woodman    
  Francesca Woodman  
Marco Pierini  
Francesca Woodman  
 
   


Dialogo ad una voce.

 

 L’intera vicenda artistica di Francesca Woodman può essenzialmente circoscriversi all’interno della categoria dell’autoritratto. (1) A tale assunto, apparentemente inequivocabile sebbene formulato con consapevole approssimazione, cercheremo di ancorare queste brevi note intorno alla poetica dell’artista. Fin dagli esordi Francesca Woodman ha eletto sé stessa a soggetto quasi esclusivo delle proprie opere. Self-portrait at thirteen, (2) prima fotografia pervenutaci, appare oggi quasi come un’affermazione di intenti, ancora in nuce forse, ma già delineati nella loro fisionomia.
Il volto, come accadrà assai spesso in seguito, è celato alla vista: qui è la massa di capelli a nasconderlo, più tardi saranno di volta in volta il taglio dell’inquadratura, la posa, un’opportuna sfocatura, una maschera, le mani giunte con le palme poggiate sul viso, di nuovo i capelli. La luce, sapientemente studiata, conferisce alla figura quel particolare senso di apparizione che ricorrerà in molti altri scatti successivi, e investe gli ambienti e gli oggetti riscattandoli dalla loro ordinarietà.
Il rapporto intimo e complice con gli interni domestici è già instaurato e diverrà una delle cifre più caratteristiche della poetica di Francesca. Nessuna intenzione, infine, di nascondere il procedimento attraverso il quale l’immagine prende vita: il cavo che consente l’autoscatto è qui addirittura in primo piano, sebbene trasfigurato per il fatto di esser stato colto in movimento.

Fin da subito, quindi, Francesca Woodman dichiara nelle sue fotografie, e mai cesserà di ribadirlo, che a fondamento di ogni azione, di ogni immagine prodotta, di ogni pensiero attraverso le immagini espresso, non c’è niente altro che sé stessa.
«In Francesca Woodman’s work – scrive a questo proposito David Levi Strauss – we see a young woman making it up (photography) from the beginning, recognizing no authority outside of her intimate relationship to the camera, and claiming no authority outside the frame of her photographs (...). Whereas photographs most often trace the relation between the one photographing and the one photographed, in Woodman’s images that relation is collapsed». (3)
Proviamo, con la dovuta cautela, a fare un passo avanti su questa strada. Per prima cosa si dovrà rimuovere fin da subito il sospetto che l’autoreferenzialità implichi un atteggiamento narcisista (4) e sterile.
L’autoritratto, e in questo Francesca si pone naturalmente nel solco della tradizione artistica occidentale, è indagine su di sé, approssimazione alla conoscenza del proprio io destinata a non trovare risposte ultime. Quando l’amica Sloan Rankin le chiese perché fotografasse sé stessa così ripetutamente, Francesca Woodman rispose: «It’s a matter of convenience, I’m always available». (5) La leggerezza ironica della risposta sembra celare, in realtà, una verità profonda e forse, a parole, inconfessabile, sebbene praticata quotidianamente attraverso il fare artistico.
La continua disponibilità di sé stessa come soggetto altro non significa, infatti, che un’inesauribile capacità di trarre da sé – e solo da sé – ogni ragione, ogni necessità, ogni pretesto che presuppone, informa e definisce il proprio operare. La comunione del corpo di Francesca con gli oggetti, gli abiti, gli intonaci delle pareti, le porte e le finestre delle case è corollario che inevitabilmente deriva dall’assioma precedente.
Nulla potrebbe chiarirlo meglio di questo passo cavato da L’Œil et l’Esprit di Maurice Merleau-Ponty: «Visibile e mobile il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo». (6) Alla luce di questa chiave interpretativa si leggono con maggiore chiarezza anche le fotografie ambientate in mezzo alla natura come quelle del primo periodo scattate ad Andover e, successivamente, a Boulder, le immagini che hanno avuto per fondale la campagna fiorentina e, soprattutto, quelle più tarde realizzate alla MacDowell Colony, nel New Hampshire. Ma se il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo, quest’ultimo può allora bastare a sé stesso.
La materia prima del fare artistico, l’ispirazione, l’autenticità, come accade ai poeti lirici, non si trovano dunque al di fuori di chi crea ma scaturiscono dall’interno. Hegel definisce il poeta lirico come colui che «non ha bisogno di partire da avvenimenti esterni che racconta con molto sentimento oppure da altre circostanze e occasioni reali che divengono motivo della sua effusione, ma al contrario egli è per sé un mondo oggettivamente conchiuso, cosicché può ricercare in sé stesso sia lo stimolo che il contenuto e accontentarsi delle interne situazioni, condizioni, avvenimenti, passioni del suo cuore e del suo spirito. In tal caso l’uomo nella sua interiorità soggettiva diviene a sé stesso opera d’arte». (7) Francesca suggerisce in più di un’occasione, talvolta con ironia, il farsi opera del proprio corpo, il suo prender possesso dello spazio come fosse una scultura.
In alcuni fotogrammi di un video girato durante gli studi a Providence l’immagine del corpo nudo ed eretto è accostata a tavole che riproducono celebri statue classiche tratte da un volume sull’arte greca. (8) Ma il corpo dell’artista sa addirittura farsi oggetto da esporre in vetrina, oppure forma plastica abbandonata a terra nei pressi di una base che – in tutta evidenza – era destinata in origine a sostenerla.

Attribuire alla poetica di Francesca Woodman tale autonomia, individuarne come fondamento la soggettività lirica, riconoscere con pienezza non soltanto che l’opera proceda esclusivamente dall’interno ma che l’artista medesimo divenga a sé stesso opera d’arte, ridimensiona di conseguenza la portata dei condizionamenti culturali, storico artistici, sociali, politici e persino meramente biografici sul suo lavoro. Non che essi siano privi d’importanza o rimangano silenti in sottofondo, anzi talvolta si manifestano addirittura con conclamata evidenza, ma assumono tuttavia un carattere di non necessità proprio in quanto esterni, assimilati da fuori e non generati nella (e dalla) interiorità.
Prevalentemente formali, allora, dovranno considerarsi le pur indubbie influenze surrealiste nella fotografia di Francesca Woodman, soltanto come debole riflesso andranno percepite le istanze femministe su cui la critica spesso si è soffermata, non più che naturali confronti, interazioni e sintonie le tangenze con esperienze artistiche pressoché coeve o di poco precedenti incentrate sulle poetiche del corpo.


  

   Self Deceit #1, Roma, 1978


Ma cosa restituisce, di sé, Francesca Woodman nelle immagini fotografiche?
Come si presenta nei suoi autoritratti? (9) La dimensione lirica del proprio lavoro non deve far pensare che vi alberghino residui ingenuamente romantici o addirittura spiritualistici. L’artista non offre di sé alcuna visione idealizzata, eroica, caricata di particolari significati. Al contrario, proprio la consapevolezza che il corpo è fatto della stessa stoffa del mondo suggerisce un’immersione della propria immagine nell’universo delle cose.
Ecco allora che il corpo di Francesca quasi si assimila all’intonaco dei muri, gioca con la propria ombra, compare da porte e finestre, si nasconde tra i mobili e gli oggetti; la luce ne sfalda la consistenza piuttosto che esaltarla, oppure ne tornisce le forme purché siano sempre colte come frammenti, come particolari. Comunione con le cose vuol dire anche farsi carico con profonda empatia del loro deterioramento, della consunzione, della perdita di funzionalità, delle trasformazioni organiche che la materia subisce. Ne deriva un’inclinazione dell’artista per le ambientazioni in interni diruti, abbandonati, ricchi di memoria e di segni che rimandino a un altrui vissuto trascorso e compiuto, tuttavia ancora in grado di farsi presenza vitale, se catturato e assorbito dallo sguardo di Francesca. Lo studio – che sia davvero tale o sia un’occasionale e temporaneo spazio individuato per un’unica serie di fotografie – è dapprima scelto e poi abitato in modo da farne il teatro nel quale la congiunzione di sé con le cose del mondo possa aver luogo col massimo della naturalezza. «Termine medio, che si frappone fra l’io e il mondo», lo studio, lo spazio nel quale l’opera scaturisce, è «un’estensione corporea, un collettore di percezioni, una cornice che funziona da cerniera, aperta all’interno e all’esterno». (10)
Un’analoga volontà di riconoscersi una delle cose del mondo o, per meglio dire, parte delle cose del mondo, si avverte con altrettanta chiarezza in tutte le serie ambientate dall’artista in un contesto naturale, sia in quelle della primissima giovinezza che nelle ultime realizzate alla MacDowell Colony. Il corpo di Francesca si illude di trovar posto nel cavo di un albero o di farsi un tentacolo delle sue radici, si distende nel desiderio di amalgamarsi alla terra, consente che le braccia vengano rivestite di corteccia e si protendano verso l’alto a suggerire addirittura una vera e propria metamorfosi in corso, una riedizione panica – e tutt’altro che drammatica – del mito di Dafne.
La ricorrente assenza del volto, tagliato via dall’inquadratura o, come si è detto, in vari modi celato, la dimensione performativa così frequente, il rapporto con lo spazio e con le cose hanno talvolta suggerito un’interpretazione dell’opera della Woodman fondata non sull’autoritratto ma sulla messa in scena di un personaggio, un carattere di nome Francesca che non coincide con l’artista, bensì le si offre come modella. Secondo Arthur Danto, proprio come Cindy Sherman, la Woodman «never shows herself as herself. The difference is that she always shows herself as the same character – the character of a young woman in various mise-en-scènes». (11)
Modella e artista appaiono però assolutamente inscindibili, non si avverte mai il necessario distacco fra le due Francesca che permetterebbe a quella che compare nelle fotografie di risultare un personaggio davvero credibile. Né può contribuire a infonderle vita propria la scarsa propensione per il racconto da parte dell’artista, che anzi risolve pienamente il rapporto della figura con l’ambiente e con gli oggetti senza alcun bisogno di introdurre elementi narrativi o aneddotici. La loro assenza, peraltro, non rende meno solida l’identificazione della figura riprodotta con Francesca Woodman, non nega la pertinenza di gran parte del corpus delle opere alla categoria dell’autoritratto (o, quanto meno, anche alla categoria dell’autoritratto). Privo di ogni intento celebrativo, svincolato da ogni riferimento alla contingenza della vita quotidiana e dei suoi accadimenti, incurante della possibilità di essere frainteso o non riconosciuto come tale, l’autoritratto di Francesca Woodman non si cura che marginalmente del dato autobiografico (12) ma trova la sua verità proprio in quella soggettiva interiorità dell’artista dalla quale scaturisce la necessità dell’opera. (13)
Confondersi con le cose non equivale a nascondersi ma a rivelarsi appieno, dissolversi nella luce a ribadire un senso di intima unione col mondo, mostrarsi attraverso il riflesso dello specchio a perfezionare la percezione di sé (non necessariamente semplificandola, però, come suggerisce il titolo Self-deceit attribuito a una celebre serie romana dove Francesca interagisce con lo specchio). Conforme alla tradizione dell’autoritratto definitasi a partire del Rinascimento e successivamente perpetuatasi nel corso dei secoli, anche Francesca Woodman ha cercato di parlare di sé attraverso la restituzione del proprio corpo in forma di immagine, di suggerire dunque l’invisibile mediante il visibile.
Ma, in quanto artista pienamente e consapevolmente contemporanea, sapeva bene che ciò le sarebbe stato concesso solo a patto di rinunciare fin da subito a ogni parola che potesse suonare come definitiva, alla vana presunzione di rendere tangibile e addirittura fissare una volta per tutte la conoscenza di sé esperendola attraverso la pratica artistica. «Basta un nulla», però, «perché in un attimo rivelatore si abbia l’epifania di un impossibile equilibrio, l’intuizione di qualcosa che si arresta nel flusso continuo del mondo». (14) Quel tanto che di sé e del mondo è dato conoscere all’artista prende dunque forma in una dimensione quasi di sospensione temporale, nell’attimo in cui l’opera si compie e, come accade nelle fotografie di Francesca Woodman, invisibile e visibile, per un istante, si rivelano l’uno nell’altro.


 

Note

1 -Una prima, più breve, versione di questo scritto è stata pubblicata in spagnolo e in inglese (con il titolo Desde dentro. Notas sobre la trayectoria artística de Francesca Woodman / From the inside. Notes on Francesca Woodman’s artistic route) in Francesca Woodman, catalogo della mostra, a cura di Isabel Tejeda, Espacio AV, Murcia 2009, pp. 17-22. Il titolo attuale è tratto dal celeberrimo terzultimo verso di The Extasie di John Donne: «... this dialogue of one».
Nuovi spunti e approfondimenti sull’opera di Francesca Woodman confluiti in questa seconda redazione del testo hanno avuto origine dalla rilettura del prezioso volumetto di Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci 1997.
2 -L’annotazione Self-portrait at thirteen (poi assurta alla dignità di titolo) fu apposta in seguito dalla stessa artista che la vergò in corsivo sul margine inferiore di una stampa.
3 -David Levi Strauss, After You, Dearest Photography: Reflections on the Work of Francesca Woodman, in Francesca Woodman, catalogo della mostra, testi di Elizabeth Janus, David Levi Strauss, Sloan Rankin, Philippe Sollers, Fondation Cartier pour l’art contemporain-Scalo, Paris-Zürich-Berlin-New York 1998, pp. 15-21, p. 19.
4 -Una minima componente narcisistica, con troppa enfasi spesso segnalata e rimarcata alla critica, è ovviamente presente nel lavoro di Francesca Woodman, ma il suo ruolo è assolutamente marginale e mai decisivo.
5 -Sloan Rankin, Peach Mumble – Ideas Cooking, in Francesca Woodman, catalogo della mostra, testi di Elizabeth Janus, David Levi Strauss, Sloan Rankin, Philippe Sollers, Fondation Cartier pour l’art contemporain-Scalo, Paris-Zürich-Berlin-New York 1998, pp. 33-37, p. 35.
6 -Maurice Merleau-Ponty, L’Œil et l’Esprit, ed. it. L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 19.
7 -Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Ästhetik, ed. it. Estetica, a cura di Nicolao Merker e Nicola Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 1253. Sul questo passo di Hegel e su altri del medesimo argomento si veda Alberto Olivetti, Fare arte, corpo, trasformazione, in Id, L’appropriazione sensibile, Cadmo, Fiesole 1990, pp. 123-161.
8 -Francesca alterna le tavole del volume alla riproduzione del proprio corpo in scala 1:1, acefalo, nudo ed eretto. La grande stampa è sorretta e offerta all’occhio della cinepresa dalle mani dall’artista che – a sua volta nuda – vi si nasconde dietro.
9 -Come premesso, l’assunto da cui partono le considerazioni espresse in questo scritto è che l’intera opera di Francesca Woodman debba inscriversi all’interno della categoria dell’autoritratto; tuttavia merita di segnalare almeno le principali fotografie che – oltre a Self-portrait at thirteen – più dichiaratamente si presentano come tali: Self-portrait talking to Vince (Providence), la foto senza titolo scattata a New York tra 1979 e 1980 dove Francesca si ritrae, vestita di nero, seduta su una sedia con le mani poggiate sulle gambe e l’altra, forse già pienamente del 1980, nella quale appare in primo piano davanti a uno specchio con aria assai sicura di sé e un’implicita ‘didascalia’ alle sue spalle, il proprio certificato di nascita affisso alla parete.
10 -E. Krumm, Lirica moderna..., cit., p. 105. Abbiamo preso a prestito le parole con le quali Krumm introduce la stanza del poeta nella poesia di Pessoa.
11 -Arthur C. Danto, Darkness Visible, in «The Nation», 15 novembre 2004, pp. 36-40, p. 38. La tesi di Danto è stata prevalentemente accolta con favore, si veda ad esempio Rossella Caruso, Riflessioni nell’ombra. Ritratti e camouflage nell’opera fotografica di Francesca Woodman, in Autobiografia/Autoritratto, catalogo della mostra, a cura di Laura Iamurri, Palombi, Roma 2007, pp. 70-78.
12 -Assolutamente autobiografiche, invece, sono le osservazioni, le note, i pensieri, i titoli scritti dall’artista sullo spazio bianco di numerose stampe, parole che appaiono non di rado prive di un rapporto diretto e consequenziale con le immagini.
13 -Ci sembra utile ricordare le non poche opere nelle quali sono alcune amiche di Francesca a fungere da modelle. Il fatto stesso che in molti casi solo un occhio ‘allenato’ sia in grado di distinguere Francesca dalle altre giovani donne che compaiono all’interno del suo lavoro sembra ribadire, piuttosto che mettere in dubbio, la matrice – e soprattutto – la forza lirica della sua poetica. Non è attraverso il proprio corpo che Francesca parla di sé, ma attraverso le immagini che crea, per la cui realizzazione tutto ciò che finisce nel campo visivo dell’obbiettivo fotografico va inteso come oggetto e come strumento, piuttosto che come soggetto.
14 -E. Krumm, Lirica moderna..., cit., p. 134. La frase di Krumm si riferisce ad alcuni versi de Il pianto della scavatrice di Pier Paolo Pasolini.

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