STORIE di QUADRI e di FIGURE
La pittura, più di ogni altro medium artistico, appare carica di attese riguardo alla sua evoluzione nella storia e alle ampie riflessioni intorno alla figurazione che nel tempo si sono succedute. Un processo di crescita darwiniano che, nel quadro vincolato alle due dimensioni, ha sempre puntato al miglioramento della risposta da dare, ovvero trasferire un’immagine in un’altra più significativa, a quel rapporto con il vedere che trova il suo vertice in quella coppia da sempre precaria in qualunque sintesi figurativa: arte e realtà.
Un orizzonte, apparentemente immobile nelle sue questioni di partenza: imitazione del mondo visibile o piuttosto apertura all’invisibile? Strategie di rappresentazione o espressioni di sentimento? Duplicazione della realtà o sua costruzione?
Un ventaglio di problemi che si è dischiuso a partire dall’antica Grecia e che ancora ci interroga con la stessa urgenza proprio perché ormai da molti decenni siamo quotidianamente e continuamente approvvigionati di immagini che, per dirla con Paul Valery, sono “come l’acqua, il gas, o la corrente elettrica, [che] entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni”. E proprio come queste hanno un carattere immateriale, evanescente, liquido e comunque non tangibile; scorrono attraverso un cavo o sono disseminate nell’etere per apparire su degli schermi. Mentre la pittura continua ad avere quella stessa corporeità ed evidenza di realtà materiale originaria nei suoi primari supporti, proprio come noi, anche se ormai del tutto indifferenti, dobbiamo la nostra pesantezza e il nostro da sempre stare sulla terra alla potente forza di gravità.
Un destino che ha alternato azioni a reazioni, gesti a modelli, artifici a vertigini, ma che da sempre è stato portato avanti con gli stessi strumenti, pennelli, colori, telai e cornici che hanno reso e continuano a rendere possibile quel molto di più che appare nel quadro.
Fantasma che ossessiona sia la pittura più strettamente realista sia quella più metafisica e astratta, non salvando nemmeno nelle sue apparizioni quella minimalista.
“Cosa sarebbe accaduto, d’altra parte, se nessuno fosse riuscito a ottenere più di colui che imitava? […] navigheremo ancora su zattere, non ci sarebbe pittura se non quella che si limita a tracciare i contorni dell’ombra prodotta dai corpi esposti al sole. E se si fa un esame completo, si osserva che nessuna arte è rimasta nello stato in cui era quando fu inventata né si è mantenuta entro i limiti in cui si trovava all’inizio […], ma nulla progredisce grazie alla sola imitazione”. Un brano tratto dall’Istitutio oratoria di Quintiliano ancora sorprendente per la sua straordinaria attualità nell’invitare a percorrere cammini nell’originalità; un testo scritto intorno al 90 d.C. con un forte carattere pedagogico al fine di far apprendere ai giovani quell’inventiva che deve nascere in prima persona e che è necessaria anche per l’arte dello scrivere e del parlare. Una fonte classica che non soltanto oggi continua a essere illuminante in un contesto troppo spesso dominato da una sbornia e deriva accademica, ma che seppe parlare anche a Leon Battista Alberti nella stesura del suo celebre De pictura (1435), la prima specifica trattazione moderna sul genere.
Un testo certamente all’origine della nostra storia della pittura, che come dice lo stesso autore può progredire soltanto grazie all’esercizio e alla perseveranza: “Il perficere l’arte si troverà con diligenza, assiduitate e studio. Voglio che i giovani, quali ora nuovi si danno a dipignere, così facciano quanto veggo di chi impara a scrivere” (De pictura, libro III, 55).
Uno dei limiti di interpretazione di questo fondamentale testo è stato quello di leggerlo come un corpus normativo di regole di apprendimento, qualcosa di paragonabile agli odierni manuali di scrittura creativa, dimenticando che per la prima volta Alberti riconosce una dignità intellettuale al pittore, segnando così un’importante svolta rispetto al Medioevo e trascurando quello che è invece il suo scopo più profondo, ovvero lo sviluppo della capacità inventiva e dell’originalità nonché il progresso della pittura verso l’eccellenza.
La pittura poteva proseguire e raggiungere nuovi risultati attraverso lo studio e l’imitazione
delle forme e dei fenomeni naturali e non per clonazione di stili già esistenti: “In questa composizione di superficie molto si cerca la grazia e bellezza delle cose quale, a chi voglia seguirla, pare a me niuna più atta e più certa via che di torla dalla natura, ponendo mente in che modo la natura, maravigliosa artefice delle cose, bene abbia in be’ corpi composte le superficie” (De pictura, libro II, 35).
“L’arte imita la natura” e per fare questo deve superare sempre se stessa, e cioè quanto fino a quel momento è sembrato nella rappresentazione corrispondente a quelle che Courbet definiva “cose reali ed esistenti”.
Una storia contraddistinta anche dalla sua alternanza di cambi di segno, da positivo a negativo, oltre che nella diversità di approcci caratterizzati dalla transitorietà rispetto al tempo del loro condiviso pronunciamento. L’illusione di realtà ha più volte incontrato giudizi più o meno esacrabili secondo gli appetiti del tempo, la tanto eccellente somiglianza alla natura di Giotto, raccontata anche in una celebre novella da Boccaccio, non corrisponde all’inganno dell’ancor più celebre mosca vasariana che ingannò Cimabue, tanto meno a quella di Emile Zola per Monet, una “finestra spalancata direttamente sulla natura”. E questa certamente non più a quella poetica fotografica che ha il suo vertice in Gerhard Richter e che ha dominato buona parte degli ultimi anni novanta del secolo. La pittura in fin dei conti si produce nel nostro cervello e le pareti soltanto la ospitano nella sua semplice materialità. L’occhio, sia del pittore sia dell’osservatore, non è affatto innocente, in noi e nel quadro, come è stato detto, permangono tutte le suggestioni del passato strettamente legate a quelle nuove del nostro tempo, ogni forma di figurazione dialoga con queste risorse, e questo detto senza scivolare in teorie percettive o neuroestetiche. Non perché non siano importati e non abbiamo molto da dire a proposito, ma perché in questa occasione è forse più importante porre più l’accento sul “come” che non sul “cosa” venga rappresentato sui quadri dei pittori che sono stati selezionati per La figurazione inevitabile.
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René Magritte Le sommet du regard, 1926 Olio su tela / Oil on canvas cm 74,5x64,5 Collezione Gori
Il discorso fino a questo punto si è sviluppato nella storia per larghe maglie e generici intenti, forse una verifica a partire da alcuni confini, per quanto anch’essi del tutto assunti arbitrariamente e nella consapevolezza di una loro possibile apertura a quanto successo prima e dopo di loro, puntualizza meglio quello finora detto e una plausibile conclusione di queste note che rimane pur sempre provvisoria almeno di fronte a quella possibilità di far pittura oggi che questa occasione pratese vuole testimoniare. I margini assunti come estremi per questa verifica sono stati individuati in René Magritte e Giulio Paolini e in due loro rispettive opere: Le sommet du regard (1926) ed Eclisse (II) (1976).
Un tempo breve rispetto a una storia secolare come quella della pittura, solo cinquant’anni, e apparentemente una coppia che sembra stare su posizioni molto diverse, che però a noi serve per poter prendere una misura rispetto al rapporto avuto con la figurazione e quindi creare un contesto atemporale in cui chiarire il fare pittura degli artisti selezionati.
I campioni, se così li possiamo chiamare, potevano essere molti, ma in questa scelta si è confortati anche da una loro comune e precedente presentazione in occasione della XXXVIII Biennale di Venezia del 1978, quando parteciparono alla IV stazione dal titolo La convenzione della visione. I curatori erano Jean Christophe Ammann, Achille Bonito Oliva, Antonio Del Guercio, Filiberto Menna e gli artisti, oltre ai nostri: Balla, Giacometti, Dibbets, Nauman, Isgrò, Penone, Broodthaers. Una sezione che all’interno del tema programmatico della rassegna veneziana Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura manifestava più di altre, in un rinnovato principio di somiglianza rispetto a quello consolidato dalla tradizione, come la relazione tra soggetto e oggetto, tra artista e mondo sia di ordine specificatamente linguistico e quindi portatrice di proprie convenzioni.
Ai nostri due, infatti, non interessa tanto ciò che c’è da vedere, quanto piuttosto la maniera di vedere. Magritte lo raggiunge con un accrescimento del visibile, mentre Giulio Paolini attraverso un processo per sottrazione. A Magritte non interessa il realismo delle figure sulla tela, ma piuttosto come queste figure appaiono. Paolini sospende il quadro dalla sua funzione di veicolare immagini e lo rappresenta solo attraverso la realtà dei vari elementi con cui si costituisce: tele, telai, linee, cornice, diritto e rovescio.
Il problema di Magritte è il rapporto tra immagine e realtà, l’apparire della cosa e la possibilità della sua raffigurazione, il capire la relazione che s’instaura con il mondo esterno. Il cuore delle sue questioni affrontate dal 1926, un anno dopo aver aderito al Surrealismo con forte senso critico, in piena indipendenza e con non pochi contrasti, è riassumibile nella nostra abitudine di “non vedere ciò che si guarda”. Un problema che assorbe anche Paolini a partire dai primi anni sessanta, nei termini in cui la realtà, il vero di per sé inafferrabile, può farsi immagine solo in “quell’atto del vedere che altro non rivela se non i propri percorsi”.
Nei quadri di Magritte dobbiamo assumere un’ambiguità visiva anziché spiegarla, mentre nelle opere di Paolini dobbiamo accettare una dichiarazione di oggettività anziché respingerla. Per ambedue, comunque, l’opera si manifesta a, sia l’autore sia l’osservatore, e non in. Magritte voleva impedire che chiunque osservasse la sua opera si indentificasse con l’artista, al medesimo modo in cui impediva a se stesso, come artista, di identificarsi con sentimenti, sensazioni e idee. Anche per Paolini opera e artista sono complementari e non consequenziali, “sono le opere – dice l’artista – ad avermi pensato e non viceversa”.
Le sommet du regard (1926) di René Magritte è un quadro nel quadro che si presenta nella più tradizionale inquadratura della natura morta. Sulla tela è presente in primo piano una seconda come oggetto e su questa una serie di cose, sullo sfondo di un probabile paesaggio, tra cui un telaio e uno dei suoi celebri bilboquet, un gioco simile a una zampa di un tavolino rovesciato, al cui vertice compare un occhio. Anch’essi appoggiano su un piano, ma girato di 180 gradi rispetto alla prima tela.
musica.
Magritte nelle sue opere usa un meccanismo di montaggio e attraverso una giustapposizione di elementi diversi cerca il loro isolamento. Il fine è quello di creare uno spaesamento attraverso il quale sospendere il significato delle cose per farcele apparire come sono in verità. “In considerazione della mia volontà di far urlare il più possibile gli oggetti più familiari, l’ordine nel quale gli oggetti si collocano di solito doveva essere evidentemente sconvolto” (Scritti, p. 111). Magritte forniva agli spettatori uno strumento che serviva a spingerli avanti, verso un nuovo modo di guardare il mondo.
L’arte di Magritte scuote dalle radici l’autosicurezza della ragione e l’identificazione dell’immagine con il suo contenuto, rendendo al tempo stesso instabile la rappresentazione dello spazio, introducendo nell’aspetto visivo del dipingere il fermento vitale del dubbio. Magritte, come è noto, attribuisce ai titoli un senso poetico e Le sommet du regard non può che assumere un senso programmatico proprio per quello spingere oltre ogni possibilità reale la potenza dell’occhio.
In Eclisse (II) (1976) Giulio Paolini ha disegnato sulla tela rovesciata, posta al centro di un’ulteriore tela preparata e di maggior formato, il profilo dell’ipotetico quadro “oscurato”, inscritto in una probabile costruzione prospettica. Come in un’eclisse, in cui un astro risulta oscurato in seguito all’interposizione di un corpo celeste, la tela rovesciata sottrae allo sguardo il quadro ipoteticamente collocato su un’immaginaria stanza disegnata. Paolini non crea immagini nel modo tradizionale, le sue opere diventano immagini per montaggio di più supporti materiali della pittura, strumenti come unica possibilità per raggiungere una possibile verità in mano al pittore. Per Paolini l’immagine è “impronunciabile”, non può che dirsi il frutto degli elementi che la costituiscono perché il quadro porta solo se stesso. Il suo girovagare attorno a una possibile immagine è limitato all’uso dei materiali tradizionali, un procedere che ricade inevitabilmente sul pittore che sta cercando quale immagine offrire. Non appare più differenza tra il recto e il verso di una stessa visione, perché quel che si rappresenta nell’opera di Paolini è la visione dell’opera stessa. D’altra parte la superficie di una tela è un luogo attraversato, nell’esperienza del passato e nella prospettiva del futuro, da proiezioni e sperimentazioni innumerevoli. L’opera nel suo titolo fa riferimento al mondo dell’astronomia per quella sottrazione momentanea alla visione di un astro, una similitudine che più in generale l’artista spiega come quando l’astronomo guarda verso l’infinito della volta celeste con il telescopio: “Di vero – scrive Paolini in Lezioni di pittura – non resta all’astronomo che il suo solo strumento, proprio lo strumento che gli consente l’osservazione del vero”.
Tra la potenza e l’impotenza del vedere, alle cui due estremità stanno i due nostri campioni, come possibilità di arrivare alla figurazione si pongono gli artisti di questa mostra. Il loro non è un voler stare nell’ambiguità di una possibile figura rimanendo sul crinale tra astrazione e rappresentazione, quanto piuttosto nuovamente affacciarsi sul vuoto, la loro partenza è una tela bianca, consapevoli che questa può nuovamente continuare a riempirsi nella potenzialità insita della pittura che guarda contemporaneamente al mondo e a se stessa.
La figurazione inevitabile è quella figurazione che si maschera sotto la preoccupazione di non apparire tale perché conosce quello che nella storia è passato sulla superficie dei quadri, e ci si confronta senza voler incontrare l’attuale statuto immateriale dell’immagine.
Anche se esiste in loro una vertigine e una virtualità che però è espressa nel meccanismo materiale di un occhio che guida una mano dotata di strumenti, irrinunciabili.
Una condizione di partenza condivisa con persistenza, disciplina e rispetto, le stesse caratteristiche
di cui scriveva Alberti per portare a nuova “luce” la pittura.
Un profondo mistero in cui le rappresentazioni pittoriche non sembrano sempre corrispondere alle gabbie concettuali che inventiamo. Continuare a confrontarsi con queste attraverso la realizzazione di un quadro vuol dire continuare a produrre un pensiero che assomiglia e, allo stesso tempo, si diversifica dal mondo.
Forse i nostri non fanno “immagini” quanto piuttosto “immaginare”, sia loro sia gli altri che si pongono davanti alle loro opere. Queste tentano di avere il rispetto per essere originali, pur sapendo di non poterlo essere in assoluto, perché è “inevitabile” ricercare una figurazione che passi attraverso una ricerca sul come dire e non solo sul cosa.
Riferimenti bibliografici
D.R. Edward Wright, Il De pictura di Leon Battista Alberti e i suoi lettori, Firenze, Leo S. Olschki, 2010; A.M. Hammacher, Magritte, Milano, Garzanti, 1981; Mirella Bandini, Bruno Corà, Saverio Vertone, Paolini, Ravenna, Essegi, 1985; le citazioni di Magritte sono tratte da René Magritte, Scritti, Milano, Abscondita, 2005; quelle di Paolini da Giulio Paolini, Lezione di Pittura, Lugo (Ravenna), Exit Edizioni, 1995; la citazione di Paul Valery da Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000; quella di Emile Zola da Monet, Mon historie. Pensieri e testimonianze, Milano, Abscondita, 2009.
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