Le generazioni artistiche nella crisi dei sistemi formali
Cosa vuol dire appartenere ad una determinata generazione? Interrogazione certamente preliminare, ma necessaria per avviare una riflessione corretta intorno al nostro tempo. [...]
Ci interroghiamo: materia anche per storici dell’arte e critici? Sì, e non solo per specialisti in sociologia dell’arte, giacché al centro del dibattito si trova sempre il rapporto tra arte e realtà. E la realtà non è mai data ma sempre ricercata a partire dall’esperienza che la coscienza fa della vita nelle sue relazioni all’altro da sé. La realtà è sempre un orizzonte di senso e affidiamo alle arti il compito di indicarlo. [...]
Ma il mondo si allontana in una nebulosa di fatti e comportamenti e il recinto dell’arte, dei suoi linguaggi e comportamenti, s’erge sempre più a marcare una autosufficienza che è in verità perdita di centralità dell’arte oggi. Ciò è particolarmente evidente per le arti visive della contemporaneità nella loro connessione e interdipendenza con l’universo dell’economia. [... ]
Che fare?
L’interrogativo è tornato più volte a risuonare nel corso del XX° secolo e ogni volta segnalava uno stato di impasse della coscienza. Noi riteniamo che l’assunzione dello stato di crisi sia già un passo corretto in direzione di un recupero del pensiero fenomenologico, attento alle distinzioni. Essendo di natura squisitamente metodologica, non ci offrirà chiavi ma indicherà percorsi, al plurale. Ecco, il nostro tempo si colloca sotto il segno della pluralità.
E’ in corso un dibattito, che non pare accademico, circa la distinzione tra arte contemporanea e arte di oggi; questa sarebbe la categoria generale, che conterrebbe una sottospecie speciale. E sì perché arte contemporanea è ormai un’etichetta ben intesa dagli specialisti del settore, critici, galleristi, collezionisti. Ciò significa, in primo luogo, che la categoria generale non è più da alcuno afferrabile e dominabile per via conoscitiva. Ma in secondo luogo ciò significa che non si ha più a disposizione criteri distintivi, tali per cui di fronte ad un’opera si possa affermare, con un sufficiente consenso degli addetti ai lavori, se si è in presenza o meno di un’opera d’arte.
D’altra parte l’esperienza insegna che, nella storia, ogni opera d’arte di rottura è stata letta e individuata tale da uno sparutissimo numero di critici e solo il tempo è stato galantuomo. Galantuomo fino ad oggi, giacché ora l’opera pare saltare agli occhi immediatamente a tanti! Non è proprio il caso di aspettare, bisogna affrettarsi.
L’opera d’arte è un oggetto strano; è anche una merce strana. Ma il mio interesse va innanzitutto al “processo di produzione” dell’oggetto. Visto da questa prospettiva, la sua morfologia finale risulta da molteplici rapporti, che coinvolgono le forze operanti nell’individuo nella prefigurazione dell’oggetto stesso e la figura della coscienza torna a occupare una posizione centrale.
E innanzitutto si rileva la coscienza del tempo e del proprio tempo in particolare; che non può non colorare di sé la forma. Il XX° secolo ha prodotto estetiche del frammento e delle rovine; vale a dire che per un verso ha ritradotto la nozione di forma rinunciando ad un’idea di completezza, di esaustività dell’opera, insomma ha rinunciato al capolavoro assoluto, ma introducendo l’intenzionalità artistica a completamento. Per l’altro verso con la rovina ha fatto spazio alla potenza del tempo primo scultore. Rovina in quanto frammento: in questo paesaggio, che è il nostro, la via alla forma è avvicinamento alla possibilità di formare. Ed è forse in questa prospettiva che si comprende la posizione centrale che ha l’artista vivente rispetto alla comprensione dell’opera, intendo la sua conoscenza, il suo pensiero rispetto all’opera intesa come percorso, lavoro intorno ad un’ossessione, al desiderio, al piacere. Resterà l’opera, ma la sua comprensione ha bisogno della parola dell’artefice. Una parola che non spieghi ma delimiti campi di senso.
Sto delimitando una situazione contraddittoria, ma l’essenziale è raccogliere materiali per l’interpretazione, contro il delirio della critica creativa e l’arbitrarietà del libero dire. Nel dialogo tra esseri umani si ricostituisce una comprensione delle ragioni del sentire, senza rinunciare alla soggettività.
Mi è capitato altre volte di porre ad oggetto di riflessione la scena artistica italiana, senza riuscire mai a tenere il soggetto al singolare. Ogni figura emergente apriva, o tendeva ad aprire, un angolo visivo nuovo ed era una nuova realtà che si affacciava, che si offriva al pensiero. Ma questi micromondi avevano poi al loro interno il respiro per uscire dalla propria dimensione di autosufficienza? In altri termini, il processo di produzione dell’oggetto arte era alla radice innovativo oppure seguiva un processo di trasformazione da un oggetto ad un altro? Quando il gesto semplice si impone come una grammatica generativa, si resta ad uno stadio di pura formalità, ma si carica l’agire di significatività etica. Si pensi alla scultura in legno di Baselitz ma anche, più recentemente, alle opere di Balkenhol: quale distanza corre tra i due esempi di scultura? Non il gesto in sé ma la prefigurazione del risultato. Quando Stefano Arienti, nella prima metà degli anni Ottanta, piega i giornaletti a fumetti e li riconduce a figure geometriche solide, in apparenza l’operazione è la medesima. Ma la scultura in legno punta diritto verso l’anticlassicismo della forma; la scultura di carta, attraverso il mito della leggerezza, punta diritto verso la giocondità della vita, in direzione neoclassica. Edonismo vs severità? Arienti si collocava sul confine tra arte e gioco, confine sapientemente tenuto in equilibrio. Balkenhol si collocava all’interno di un pensiero della scultura, quindi nella tradizione. Ecco: il nostro tempo è ossessionato dal problema dell’allargamento dei confini dell’arte, come se un tale terreno fosse liberamente percorribile, un campo aperto e disponibile.
In un recente dibattito, a conclusione di una interessante ipotesi di lavoro intorno ad un nuovo manuale di storia dell’arte del ‘900, Rosalind Krauss si interrogava sull’importanza del medium, sulla sua posizione per l’interpretazione dell’opera. Non è semplice afferrare con precisione il concetto di medium che ha in testa l’insigne studiosa. Ma certamente è un segno che suona come un altolà: ne va dei confini del senso. Nell’opera d’arte nulla è strumentale, nulla che non sia al limite delle proprie possibilità espressive deve entrare, pena l’annullamento del senso complessivo.
Sono convinto che quell’ossessione rilevata per l’allargamento dei confini dell’arte a tutti i costi abbia a che fare, almeno per lo spazio italiano, con il tempo della perdita di forma della società civile. Di più: ne dipenda. La costruzione di micromondi autoreferenziali, all’interno dei quali tutto si tiene, è la risposta all’assoluta imperante orizzontalità della coscienza contemporanea. Ma è una risposta subalterna, in cui la sapienza filologica si fa formalismo. Microstorie dei materiali dell’arte, del loro uso corretto, attenzione alle vicinanze differenti: ecco l’armamentario in uso. Il quotidiano, come il concetto dell’oggi, non si afferrano se non immettendoli sull’asse lungo passato-futuro; nella dimensione orizzontale si sbriciolano come le mille vite nel caos del traffico. Ed emerge la paura, la percezione dell’insicurezza, il percepire in generale.
Sono convinto che il tema che guida questa esposizione sia all’altezza di una vera sfida, di una vera interrogazione rivolta all’arte oggi: ricerca di segni che sappiano declinare all’universale oppure frantumare la paura; ricerca di metafore potenti e di linguaggi rigorosi. Ma soprattutto: nuove realtà.
Il gesto nella sua semplicità, di cui si è discorso poco sopra, torna protagonista per esempio nel lavoro, o meglio nella concezione del lavoro artistico, in Alice Cattaneo. E mi pare che l’ascendenza più precisa dovrebbe ricondurci al lavoro di Eva Marisaldi, altra figura che ha segnato il panorama artistico italiano degli anni ’90. In Cattaneo il gesto traduce, aspira a tradurre, la figura del haiku. Colpisce non tanto il riferimento all’universo poetico orientale, quanto l’assunzione di quel modello che, per entro una dualità fulminea, ricerca la metafora che è poesia. Cattaneo riconduce, tramite micro-video, all’esperienza semplice, depurata e cerca la scintilla, come con due pietre focaie. Anche la fotografia di Domingo Milella si avvicina a questa modalità: il contrasto visivo blocca la storia di un contrasto insanabile; oltre le strutturazioni sociali? Attraverso il sociale certamente, ma a me pare che l’immagine mi spinga oltre, verso un pensiero del reale. Certo con il video il movimento si impone,quindi il tempo, ma ciò che conta anche qui è il senso che si costituisce, la sua forma.
Ma se insisto sul significato del gesto nella sua semplicità oggi, ciò è dovuto al fatto che lo sento vicino ad una nuova considerazione della natura, nella sua “natura” intimamente processuale, ma anche come orizzonte negato.
Piscitelli ha prelevato dalla natura selvaggia, incolta, una metafora che l’ha guidato per un buon tratto del suo lavoro. E non è un caso se in lavori recenti sia emerso il tema del lavoro nella sua accezione generale, trans-storica, come gesto ripetuto. Ma non è anche l’inizio di Emanuele Becheri questo sforzo improbo di disegnare alla ceca, mettendo in scacco la propria psicologia, forse per liberare desiderio e piacere allo stato puro? Anche Becheri parla di gesto, gestualità. Ricordo che Jan Fabre, un maestro del contemporaneo, ha definito il disegno “una danza sui polsi”.
Questa attività di scavo, per natura fenomenologia, trova nella figura della metafora uno strumento potente. Ad un tale raggiungimento è volta l’intera ricerca del gruppo MASBEDO, ad esempio. Il gesto, la natura, la metafora: strumenti per la conoscenza e al contempo elementi del reale che possono essere declinati anche in direzione del sociale, certamente. Purché ne sappiano uscire, io penso: purché ci accompagnino oltre.
In un’opera in mostra di Rossella Biscotti entra in questione l’evento Chernobyl: ora arriva sulle ali della memoria, ma in presenza dell’evento stesso un artista quale fu Luciano Fabro dichiarò la “caduta della forma”. E’ possibile misurare questa distanza, cronologicamente di un ventennio? E’ utile una tale misurazione per l’arte? Questo volgersi oggi ad un evento passato può essere inteso come giudizio di condanna per quanto avviene nel contemporaneo? Oppure la memoria ha il potere di schermare il dato immediato, l’informazione, per liberare dimensioni proprie del poetico? Forma e contenuto, pur riformulate, sono pur sempre facce di una medesima medaglia. In questa occasione, in quest’opera, è possibile verificare la relazione che lega le nozioni di sociale e di reale.
E la pittura infine, questa principessa che a tratti pare figura obsoleta per poi balzare con prepotenza alla ribalta, luogo di nascita di tutte le nozioni circolate in questo testo, cosa ha da dire oggi? Me lo chiedevo recentemente, visitando la mostra dell’opera pittorica di Vanessa Beecroft che Giacinto di Pietrantonio, direttore della GAMeC, ha opportunamente proposto a Bergamo, mentre rivedevo a distanza di 17 anni quei disegni freschi, leggeri nella forma, tra cui alcuni esemplari mostrati in occasione dell’esposizione Fatto in Italia, a Ginevra, voluta dall’allora direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Paolo Colombo. Non ho confermato la medesima percezione nell’opera recente, e proprio ciò mi induceva ad una verifica della potenza della pittura, che non perdona. Di contro pittori quali Sigmar Polke o Anselm Kiefer ne hanno mostrato un dominio eccellente. Io ho molto amato De Stäel, modello di lottatore sconfitto. Luca Bertolo ha dichiarato da qualche parte che, in una stagione antecedente del suo lavoro, ha considerato il quadro, vale a dire la pittura, come una tovaglia che sa accogliere ogni cosa, un campo aperto insomma. E’ una dichiarazione d’amore e di coraggio, come se al fondo del suo pensiero vi fosse una sfida mortale. Credo sia un giusto atteggiamento. Ne verifico gli esiti nel suo lavoro, nel raggiungimento di una immagine “che sta insieme”, che è una pur albergando modelli, riferimenti, forze tendenzialmente contradditorie, autodistruggentesi. E’, se ho capito bene, in vitro lo stato della coscienza contemporanea.
A simili esiti, da un punto di vista formale, giunge anche Andrea Mastrovito, pur in una dichiarata esuberanza, ma controbilanciata dall’attenzione da sempre portata all’operare di Stefano Arienti. In Mastrovito in particolare però si fa strada una questione, specifica quanto la modalità del suo lavoro artistico, che sopra richiamavo in riferimento al recente pensiero di Rosalind Krauss: e cioè quanto peso ha il medium nella costruzione artistica del senso nell’opera d’arte? Un lungo viaggio, iniziato con un papier collé, e non ancora terminato: un duro confronto tra la pressione del mondo delle cose e la forma della realtà. Questa esposizione ne scrive un capitolo non irrilevante.
Courtesy of Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato.
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