SPREAD IN PRATO
2002 / 2010
Io non mi occupo di tecniche. Come non mi occupo della tecnica di incisione su rame, così non mi occupo di fotografia in quanto tecnica. Mi occupo dei risultati della fotografia e in particolare in un campo estremamente limitato qual’ è quello dell'arte.
Quando abbiamo iniziato il progetto SPREAD IN PRATO con Dryphoto, la storia di quest’istituzione era già lunga, e mi piacerebbe che questa sera Andrea Abati o Vittoria Ciolini parlassero anche di questa loro esperienza, di come è nata e di quel che è stata, delle diverse funzioni, che Dryphoto si è assunta nel corso della sua più o meno ventennale esistenza, avendo sempre come base di riferimento, come aggancio, la fotografia, e le sue evoluzioni, ma anche le sue letture, i suoi usi e la sua diffusione, il suo essere dentro il corpo sociale e il sistema della cultura.
Quando Vittoria Ciolini mi parlò - in realtà non so perché si sia proprio rivolta a me - di questo sua voglia di portare fuori dal proprio magazzino quanto di opere era stato accumulato negli anni, e fuori voleva dire per lei nell’aperto della città, ottenne quasi subito la mia adesione.
Mi hanno sempre interessato i viaggi nel fuori, nell’altrove, nella regio exterioris.
Li ho praticati come curatore in parecchie mie mostre, comprese anche quelle maggiori,
da documenta, nel 1992, dove ho cercato di espandere l'arte al di fuori dei luoghi deputati, dentro la città e nel parco, nelle piazze, nel garage sotterraneo.
L'ho fatto poi a Stoccolma quando si è aperto il nuovo edificio del Moderna Museet della cui mostra inaugurale mi era stata affidata la cura. Inizialmente mi era stato richiesto di utilizzare per questa mostra solo lo spazio delle esposizioni temporanee, ma poi ho finito con l’occupare anche alcuni di quelli per la collezione, tutti quelli ancora vuoti e destinati ad ospitare la vasta sezione fotografica del museo, e lo spazio educazione, e atri e corridoi, e poi spazi esterni, sempre sull’isola di Skeppsholmen, che era stata in passato base della Marina Militare, e quindi la prigione, la residenza del cappellano militare, e due studi in legno, e infine, in terraferma, i billboard ai vari ingressi della città. La proposta di Vittoria coglieva anche la mia ossessione per la fotografia.
Quando insegnavo ad Architettura, nel corso di Decorazione, che anni prima Gillo Dorfles, che ne aveva tenuto la cattedra, aveva trasformato in un corso di semiotica applicata alla rappresentazione visiva, pur mantenendone il nome, per dieci anni ho tenuto un seminario che si intitolava ‘Le macchine della rappresentazione’ e che consisteva un’analisi operata attraverso gli strumenti semiotici della luce come componente fisica e sorgente primaria di tutte quelle forme di rappresentazione che erano state prodotte dalla Cultura Occidentale, a partire dai mosaici ravennati e dalle vetrate gotiche francesi, attraverso l'invenzione della prospettiva, la luce rappresentata nella pittura da Piero della Francesca a Caravaggio, per approdare all'invenzione della fotografia e alle sue applicazioni fino a quel tempo, che corrispondeva più o meno alla metà degli anni 80 del secolo scorso. Le ricerche dei miei studenti di allora si focalizzarono soprattutto sulle applicazione della fotografia spaziando da Nadar a Larry Clark, da Atget a Thomas Struth, da Eadward Muybridge a Ugo Mulas, fino a toccare collaborazione con l’AFT, scrivevo che SPREAD IN PRATO era una sfida, una sfida non a qualche cosa, una sfida alla città, al sistema dell'arte, né tanto meno alle istituzioni artistiche locali esistenti, quanto una sfida a noi stessi, che miravamo a verificare la presenza, la presenza e non il significato, la presenza dell'arte in un ambito non artistico.
Avevo sempre avuto dei problemi quando mi ero trovato a fare delle mostre in cui erano coinvolti artisti che usavano la fotografia. Ritenevo che la fotografia non possedesse una propria specificità dimensionale, o perlomeno non l'avesse avuta per molti anni, a differenza della scultura, della pittura o dell'installazione, né che, nella maggior parte dei casi, abbisognasse di condizioni particolari come il video o il film, la fotografia di moda da Georges Platt-Lynes a Bruce Weber e quella astronomica delle missioni spaziali americane.
Però fino al progetto per Dryphoto non avevo mai realizzato come curatore una mostra che facesse uso esclusivamente dell'oggetto fotografico.
Uscire dai luoghi deputati dell'arte e occuparmi esclusivamente di fotografia furono le ragioni fondamentali della mia adesione al progetto.
Nella prima pubblicazione che accompagnava la mostra, e che fu sempre realizzata in collaborazione con l’AFT, scrivevo che SPREAD IN PRATO era una sfida, una sfida non a qualche cosa, una sfida alla città, al sistema dell'arte, né tanto meno alle istituzioni artistiche locali esistenti, quanto una sfida a noi stessi, che miravamo a verificare la presenza, la presenza e non il significato, la presenza dell'arte in un ambito non artistico.
Thomas Ruff, Substrat, 26 III, 2005,
Thomas Ruff. Prato 16.10 -11.12/2010, Palazzo Banci Buonamici
foto dell'installazione Andrea Abati
La mia fruizione della fotografia, come quella di molti altri, e il piacere che ne derivava, erano pari sia quando tenevo la stampa fra le mani che quando sfogliavo un portfolio, un libro, un giornale, una rivista o un catalogo.
Non vedevo e non sentivo la distanza, né riconoscevo alla fotografia alcuna oggettualità.
La fotografia nasce in un momento in cui l'opera d'arte ha perso un proprio spazio specifico, è fuori luogo e fuori tempo. Con la Prima Rivoluzione Industriale, con la divisione del lavoro ad essa conseguente, l'arte è esclusa dal nuovo sistema di produzione ed è relegata in una specie di esilio nell'immaginario, e si costituisce come o immagine della mente o oggetto prezioso.
L'arte non ha luogo e non ha tempo, poiché, finché è nello studio dell'artista, non è ancora nata alla luce del mondo, e, nel momento che è all'interno della collezione privata o del museo, non è altro che la reliquia di un qualche cosa che è avvenuto in un altrove e non gode della flagranza del tempo presente.
Quando Arago presenta l'invenzione di Daguerre l'arte è in questo stato e la fotografia vi si conforma: immagine della mente nonostante la concretezza della propria realizzazione tecnica.
Quando a partire dalla fine degli anni 50 e per tutti gli anni 60 del secolo scorso gli artisti si riappropriano di uno spazio e di un tempo concreti, happening, Fluxus, i Gutai ancora prima ma in quella periferia dell’impero che era il Giappone a quel tempo, la Minimal Art, Joseph Beuys, l'Arte Povera, Bruce Nauman, Robert Smithson, Eva Hesse, Marcel Broodthaers, uno spazio concreto che si fonda sostanzialmente sull’ economia e un tempo come evento, a distanza di pochi anni anche quegli artisti che si occupano di fotografia sentono questo bisogno di ridare una oggettività che la fotografia non aveva avuto fin dalla propria origine, di costituire essa stessa un ingombro, che occupi uno spazio preciso e lo condivida con quello di chi la osserva.
I primi che si muovono in questo senso sono artisti come Jeff Wall, attraverso l'uso del light-box, e Cindy Sherman, che da alle proprie opere una dimensione pari a quella della superficie della pittura quale si era andata definendo dal Rinascimento in avanti.
Questa prima occupazione e definizione dello spazio viene confermata negli anni 80, anni importanti per la fotografia, che in quel torno di tempo si afferma come strumento dell’arte a pieno titolo, senza derive sperimentali, da quegli artisti che in qualche modo sono gli ultimi della grande tradizione dell'Arte Occidentale: dagli allievi di Bernd e Hilla Becher, i maestri di fotografia all’accademia di Düsseldorf, come Thomas Ruff e Thomas Struth in primis, fino a Jan Vercruysse, a Rodney Graham, a Günther Förg, a Jean Marc Bustamante, a James Welling, che hanno a disposizione, come su di un tavolo, vari strumenti, che la nostra cultura, la nostra civiltà e gli avanzamenti tecnologici hanno fornito e di cui loro si servono senza alcuna discriminazione e in perfetta coscienza delle potenzialità e delle caratteristiche del mezzo.
Si può allora parlare di una vera e propria emancipazione della fotografia, che non rimane disciplina separata, o supporto documentario o sperimentale delle arti maggiori, e assume il ruolo fondamentale di strumento dell'opera d'arte, e fra i più prolifici, affidabili, e efficaci, aprendo all’arte stessa vaste e ricche possibilità.
Anche quando il modello occidentale entra in crisi, dopo essersi espanso a livello planetario, la fotografia, da quel modello stesso mediata e diffusa, si attesta come modalità espressiva di vasta potenzialità presso gli artisti di oggi ad ogni latitudine, e potremmo dire anche che ha la funzione di trasmettitore di quel principio, insito nel modello occidentale, dell’arte come mezzo di avanzamento e di scoperta, di liberazione ed affrancamento, facendo venire alla luce, scoprendo, liberando, affrancando, mondi.
Ma questo sarà oggetto di un ulteriore progetto, che non è ancora il caso di anticipare..
SPREAD IN PRATO aveva, ed ha nelle varianti successive alle prime tre edizioni canoniche, a che fare con la città di Prato, una città in cui la mitologia del luogo è più la produzione che la storia, in cui è più importante l'attualità della sua ricchezza che la modernità della sua immagine.
Quindi un luogo giusto per considerare la frattura schizofrenica fra produttore e consumatore che caratterizza la civiltà e la cultura industriale e post-industriale, a cui apparteniamo.
Da una parte il produttore il cui atteggiamento si basa sul risparmio, e quindi risponde ad una etica e a principi di razionalità, e, insieme, deve possedere un know how. Dall’altra il consumatore il cui atteggiamento si basa sullo spreco, e quindi risponde ad esigenze estetiche o simboliche, e fonda la propria azione sul gusto o sul soddisfacimento di desideri più o meno indotti.
E’ su questo terreno che spargo, spread , - Spread in Prato in analogia con Made in Italy o Made in Taiwan – opere d’arte in forma di oggetti fotografici: nei luoghi della produzione – fabbriche, uffici, laboratori - e nei luoghi del consumo - negozi, show room, ristoranti, bar.
Come se l'arte potesse essere la sutura, il momento di conciliazione ideale, della ferita schizofrenica.
E l’arte in particolare in forma fotografica. Perché la fotografia è user friendly, se volete in un certo modo, ma solo in un certo modo, di facile accessibilità. Ogni volta che è stata portata l'opera d'arte dentro lo spazio urbano- valgano per tutte le mostre Skulptur Projekte in Münster che a partire dal 1977 si tengono con scadenza decennale nella città della Westfalia - , tutte le volte che si pone davanti ad una opera d'arte nelle sue forme tradizionali o anche realizzata con tecnologie più avanzate, il pubblico generico tende a prendere le distanze, si può permettere di non capire: che cosa è questa cosa? - è arte! – allora io non ne sono personalmente coinvolto, ché di arte non m’intendo...
Davanti ad una fotografia, che sia in ufficio o in un ristorante, in un negozio o nel "cesso" di una fabbrica, chi utilizza questi spazi , perché ci lavora o ci transita, ci si confronterà senza timore o pregiudizio, e si verrà a produrre quella vasta gamma di reazioni che vanno dalla curiosità all’indifferenza.
E questo è in qualche modo quello che abbiamo cercato di realizzare.
L'evento a Prato è stato in crescita, lo abbiamo fatto per tre anni, poi il modello canonico iniziale è stato abbandonato, anche, ma non esclusivamente, perché poi le istituzioni pubbliche della città hanno, inversamente al successo, ridotto via via il loro sostegno.
Alcuni lo hanno sentito come oppositivo rispetto alla istituzione principe di questa città, il museo.
E' chiaro che ogni volta che io mi sposto fuori dal Museo, e questo non avviene da ora, avviene dai Gutai, da Happening, da Fluxus - non guardiamo poi che ogni volta ci ritornano -, ogni volta faccio un altra cosa, altra rispetto al Museo.
Abbiamo semplicemente spostato l'arte altrove, fuori dello spazio ad essa deputato.
Abbiamo voluto offrire un’altra possibilità all'arte di incontrare il suo pubblico.
Non ci eravamo forniti di sistemi di monitoraggio, per cui a cose fatte non abbiamo alcun feed back per quanto riguarda gli effetti nel senso di cui sopra, che era anche lo scopo principale di tutta l’operazione.
Sappiamo quello che abbiamo prodotto sugli artisti, specie su quelli che vi hanno partecipato direttamente confrontandosi con il tessuto particolare che abbiamo loro offerto in questa particolare città in questa altrettanto particolare occasione.
Sappiamo le reazioni dal pubblico dell'arte, che veniva di edizione in edizione sempre più numeroso nel giorno della inaugurazione, e più sparsamente nel tempo di apertura della mostra: Ah, ci fai scoprire la città, era il commento diffuso. Ma il nostro scopo non era quello di far scoprire la città attraverso l’arte in forma di fotografie, ché tutte le volte che la realtà irrompe grazie all'arte fuori dal silenzio del Museo e dal rigore specialistico degli altri luoghi deputati, in qualche modo si scopre un qualche cosa. Il pubblico che volevamo raggiungere era quello, ripeto, dei produttori/consumatori, delle cui reazioni, ripeto ancora, non abbiamo alcun record.
Poi abbiamo continuato in altri modi, e continuiamo ancora. Abbiamo modificato il progetto: a cominciare con l’aver invitato degli artisti a lavorare all'interno della città supportati da sponsor locali, per finire, l’anno passato attraverso la mostra di Thomas Ruff a Palazzo Buonamici, sede della Provincia, con il riportare l’arte dentro i palazzi del potere e, attraverso la presenza dell'arte, con il risultato di aprirli ad una fruizione pubblica, anche se temporanea.
L’ esperienza non è chiusa: continua.
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