa su vinile un anno dopo, così come su questo supporto si ritrovano molte esperienze di poesia fonetica di quegli anni. Da questa cultura arriva anche Demetrio Stratos, anima degli Area: a lui dedicata una performance live di Giancarlo Cardini, musicista e artista di scuola fiorentina, per quello che all’improvviso è diventato il concerto in sua memoria a Milano nel 1979. All’inizio irriso, Cardini continua impassibile con i suoi versi gutturali per essere alla fine osannato dal pubblico.
Più musicale invece è The Top Song di J. Murray, un disco dove per la durata di dieci secondi sono riprodotti i cento motivi di punta dei precedenti dieci anni, tra cui Hey Jude dei Beatles. La tecnica è quella del cut up, tipica dei dj, l’effetto di un crossover ante litteram.
E ora il video. Nel 1972 John Baldessari canticchia le parole del famoso manifesto di Sol LeWitt sull’Arte Concettuale redatto nel 1967 in Baldessari Sings LeWitt.
L’artista americano prima afferma che le parole di LeWitt sono rimaste nascoste troppo a lungo nei cataloghi d’arte, poi inizia a mescolare il loro contenuto teoretico con la musica d’intrattenimento: un effetto sarcastico che propone allo stesso tempo un sofisticato riferimento alla cultura alta e un’esperienza esilarante.
Nel clima da cover che caratterizza i nostri più recenti anni, l’artista João Onofre propone Catriona Shaw sings Baldessari Sings LeWitt re-edit, Like a Virgin, extended version (2003), dove a una vocalist molto più dotata dell’artista concettuale viene chiesto di interpretare lo stesso testo sulle note della famosa canzone di Madonna Like a Virgin.24
“Il lavoro tramite e sul libro, il film, il video-recording, il telegramma, la fotografia, la xerox ecc. non deve evidentemente essere considerato come un’operazione visuale, ma come argomento riguardo alla natura e alle possibilità funzionali dell’arte o della ricerca comunicazionale”.25 In quegli stessi anni i gruppi del rock progressivo, che cercano di eguagliare per lunghezza e profondità i lavori dell’arte concettuale, uscivano dalla tradizionale confezione discografica per dare alle stampe cofanetti dal packaging più elaborato e di forte impatto comunicativo.

Il 31 gennaio 1977 si inaugura a Parigi il Centre national d’art et de culture Georges Pompidou, da tutti conosciuto come Centre Pompidou, con una mostra dedicata a Marcel Duchamp.
Il 27 maggio dello stesso anno a Londra i Sex Pistols sbeffeggiano la regina con l’uscita del loro disco God Save The Queen, che in pochi giorni arriva alla seconda posizione delle classifiche discografiche britanniche. Dieci giorni dopo il concerto a bordo del battello sul Tamigi, il punk ha conquistato definitivamente la scena.
Ironia della storia è quella che vede accomunati in pochi mesi di distanza l’ultimo grande fenomeno della ribellione giovanile nato in ambito musicale e l’apertura di un’istituzione museale che un politico conservatore di ispirazione gollista, il presidente della Repubblica francese a cui fu intitolato, volle per incanalare le conseguenze e il grande potenziale che la rivoluzione degli anni Sessanta aveva liberato.
“Quando divenne presidente nel 1969, Georges Pompidou era, al pari del suo partito e di tutta la classe politica, profondamente scosso dagli avvenimenti dell’anno appena trascorso, quando gli studenti erano stati a un passo dall’abbattere lo stato. Pompidou era impaziente di imbrigliare parte dell’energia anarchica per fonderla in uno stampo istituzionale. Senza perdere tempo, annunciò la sua idea di un centro culturale da costruire in un’area degradata del centro di Parigi”.26
Ambedue, a modo loro, sono destinati a fare rumore. Il primo per l’architettura di Piano e Rogers direttamente mutuata dalle più radicali esperienze di architettura di fine anni Sessanta quando fu commissionato il progetto, i secondi per il loro comportamento da fottuti bastardi.
Poi la storia li separa. Il Pompidou comincia un percorso espositivo incentrato sulla “fecondazione” interdisciplinare e caratterizzato da una visione globalizzata che, di fatto, può essere realizzato soltanto prestando la dovuta attenzione agli avvenimenti sociali e politici, mentre per i Sex Pistols è l’epilogo. A poco meno di un anno dal definitivo successo, durante il tour americano dove i concerti avranno disordini sociali e ostentazioni di simboli politici di estrema destra, il 20 gennaio 1978 Johnny Rotten dichiara la morte del gruppo. In quello che è un simbolo della cultura alternativa e creativa newyorchese, l’Hotel Chelsea, dove sono passati i più grandi musicisti e artisti, e dove per alcuni mesi risiedono anche Patti Smith e Robert Mapplethorpe nella loro ambigua storia d’amore raccontata in Just Kids, l’11 ottobre 1978 viene arrestato Sid Vicious per la morte di Nancy Spungen, allora sua compagna. Muore il 2 febbraio dell’anno successivo per overdose, ultima vittima delle droghe di una lunga serie iniziata con quelle delle famose “J”: Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Brian Jones. In seguito sarà l’AIDS a portare via i ribelli. Anche l’uscita dal mondo è un segno dei tempi.
Forse il punk e i Sex Pistols non sono tanto un momento anarchico quanto catartico della cultura occidentale perché proprio nel 1978 riesplode la pittura dove, però, a dominare non è più il bello ma il brutto, il trasandato, il fatto male. È Marcia Tucker che presso il New Museum di New York ordina la mostra il cui titolo, non solo programmatico, è anche rappresentativo dell’opera del gruppo inglese: “Bad Painting”. Una mostra seminale ma dimenticata, come molti degli artisti che vi partecipano e dove si vuole dimostrare che le idee di bene e male sono flessibili. Forse, insieme alla musica, è questa la grande eredità del gruppo inglese, per non dire l’inizio del relativismo che domina gli anni Ottanta.


Più che altro New York, poi Parigi

I fuochi d’artificio a New York – li anticipa Woody Allen in quel suo grande omaggio alla città che è Manhattan, film del 1979 – in realtà non sono che il preludio di quanto poi veramente avverrà nella Grande Mela nei primi dell’Ottanta. Il clima è cambiato, la grande festa dove arte, musica, moda, finanza divengono un tutt’uno ha inizio. Svergognata voglia di tornare a godere secondo un modello di vita che potremmo dire epicureo, assenza di grandi ideali se non quello di non pensare ma agire, trionfo della superficialità, attenzione al look come identificazione di se stessi, sono questi i caratteri che trionfano nel nuovo decennio. Il grande sogno americano del self made man e del consumismo riprende. Dominano le sneaker e gli snack, il mondo va consumato velocemente. E anche camminare diventa una festa, è il trionfo della cassetta nel walkman della Sony, oggi oggetto d’antiquariato sostituito dal lettore MP3, segno di un altro modo ancora di vivere la musica. E come sempre negli States c’è la possibilità di affermarsi per tutti, anche per chi ha la pelle di un altro colore. In televisione domina Arnold, con le sue avventure di ragazzino nero di buona famiglia, nell’arte Jean-Michel Basquiat, e nel pop rock (sarà questo il genere dominante) la pantera nera Grace Jones che, prima del fenomeno Madonna, è la vera icona della New York festaiola. La sua versione de La vie en rose, un classico della canzone francese, è sintomo di quell’andar liberamente a prelevare su e giù nella storia come vuole l’estetica postmoderna. E questi sono tempi di nomadismo sia perché il Concorde, l’aereo supersonico, unisce in poche ore le diverse sponde dell’Atlantico sia perché ci si muove nel tempo come in Ritorno al futuro, l’omonimo film di Robert Zemeckis del 1985. Il termine nomade diventa fondamentale anche nelle arti visive. Lo introduce ABO per la Transavanguardia, e dopo aver abolito i generi ora abolisce il tempo nella storia. Le citazioni ormai si spostano da una parte all’altra come gli appunti sui post-it, che fanno la loro comparsa nel 1984. Essenza della filosofia postmoderna.
Nei quadri di Basquiat ritroviamo di tutto, non soltanto materiali dalle discariche ma anche quelle suggestioni visive che prendeva dalla televisione, dai magazine e dai libri sparsi nel suo studio; tra questi molti riguardavano l’arte antica e rinascimentale.
Lo tsunami arriva con “New York New Wave”, una mostra di Diego Cortez, che come in un open call chiama a raccolta tutto lo scenario artistico di Downtown. Cortez è anche regista di video per i Talking Heads, Nico e Blondie.
“È stata la mostra più esageratamente folle e di successo che abbiamo mai organizzato”, dice Alanna Heiss, fondatrice e direttrice del PS1, ancora oggi uno dei maggiori spazi per l’arte situato in una ex scuola elementare nel Queens.
“Migliaia di persone s’incamminarono verso Long Island City il giorno dopo san Valentino del 1981. C’erano file e file di gente per entrare nell’edificio vittoriano a quattro piani. S’era sparsa la voce: eccolo lì, il nuovo movimento artistico, la cosa che avrebbe rimpiazzato quel Minimalismo che, come un’invasione di seppellitori di corpi, aveva tormentato SoHo negli ultimi anni riempiendo le gallerie di giochi concettuali in pillole: scatole in serie, tele vuote, forme senza contenuto ma piene di concetto. Le folle fluttuavano nei vari piani del tortuoso palazzo come fosse la mecca del New Wave. Più che l’inaugurazione di una mostra d’arte sembrava un party in un edificio dell’East Village”.27
Un grande bordello dove tra le 1600 opere di 119 artisti fanno la loro comparsa graffitisti come Fab 5 Freddy e Rammellzee, ma anche i più noti Keith Haring e la grande sorpresa di Jean-Michel Basquiat, che “aveva dipinto su quindici pezzi di tela, cianfrusaglie trovate e gommapiuma, in modo grezzo e infantile, macchine, personaggi dei cartoni animati e parole senza senso curiosamente erudite”.28 Non c’è allora migliore testimonianza di quel delirio dei video girati da Paul Tschinkel per la serie ART/New York. Poi viene Rock My Religion di Dan Graham ma il campo si restringe alle registrazioni della scena musicale underground riprese dall’artista tra il 1982 e il 1984. Un film che afferma come “l’arte visiva e soprattutto la pratica critica non possono più trasmettere emozioni trascendenti; solo la musica è in grado di farlo”. Coerente con la sua cultura concettuale.29
La musica, come l’arte, entra nelle gallerie, e artisti oggi affermati come Richard Prince o Robert Longo suonano in alcune band prima di dedicarsi definitivamente all’arte visiva. Basquiat, che non è un musicista, rappa nei club o negli art loft insieme ai suoi amici graffitisti, tra cui Rammellzee.
È la miscela esplosiva da cui nasceranno anche i Sonic Youth, quella che segna per sempre il loro universo creativo di collaborazioni. La parte più evidente è nelle copertine dei loro album, una collezione di nomi come: James Welling, Richard Kern, Dan Graham, Gerhard Richter, Raymon Pettibon, Mike Kelley, Richard Prince, Jeff Wall e molti altri ancora. Ma non è la stessa storia dei Beatles con Richard Hamilton o Peter Blake. È piuttosto una visione del mondo, un modo per continuare a rimbalzare nel rinnovamento.
Sono anche gli anni delle fotografie di Mapplethorpe che nel 1975 ritrae Patti per la copertina del suo primo disco Horses, mentre quasi dieci anni dopo immortalerà la Jones completamente dipinta da Haring. Vera testimonianza che l’aria è veramente cambiata. Appaiono le prime fotografie dei diseredati di Nan Goldin che vanno a braccetto con i pezzi cupi e morbosi di Nick Cave and the Bad Seeds. Wim Wenders nel Il cielo sopra Berlino, in cui Nick Cave appare in una strepitosa performance, sembra sfruttare questa convergenza di anime.
Ma gli anni Ottanta sono un’eccitazione continua, la stessa che si vive nei locali di New York come il Club 57 o la grande discoteca Palladium, dove nel 1985 Keith Haring realizza accanto alla pista da ballo una grande murale permanente con grandi inserti colorati in cui disegna i suoi uomini colorati. Il soffitto invece è opera di Francesco Clemente che, insieme agli altri rappresentanti della Transavanguardia, hanno fatto, non a caso, di questa città la loro base operativa.

Italia, XXXIX Biennale di Venezia, “Aperto ’80”. È qui che i transavanguardisti fanno il loro debutto internazionale. Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann curano nella sede dei Magazzini del Sale una mostra che presenta la nuova generazione artistica portatrice di una rinnovata sensibilità. Trementina e colori a olio sono tornati a saturare l’aria negli studi degli artisti: oltre a Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino anche Julian Schnabel, Michael Buthe, Jonathan Borofsky, Alfred Klinkan. Nella mostra principale, dedicata agli anni Settanta, sono presenti anche Markus Lüpertz, A.R. Penck, Jörg Immendorff, mentre nel padiglione tedesco Georg Baselitz e Anselm Kiefer.
“Se l’arte non ha più il mito di sperimentare nuove tecniche e nuovi materiali, se il suo avanzamento e la sua attualità non dipendono dall’uso di procedimenti legati alla tradizione dell’avanguardia, evidentemente non è più possibile giudicarla in base a tali parametri. Per cui, malgrado esistano alcune tecniche ricorrenti nel lavoro di giovani artisti, in Europa e in America, questo non vuol dire che ci troviamo di fronte a una omologazione. In entrambi i contesti esiste una grande libertà operativa che non vincola alcun artista verso pratiche più o meno necessarie.
Attualità ed inattualità si attraversano incessantemente, senza che esistano codici di comportamento creativo, per quanto riguarda l’opera d’arte. Nello stesso tempo una vena ironica, il senso del gioco, è entrato stabilmente nel campo della produzione artistica e accompagna la condizione dell’artista, che rivendica per sé, uno spazio di piacere e di realizzazione all’interno del sistema dell’arte”.30
L’erotismo torna di scena nell’arte e nella vita per poi scivolare, con il tempo, in quella sensualità glamour e plastificata che inizia con Madonna (forse non sarebbe mai stata così se nel 1979 Maripol non fosse sbarcata a NY con il suo estro francese) e che, successivamente, trova terreno fertile nei videoclip che proprio dalla mezzanotte del 1 agosto 1981 possono contare su una stazione televisiva tutta per loro: MTV. Un altro modo di consumare la musica che condiziona quello più autentico di viverla: i concerti.
È questo supermezzo di comunicazione che sintetizza tutti i media e frulla tutte le esperienze creative del XX secolo che, più dell’arte, dà concretezza alle parole di Szeemann nel testo in catalogo per “Aperto ’80”: “Finiamola anche con giovani italiani, giovani americani, giovani tedeschi, e con tutte quelle sciocchezze olimpiche degli anni Settanta. Noi vogliamo rimescolare tutto: uomo e donna, bambino e adulto, quadro e film, statica e dinamica, durata e consumo”.31 Szeemann, che non è un guru ma un critico accorto che sa leggere il proprio tempo, forse non immagina che con MTV l’arte entri nell’entertainment e definitivamente si smaterializzi.

Metà anni Ottanta, cambio di scena: Parigi. Il Centre Pompidou è una della maggiori attrazioni della città e, come detto, è “fabbrica della cultura” che guarda alle novità della società rileggendola attraverso il lavoro di artisti e filosofi. D’altra parte un museo contemporaneo è molto di più di un luogo dove si consumano oggetti.
Chi ha dominato, nel bene e nel male, la scena del pensiero degli anni Ottanta è stato Jean-François Lyotard, padre del postmoderno e intellettuale poco accademico.
In quello che è già un edificio architettonicamente evanescente per i suoi continui rimandi interno esterno, il filosofo non può non orchestrare una “manifestazione”, recita così il sottotitolo, che vuole contribuire a conferire legittimità alle ricerche artistiche con le nuove tecnologie, in particolare collocando le novità all’interno di un percorso iniziato con le avanguardie storiche. “Les Immateriaux” non è certo la prima mostra in questo senso ma sono l’autorevolezza della sede e del curatore a darle un’aura diversa. Certamente più libero di un critico d’arte, tra le novità linguistiche presenta anche il videoclip, che così per la prima volta fa la sua comparsa in un museo.
Una bizzarra organizzazione interna divide la grande sala all’ultimo piano in una sessantina di ambienti, ognuno dedicato a un tema. In “Le Corps chanté”, uno dei primi siti della mostra, vengono esposti una sessantina di videoclip tra cui quello di Elvis Costello Accidents Will Happen.
“Su tre monitor, in sequenza, si analizzano gli effetti di apparizione, sparizione, inclusione e incatenamento. Recuperati tra una sessantina di video, si distribuiscono in 24 rubriche che sviluppano i temi: corpo ritrattato, decorso e decorazione, messa nel vuoto e svuotamento dell’immagine, movimento, velocità e ritmo”.32 Gli stessi temi toccati dall’arte nel decennio precedente.

Sicuramente ci sono appuntamenti con la storia meno imperdibili di una mostra d’arte, anche se questa sa cogliere con largo anticipo lo spirito del tempo e dei giorni in cui viene inaugurata. È quanto succede a “Les Magiciens de la terre”, che prima del vernissage è totalmente oscurata dalla caduta del muro di Berlino.
Soffia aria di libertà, non ci sono più cortine o muri e infatti, nell’autunno 1989, il simbolo dei simboli della guerra fredda, quello che dal 1963 aveva diviso numerose famiglie oltre che incarnato visioni opposte della vita e della politica, cade. Chi non è a Berlino o nei paesi dell’ex blocco sovietico vive tutto in diretta televisiva. Il contrasto tra i colori dei graffiti della Berlino Ovest e l’intonaco grezzo di quella dell’Est, come ci testimoniano le foto di Thomas Billhardt, è solo un ricordo, ora tutto il mondo diventa a colori. Un mondo che viene ancora identificato come soltanto occidentale. L’ebbrezza di quei giorni sarà sostituita dalla disillusione e dalla nostalgia di quel non roseo futuro che si è diluito nell’oggi.
Il resto del mondo continua a presentarsi con le sue emergenze: la fame in Africa, i diritti civili in Cina, le dittature in America Latina, il fondamentalismo religioso nei paesi arabi, anche se da questo non è immune nemmeno l’Europa: in Irlanda gli attentati dell’IRA continuano a mietere vittime. Gli U2 lo ricordano nelle loro canzoni così come fa Willie Doherty con le sue fotografie.
Quello che resta fuori dalla modernità è ancora interpretato con le categorie del folclore o come esotica meta turistica.
Non è così per Jean-Hubert Martin che, ancora una volta presso il centro parigino, istituisce un percorso espositivo con un centinaio di artisti, una metà già appartenenti al circuito strutturato dell’arte contemporanea tra cui Tony Cragg, Shirazeh Houshiary, Barbara Kruger; l’altra metà proviene da queste terre considerate finora vuote e fuori dal sistema. Con “Les Magiciens de la terre” arriva la prima ondata di artisti africani come Chéri Samba, Frédéric Bruly Bouabré, Kane Kwei, Bodys Isek Kingelez, ma anche cinesi, Huang Yong Ping e Yang Jiechang, e dagli altri continenti come Alfredo Jaar o Cildo Meireles, che finora sono irragionevolmente esclusi dall’appartenere alla corsa del progresso. Ricerca del nuovo a tutti i costi o primo vagito della mondializzazione? Comunque la pensiate, l’orizzonte allargato ha il suo fantasma nel mondo dell’arte. Musica compresa.
All’inizio è Bob Marley la prima stella del terzo mondo nel firmamento dominato per lo più da americani e inglesi, poi arrivano Miriam Makeba e Youssou N’Dour, torna in auge la scena brasiliana con Caetano Veloso e Gilberto Gil con quel fenomeno che fu il tropicalismo. A questo movimento di liberazione parteciparono anche le arti visive con, tra gli altri, Helio Oiticica, negli anni Novanta recuperato dalla nuova generazione di artisti come punto di riferimento per un arte che deve essere più vissuta che contemplata.
È in questo momento che si comincia correttamente a parlare di World Music. Quello che succede prima, si pensi a Ravi Shankar nei dischi del Beatles o nel suo live a Woodstock, affonda ancora le sue radici nell’esotico, un po’ come quando all’inizio del secolo si subiva il fascino della scultura africana.
Quanto fatto da Jean-Hubert Martin nelle arti visive trova la sua corrispondenza in musica con l’antropologia militante di David Byrne, ex Talking Heads, e Peter Gabriel e le loro rispettive imprese discografiche Luaka Bop e Real World Records, ma è anticipato di qualche anno da Paul Simon nella sua celebre tournée di Graceland (1986) che, nel concerto a Harare (Zimbabwe), fa conoscere la scena musicale africana da casa loro.
Oggi gli eventi di arte contemporanea in questi territori, che per secoli l’occidente ha soltanto sfruttato per i suoi giacimenti di materie prime, sono molti: Biennale di Dakar, Biennale di Johannesburg o quella più a conduzione familiare promossa in Kenia dal poeta visivo Sarenco. Comunque la definitiva entrata nel sistema coincide con “Documenta XI” nel 2002, quando commissario è l’africano Okwui Enwezor e non c’è continente che non sia rappresentato.

Mentre il terzo mondo fatica a conquistarsi la scena, i russi sono più veloci anche perché, a soffiare sulle vele del nuovo veliero del cambiamento (una vecchia leggenda ripresa anche dal regime comunista immagina che il radioso e progressivo futuro arrivi dal mare) c’è un uomo che lo vuole ardentemente e ne diventa il simbolo: Gorbaciov con la sua Perestrojka. E almeno per i media è tutto più facile. Quelli che, fino ad allora, erano considerati gli artisti non ufficiali perché si contrapponevano all’arte di propaganda imposta e promossa dal regime, diventano a tutti gli effetti “Artisti russi contemporanei”, titolo anche della mostra presentata nel febbraio del 1990 al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, la prima presentata in un museo occidentale a pochi mesi di distanza da uno dei momenti più cruciali per la storia dell’Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
È l’orso russo che incontra Marilyn, estrema e chiara sintesi proposta da Leonid Sokov in uno dei suoi lavori di quegli anni. La prima ondata, come succede anche anni dopo con l’arte contemporanea cinese, è quella dell’euforico linguaggio del pop riletto in chiave territoriale: la Sov Art. Per prima cosa l’omologazione a una cultura di massa sempre più universale e postmoderna, ma siamo in Russia, un paese che ha da sempre sperimentato tutti gli intrecci possibili con la sua storia e dove la citazione da sempre appartiene alla sua letteratura. Chi cura la mostra a Prato lo sa, per cui nelle sale espone soltanto il meglio di quello che si era sperimentato nelle cantine o lontano dagli occhi del potere: Kabakov, Zvezdochotov, Bulatov, i coniugi Kopystiansky e il gruppo dei Medical Hermeneutics composto da Anufriev, Leiderman, Pepperstein.
Cambia il contesto e cambiano le interpretazioni possibili. Non è soltanto una questione di relativismo ma anche di contesti. The Wall non è più lo stesso quando Roger Waters, ormai consumata la rottura con il resto dei Pink Floyd, lo ripropone a Berlino il 21 luglio di quello stesso anno in Potsdamer Platz davanti a un pubblico entusiasta. Il concerto è di forte impatto scenico, con uno spettacolo pirotecnico all’apertura, il chitarrista che getta oggetti dalla sua stanza nel muro durante One of My Turns. E ancora, i soldati della seconda parte e, ovviamente, il crollo del muro al termine di The Trial. Quello che è stato anche un epico film in cui si mescolano realtà e disegni animati, forse le cose visivamente più belle, ora è un concerto che viene trasmesso in diretta in 52 paesi. La televisione nel 1985 trasmette anche le note di Live Aid, un evento che guarda ancora in maniera pietista all’Africa. Resta questo il concerto più visto al mondo con il suo miliardo e mezzo di telespettatori in oltre cento paesi.
Gli Ottanta più che dell’effimero sono il decennio dell’immateriale.


Anni Novanta

Dai musei scompaiono i cartelli Vietato toccare le opere. È la definitiva fine dell’opera? In un certo senso sì, almeno se vogliamo continuare a proteggerci dietro le sicurezze di quanto è iniziato negli anni Sessanta, consapevoli però che molti di quegli artisti sono dei maestri per chi ora si professa a sua volta innovatore. Quello che fa Rirkrit Tiravanija piuttosto che Felix Gonzalez-Torres, è creare un contesto in cui il visitatore abbia una partecipazione attiva. Tendono fino all’estremo l’elastico di quel concetto che aveva introdotto Duchamp a inizio secolo quando dice che l’opera si fa nella mente delle persone. Il loro lavoro consiste nel montare e attrezzare un palco dove chi arriva è costretto a suonare, anche se non lo sa fare e se non deve intraprendere una carriera nel mondo della musica. Forse, quella che successivamente è stata etichettata come arte relazionale, è la forma che più caratterizza il decennio, mentre le mostre che lo rappresentano arrivano da quelli che sono ancora i regni del rock: Stati Uniti e Inghilterra. Da qui provengono anche il Grunge e il Brit-Pop.
Mentre è facile individuare nei Nirvana la punta di diamante della scena americana, a Londra è lotta tra Blur e Oasis per la conquista della posizione più alta del podio. I primi arrivano da Seattle e già nel nome hanno poco a che fare con l’estetica, questa volta da intendere come cura del corpo, piuttosto con la sperimentazione tipica di un laboratorio genetico, basti pensare a quanti DNA musicali vi sono stati fatti confluire per ricostruire le radici di un suono che ancora ha problemi a essere definito un preciso genere musicale.
Anche di questi temi tratta la mostra “Post Human” (1993), una rassegna che si presenta come una riflessione sul nuovo modello di essere umano che sta sviluppando la nostra società. Attraverso il lavoro degli artisti si raffigurano le diverse variazioni dell’io in un individuo post umano. È il caso di Madonna, finalmente arrivata al successo planetario, le cui identità intercambiabili sono frutto di una commistione tra realtà e fantasia che ne produce una unica che diviene rapidamente reale.
Ma la mostra curata dall’eclettico Jeffrey Deitch vuole portare i nuovi artisti al centro del dibattito filosofico. “Se guardiamo agli ultimi centocinquanta anni di arte, scienza e filosofia, è impressionante vedere l’influenza che l’arte ha dimostrato nel definire il modo di percepire il mondo. La nuova fisica è stata formulata da artisti come Picasso e Kandinsky; la psicologia da artisti come Schiele e Kokoschka. L’esplorazione dell’inconscio è stata indagata dai surrealisti. Si può capire l’Esistenzialismo osservando i lavori realizzati da Giacometti nel dopoguerra. L’arte, più di ogni altra cosa, ci permette di capire il pensiero del Rinascimento. Tra due secoli la gente si rivolgerà ancora all’arte per capire l’ultimo periodo del Novecento”.33
Come dargli torto, tanto più che vi erano presenti artisti come Matthew Barney, Fischli & Weiss, Damien Hirst, Karen Kilimnik, Christian Marclay, Jeff Koons.
Un anno dopo muore Kurt Cobain e si sciolgono i Nirvana, sembra finire ogni provocazione di fronte all’ultimo atto del frontman e a quel suo famoso: “Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. La Biennale di Venezia del centenario curata da Jean Clair appare a prima vista come un ennesimo ritorno all’ordine, oggi una lezione magistrale di storia dell’arte. L’anno successivo la moda entra nei musei, anche quelli apparentemente più intoccabili: Armani agli Uffizi e Valentino ai piedi del David di Michelangelo. A guadagnarci da questa prima Biennale della moda sono soltanto gli stiliti, ma Firenze per qualche mese ricade in quella creatività che Pier Vittorio Tondelli ha descritto in Un weekend postmoderno.
Dove invece si rimane ustionati è nel 1997 a Londra, Royal Academy of Arts, altro tempio dell’arte. L’immagine della mostra è già abbastanza chiara: una lingua che tocca un ferro da stiro. Il titolo ancora di più: “Sensation”. I giovani artisti britannici si ritrovano tutti insieme nelle paludate e storiche stanze che segnano così il loro definitivo trionfo anche se a vincere, in realtà, è Charles Saatchi, il primo a saper declinare le tecnica pubblicitaria all’arte. L’allievo Damien Hirst, presente in mostra anche con dei lavori tra i meno irritanti, anni dopo supera il maestro.
Tra chi ne rimane nauseato e chi la idolatra, l’opinione pubblica e la critica si spaccano nei confronti di una mostra che, a ripensarla oggi, propone bei lavori e un rinnovamento del gusto che oggi si è trasformato in politicamente corretto. Se “Post Human” trova un’anticipazione nella fantascienza di serie B, per altro poi diventata realtà, “Sensation” anticipa i realty show che iniziano di lì a qualche anno a occupare i palinsesti di molte reti.
Ma cosa c’entrano i Blur e gli Oasis? È ancora una volta questione di sistema. Sia nell’arte che nella musica, Londra non può permettersi di restare fuori dal giro. L’industria discografica e delle gallerie presente massicciamente in una delle più vive città del mondo lo richiede. Londra deve restare all’altezza del mito di laboratorio creativo nato a fine anni Cinquanta.
E il video che fine ha fatto? Non soltanto si è trasformato in videoproiezione e occupa molte sale nelle mostre, ma è anche occasione di collaborazioni vere tra musica e arte visiva. È il caso di Aphex Twin e Chris Cunningham con il famoso video Monkey Drummer presentato alla Biennale di Venezia del 1997. Damien Hirst, invece, collabora con i Blur per Country House.
Ma è arrivato il momento anche per chi pratica la musica sul fronte delle arti visive come Carsten Nicolai, musicista elettronico e artista concettuale, Carlos Amorales, dj, produttore e video maker, oltre a Christian Marclay, che espande il suo mixaggio di dischi anche alle copertine, creando visivamente quello che fa come dj con il suono. In questi anni compaiono anche le prime registrazioni e i film animati di Martha Colburn, forse non famosa come gli altri, ma visivamente e musicalmente non da meno dei colleghi.
Nel 1999 esce SYR4: Goodbye 20th Century, una raccolta di interpretazioni da parte dei Sonic Youth di opere di compositori e artisti del gruppo Fluxus, quali John Cage, George Maciunas, Yoko Ono. Oltre ai quattro compenenti del gruppo collaborano al doppio album un artista come Christian Marclay e alcuni musicisti d’avanguardia come William Winant, Wharton Tiers, Takehisa Kosugi.
I paladini della sperimentazione, delle collaborazioni aperte con le arti visive, la letteratura, la moda, guardano indietro?

 

Defrag del contemporaneo

È arrivato anche per noi il momento di fare un’operazione normale per il computer: riorganizzare i frammenti dell’hard disk in cui le informazioni si vanno a memorizzare. Deframmentare non vuol dire ripulire ma ottimizzare al fine di migliorare lo svolgimento delle azioni successive. È una pausa per recuperare energia e cercare di uscire dal caos piuttosto che un reset.
Nella vita reale, in questi anni abbiamo vissuto vari azzeramenti a partire dall’11 Settembre 2001. Dopo Ground Zero la morte ha allungato il suo nero velo sull’Afghanistan, Iran, Madrid, Londra e, oggi, sulla Libia.
Nel 2008 l’economia mondiale non si è del tutto fermata ma non ha nemmeno avuto grande sviluppo. Stessa sorte è toccata alla politica, con i fatti di Genova del 2001, e ancora alla natura. A sentire il poco accademico filosofo francese Paul Virilio, anche la possibilità di vedere il mondo è stata assai ridotta. Siamo dentro una nebulosa che oscilla tra la paura e l’angoscia vissuta nel solo presente. Non è più il futuro a essere l’ignoto.
Nel 2009 si annulla anche il sold out di quello che sarebbe stato sicuramente l’ultimo grande business di questi anni Zero: il ritorno dal vivo di Michael Jackson. Ma non si perde l’occasione e anche l’ascensione coinvolge le masse con il film This Is It. Nel comunicato stampa del film si legge: “Al pubblico sarà dato un accesso privato e privilegiato al cantante, ballerino, regista, architetto e genio mentre crea e perfeziona il suo spettacolo finale”. Il passaggio a consumatori anche dei “non eventi” è ormai definitivamente avvenuto.
Sono così trascorsi dieci anni da quando i Sonic Youth hanno dato alle stampe quell’antologia dal titolo un po’ nostalgico. Che senso ha un’operazione come quella? Ridurla al solo omaggio non gioca alla reputazione del gruppo allo stesso modo che inquadrarla nella logica della cover, anche se in questi nostri ultimi anni reinterpretare quanto già stato fatto è un processo piuttosto battuto da musicisti e artisti. Non si tratta di un archivio recuperato dal passato e nemmeno di una ricognizione poetica, piuttosto di poetica. Non è certo il migliore disco del gruppo, ma se guardo nuovamente quell’immagine a spirale e la scritta musical perspective stampate in bianco sul fondo viola, prima di riascoltarlo forse qualcosa…
Da sempre i Sonic Youth rimescolano nel loro mondo, stanno dentro una loro cornice e precisi confini. Sono dentro le loro ossessioni e lavorano per se stessi. Scendono nella profondità delle loro memorie centrali, lo stesso che credo faccia Matthew Barney con i suoi riferimenti esoterici o visivi: non ci sono aggettivi per descrivere la sua recente personale allo Schaulager di Basilea dove, anche grazie al gran lavoro dei curatori, tutto questo era molto evidente. E scusate, sarà campanilismo ma è quello che fa anche il nostro Nico Vascellari. E anche i Radiohead, forse l’ultima vera rock band.
Se il mio defrag è riuscito per le storie che ho raccontato, e non sono le sole che avrei voluto ricostruire perché ce ne sarebbero ancora molte altre da descrivere, questo mio lavoro non appare come una mera archiviazione di informazioni. Quello che voglio dire è che, siano sciamani o showman, gli artisti mi permettono sempre di pormi il problema dell’arte e del mondo, e sarebbe bello costringessero anche voi a farlo. Siamo tutti contemporanei.

 


 
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