Artext
Una conversazione con Massimo Barzagli
Loft nelle vicinanze del Museo Pecci
Artext - Da dove prende inizio il processo di costruzione figurativa nei tuoi lavori,
dell'oggetto sensibile, della sua forma, da una storia dell'arte?
Massimo Barzagli - Il rapporto con la storia, quella dell'arte è centrale in tutto il mio lavoro quanto la relazione con l'oggetto preso in esame che poi scatenerà la visione.
L'inizio di tutto è legato all'impronta, che fin dall'inizio è diventata "il modo" e che per quel che riguarda la sua ossatura quasi sempre ha un impianto pittorico.
Non dipingo il supporto, la tela, ma dipingo il soggetto.
Impronto sulla tela, la carta fotografica, su carta o impronto la terra, l'argilla.
Si tratta sempre di impronte non di calchi, non mi interessa la staticità del calco, il suo origliare il soggetto passivo, non per me.
Se poi mi chiedi degli oggetti o i soggetti e le intemperie che dipingo posso solo dirti che sono assimilabili ed assimilati in modo sensoriale sulla base di una seduzione che esercitano.
In parte sì, parlerei di soggetti e penso agli uccelli, al fascino che hanno avuto su di me nell'infanzia curiosa tra la natura, alla scoperta di una anatomia delle cose.
Sono soggetti con cui ho avuto familiarità ed esperienza per trovarne una riduzione pittorica. Negli anni dell'Accademia li ho dipinti in maniera più narrativa e poetica, in seguito quando è iniziato il lavoro, li ho dipinti realmente, ne ho dipinto realmente i corpi.
A. - L' impronta piuttosto che il segno o di-segno - Forse perché gli oggetti e le persone già continuamente inviano nello spazio ad essi circostante le immagini di sé medesimi come per un inguaribile difetto di presenza?
M.B. - L'impronta mi consente di cambiare quotidianamente punto di vista pur continuando a dire della stessa cosa. Dagli esordi con Bird-Watching, ambienti sonori e pareti di stanze rivestite con le impronte di volatili, ad oggi, ho vissuto anni di dedizione all'impronta. Ho continuato a studiarne non solo gli approcci classici, per dire, gli affreschi Pompeiani, le impronte protoegizie e neoclassiche, Canova, ma attraverso una metodologia, le costanti e le differenze nel tempo. E questo mi ha permesso di accedere ad un segno da mutare e da rivoluzionarne i sistemi, interrogando costantemente l'oggetto sui materiali, i supporti, su quali dimensioni nei supporti dell'architettura.
C'è una storia che parla e che raccoglie i dialoghi degli artisti, il loro procedere attraverso tautologie, distanze, approcci al visibile, fino all'estrema chiarezza al riguardo che trovo in tanti lavori di Jasper Johns o di Robert Rauscemberb.
Sempre in relazione all'impronta c'è una filosofia contemporanea a noi che lavora su questi temi. Attualmente sto leggendo, tornando indietro nel tempo i filosofi che ne prendono in considerazione l'aspetto ontologico o strutturalista: Sartre ad esempio, questo per identificare i canali attraverso i quali il tema dell'impronta raggiunge i nostri giorni.
Se mi chiedi del disegno ti rispondo che è una questione aperta. Personalmente ho vissuto le prime esperienze di Process-Painting sul finire degli anni 80, e l'insoddisfazione verso una pittura di cui alcuni di noi si sono sentiti estranei, la pittura di quegli anni oleografica e già di maniera.
Io sono molto più interessato al disegno che è già insito nella pittura, per dire... i disegni neri di Seraut sono lavori oltre il disegno e la stessa pittura.
Qualcosa di analogo lo trovo in Warhol, Lichtestein o Pollock dove c'è un disegno sostanziale all'atto finale, un tutt'uno del corpo del lavoro che per me è interessante. Nell'impronta c'è dentro tutto questo, il disegno, la forma, la struttura pittorica, il movimento, il gesto.. la mia possibilità di entrare dentro e stabilire delle connessioni - se rendere sottile il disegno o accelerare il senso unitario, farne uscire la narrazione, esaltare il dato poetico: tutto questo è l'impronta, la sua possibilità o attitudine nomadica che è così semplice e diretta ma che porta ad un caos di imprevisioni e di totalità che nel mio "modo" tento di addomesticare, per permettermi di vedere dopo, ovviamente, perché prima di fare non conosco che l'oggetto preferito che non è nemmeno il modello, ma l'oggetto ostaggio...
"Benvenuto"2010 liquitex e vernice su lino preparato in nero cm.200x300
A. - Quando stabilisci delle relazioni nella terza dimensione, queste sono come improntate alla caduta, dei corpi, delle idee. Esiste forse una legge - esposta dal negativo, per ricondurre le azioni e le cose al loro e-sistere, o al loro esser state già...
M.B. - Solo dal 1997 con una mostra sull'autoritratto, impronte del mio viso su fondo bianco e testo critico di Alberto Boatto prendo in considerazione la terza dimensione, concettualmente parlando. Gli autoritratti nascevano in stretta relazione al lavoro di Johns, mi riferisco a "skin", ma lo scarto nel mio caso era che con gli autoritratti cercavo di mutare identità, cercavo di forzare lo spostamento delle sembianze evocando a volte mia madre, mio fratello, una donna sconosciuta....
subito dopo realizzo dei quadri "La caduta delle idee" con figure intere, esposte a New York City alla Michelle Rosenfeld Gallery.
Con questo ciclo di lavori a cui accenni in parte viene abbracciata una iconografia pop.
Allora penso che sia ancora possibile parlare di una figura, un modello installativo e prenderlo in considerazione attraverso un suo impianto pittorico tridimensionale - trattando il fondo come un controrilievo quasi che il bianco della tela sia di base per una figura che emerga dai suoi tratti.
In seguito quei quadri diventano abitabili, con dei fondi aerografati di interni di abitazioni, o gli stessi ambienti borghesi vengono filmati e sopra eseguite le coreografie di Luisa Cortesi.
C'è come dici tu una dimensione spirituale che fa si che le cose siano abitabili. Mi viene da pensare ai ritratti del Fayoum per dire del rapporto con il vero ed il visibile, celato, in un modo che poi essendo rivisto, 20 secoli dopo, si crei come una commozione verso quel passaggio di reale.
Mentre si conclude questa esperienza nel 2003 inizio a lavorare sulla carta fotografica colore, negativa. Anche l'approccio a questo lavoro ha origini Pop, e i toni di un dialogo con i lavori a quattro mani di Raushemberg e Simon Weil, la prima moglie.
La differenza con questi lavori è che veniva usata una carta tipografica che si impressionava e sviluppava allo stesso tempo, restituendo solo un tono azzurro.
La difficoltà che si incontra sulla carta fotografica è piuttosto la resa dei toni cromatici. Dopo un anno di prove ho ottenuto le gamme che cercavo, verdi, rossi e gialli saturi – solo allora ho iniziato a lavorare a opere di grandi dimensioni di 2 x 4 metri: interni di abitazioni, accumuli di arredi, quadri, piccole foto attaccate a parete, quasi drammaturgie.
Le ho espostei, a Siena e a Firenze alla galleria Alessandro Bagnai con il titolo: Mai Home. Ne rimane testimone un bellissimo libro curato da Sergio Risaliti.
A New York City immediatamente dopo ho cominciato un lavoro paradossalmente contrario, sempre su carta fotografica ma positiva, la Ciba Crome ormai difficilissima da trovare e quasi impossibile da stampare. Ne ho trovato uno stock nei magazzini B&H sulla 9th Avenue, carta Ilfocrhome e pellicole per banco ottico 20x25.
Su questi supporti ho iniziato a lavorare seguendo come un racconto scritto, percorrendo a piedi Manhattan - dagli ambienti new country dell'upper est side, a quella più mode del lower est side, China Town, Washinton Square, solo visioni, tra le tendine di una town house sulla Lexinton, piuttosto che alle spalle del Doarman, nel building di "Uana mia cara amica".
Queste immagini improntate sulla carta fotografica sono apparse immediatamente spettacolari, ne farò una mostra, un'installazione di circa sessanta opere, non posso dire altro, ne mancano all'appello solo tre, le ha acquistate a New York City Barbara Castelli.
Comunque adesso queste cose le affronto anche sulla loro capacità di essere impresse su una sorta di basso-rilievo scultoreo, mantenendo identica la modalità del procedimento dell'improntare. Non si tratta di calco ribadisco, ma di una impronta che dà la possibilità di entrare in una materia, di muoversi all'interno di questa ed in un altra dimensione, lasciandone la traccia degli spostamenti, dell'azione - impronte doppiate, in retrorilievo, di dita, mano, caviglie, di muscolature costrette alla trasparenza scheletrica.
A. - Quale è la relazione primaria a cui tieni e speri che si instauri attraverso il tuo lavoro?
M.B. - Fin da subito da quando ho iniziato ad occuparmi di arte ho sempre pensato che il fine fosse rendere possibile il visibile.
Determinare una apertura, perseguirla, e finire, portare a termine l'opera, è un tracciato su cui mi muovo sempre nella possibilità di arrivare a vedere - e forse poter credere di aver strappato in quel momento una visione, e resa a me visibile.
Se poi riesco a restituirla....
Personalmente posso parlarti di ciò che riesco a vedere.
Altre volte quando lavoriamo per il teatro e installiamo una rappresentazione visiva, il dato evidente è
l'ambiente, lo spazio. Ma non c'è la tensione a dare una organicità o un coinvolgimento totale dei sensi.
C'è piuttosto la visione, il suono, lo spazio, le luci e una tridimensionalità della seconda dimensione in espansione.
"Buona Visione" notturna 1990 = Altra Didascalia
A. - Come percepisci il fare dell'arte, come flusso di energia primitiva, ancestrale, una modalità
del cangiante delle forme tesa ad assumere la trasparenza?
M.B. - Come primo dato posso parlarti di un attraversamento ancestrale.
Disporsi cioè in maniera referenziale ad un transito.
Credo che si tratti di una qualità, la sperimento fin da ragazzo,
di una condizione dell'esistere: del fare, del dire o contraddire facendo.
in alcuni momenti penso che la causa sia una mancanza, forse perché come ti dicevo ho vissuto
la mia infanzia a Marradi, a contatto con la famiglia Campana, Dino Campana,
e della sua poesia visionaria.
Direi, si! che si tratta di un attraversamento ancestrale, certo poi interviene la disciplina,
le teorie sulla forma, i sistemi, la storia.
E così diventa come un flusso, un attitudine o piuttosto
un rimanere lì, quando il pensiero tende a concentrarsi in un punto
e a focalizzare su una visione, per reperire aperture dello spazio, offrirsi alla
comprensione del visibile attraverso un accadimento...
La conversazione si interrompe
Chiama Giorgio per le terre e per i gessi: l'esecuzione delle nuove sculture in bronzo
La conversazione dopo alcuni minuti riprende.
A. - Si tratta forse di uno stato, una condizione continua di sorpresa ai confini dei territori della mimesi!
M.B. - C'è un' energia vitale nell'impronta che si traduce in sorpresa durante la sua esecuzione, è una modalità dei sensi così da creare un accesso al mondo sulle basi di poterlo osservare.
In tal senso la vitalità è sorpresa. Allora devo accelerare e ridurre nello stesso tempo attraverso una tecnica questo flusso, per staccarlo dal suo essere, ancestrale e ricondurre l'impronta a presenza. Questo è il visibile della presenza, slacciato dalle durate del permanere, nelle cose, nella loro esistenza - è spazio con le qualità della visione.
E' in qualche modo il trucco o se preferisci il miracolo della pittura, l' illusione che ne deriva.
A. - Da una azione performativa essenzialmente tattile, ai lavori con le coreografie di Luisa Cortesi: stare sulla scena del suo accadere.
Di cosa si tratta, come avviene questo incontro tra la frenesia del movimento e la staticità della visione? tra il corpo che si offre alla visione e l'esercizio della destrutturazione della posa!
M.B. - I quadri a cui abbiamo già accennato, dal fondo bianco, "Le cadute delle idee" sono lavori in cui io dipingo insieme ad una danzatrice, Luisa Cortesi, compagna di vita e di lavoro nell'arte.
Saretto Cincinelli sostiene che si tratta di un "lavoro monogamo".
Altre volte i quadri sono abitabili, hanno già una immagine di fondo, dipinta con un aerografo speciale che dipinge con acrilici liquitex. Le immagini di fondo sono quelle di interni di abitazioni borghesi.
Ma prima di intervenirvi con la pittura improntata alla figura di Luisa c'è un lavoro performativo, uno studio coregrafico sull'ambiente, solo allora io lo dipingo o realizzo dei filmati per i lavori nei festival di teatro.
Mentre lavoravo a queste produzioni, mi sembrava di girare un film surrealista, per la perdita di orizzonte come nel cinema di Cocteau, con la macchina di proiezione disposta in alto mentre Luisa danzava al suolo sulla tela! Abbiamo realizzato diversi lavori filmati in questo modo.
Tutto è nato da alcune riprese delle pagine di un libro di case americane mentre mi trovavo al Village a N.Y.C Alla luce della finestra filmavo la pagina, con un leggero vento ed i rumori della città, con il risultato che sembravano riprese realizzate dal vero.
Un procedimento molto semplice! Al ritorno in Italia di queste stanze ne ho parlato con Luisa. E lavorandoci, collaboriamo con apporti specifici delle proprie discipline, e mi piace che ciascuno conservi il proprio dominio - abbiamo prodotto 7 films con questi soggetti.
"La casa assente" Festival Contemporanea Prato 2005 still da video videoproiezione cm.200x250
A. - Quale il compito dell'artista nella costruzione della propria opera? Quale la sua responsabilità nei confronti del linguaggio.
M.B. - Le responsabilità dell’artista appartengono al territorio specifico dell’opera.
E se ha un compito nel linguaggio questo è motivo della forma, che nel compimento è modo.
E’ un tratto di modernità che attribuisco all’opera, un procedimento fondante della mia pratica artistica. In altri termini - è un modo il compito - ed il modo è ciò che precede la forma e le relazioni delle parti in un sistema. Ed il modo della mia riduzione è l’impronta.
Nel teorizzare questa pratica sento sempre l’esigenza di una traduzione critica o letteraria rispettosa.
Ad esempio, nella traduzione dell’altro trovo convincente tutta la lettura che di Rodin ne fa Rosalind Krauss. Come trovo coerente Paul Valery nel testo ”Degas Danza Disegno” per i modi che mette in atto per scrivere dei comportamenti di Degas.
Attraverso la mia esperienza posso dire che le teorie intorno al lavoro sono costruzioni che riflettono diverse frequentazioni, un saggista, a volte un filosofo, un esteta, il critico o lo storico dell’arte.
Compagni di strada non necessariamente coetanei come Alberto Boatto, o contemporanei alla mia
generazione come Saretto Cincinelli e Sergio Risaliti, ma si è trattato sempre di uno scambio sul lavoro
intenso e proficuo.
Questo è il motivo per cui preferisco come scrittura d’artista forme di narrazione quali i diari. Il diario
di Pollock, di Tracey Emin … un scrittura trasversale all’esperienza artistica.
A. - La scultura, a proposito dei tuoi ultimi lavori, quasi delle impronte doppiate per superfici in cerca di spazio e narrazioni.
M.B. - L’impronta di per se è doppia. Ma l’impronta doppiata fa pensare al dato transitivo della superficie, alla separazione attraverso lo strappo o al furto riservato all’invisibilità, le sinopie!
Dunque mi chiedi delle nuove sculture in bronzo e delle cybacrome per il ciclo di lavori sulle stagioni.
Io credo che questo passaggio dalla cybacrome al bronzo sia consequenziale ad un modo…
Sebbene in comune forse c’è già la chimica, il riflesso metallico!
Ma forse perché vorrei che la narrazione che è dentro la scultura possa diventare strumento della
rappresentazione. Un escamotage per così dire, quasi che la scultura fingendo di uscire dalla
bidimensionalità possa prendere in considerazione un momento narrativo e mettere in atto un processo drammaturgico che gli dà l’utopia della narrazione appunto, fino a trovare un modo.
Credo che le utilizzerò come dispositivi per le collaborazioni con la danza,
ma si tratta di pensieri per lavori a venire.
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