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Artext - Una conversazione con Cesare Pietroiusti
Artext - Da dove ha preso inizio la tua ricerca artistica?
Cesare Pietroiusti - Da ragazzo fare l’artista era l’ultima cosa che pensavo di fare, nella vita. Se devo parlare del dato biografico, ti dirò che ho studiato Medicina all'università (ciò soprattutto dovuto al fatto che mio padre era medico) e poi ho cominciato la specializzazione in Clinica Psichiatrica. Se studiare non è mai stato un grosso problema, al contrario la pratica clinica era molto faticosa, direi quasi dolorosa – una quotidiana esperienza di disagio, che sono molto felice, a posteriori, di essere riuscito ad abbandonare.
Mentre ancora studiavo, avevo circa 22 anni, ho conosciuto un artista più grande, Sergio Lombardo. L'ho conosciuto per caso, ad una riunione di un comitato vicino al Partito Radicale, che si batteva per l’abolizione della censura nel cinema.
Era il 1977. Pochi mesi dopo abbiamo cominciato a lavorare insieme.
Naturalmente ero io che seguivo lui: aveva aperto un centro studi, Jartrakor, che era anche uno spazio espositivo e soprattutto un vero e proprio laboratorio. All’inizio non capivo esattamente di cosa si trattasse, però la libertà di questa ricerca senza condizionamenti, quasi senza scopo, mi affascinava. Forse a Sergio era chiaro fin dall'inizio che sarei diventato un artista. A me no, per niente. Però il contesto di gruppo che si era creato e la personalità da maestro-guru di Lombardo hanno contribuito alla progressiva formazione di una coscienza relativa a questa possibilità. Una possibilità “aperta”, senza necessario riconoscimento sociale o accademico-disciplinare. La possibilità di fare l’artista, appunto.
Oggi vedo tale possibilità come “la” possibilità di un’esperienza umana e di una pratica di lavoro non alienate. Esplorare sperimentalmente la propria vita, i propri pensieri, le relazioni con gli altri, i loro contesti sociali e politici e psicologici, e fare diventare tutto ciò un “lavoro” – mi sembra un lusso straordinario del quale non so a chi essere grato, di certo a Sergio Lombardo, ma diciamo che sono grato a questo destino.
A. - Quali sono le letture che hanno contribuito a formare delle teorie o modalità di intervento negli spazi dell'arte.
C.P. - Fra i testi freudiani all’inizio L' interpretazione dei sogni e forse soprattutto La psicopatologia della vita quotidiana per i riferimento all'ordinarietà dell'esistenza e l’attenzione agli “effetti collaterali” rispetto agli eventi banali. Ho letto parecchi testi di antipsichiatri, da Ronald Laing a Basaglia, e mi intrigava molto leggere Lacan, anche se (anzi, proprio perché) lo capivo molto poco...
Un testo fondamentale, letto all’epoca della tesi di laurea, è stato Pragmatica della comunicazione umana della scuola di Palo Alto (Watzlawick, Beavin, Jackson). Quel testo per me ha rappresentato la scoperta del concetto di relazionalità, e di come nelle relazioni si insinuano e agiscono i paradossi e i doppi legami. Direi che l’intreccio tra patologia e creatività sta proprio nella dimensione dei “paradossi pragmatici”.
Quelli, per intenderci del tipo: “Sii spontaneo”, oppure “Disubbidiscimi”…
A. - Certo in questa ricerca, in quegli anni, non era difficile sconfinare nello psicodramma...
C.P. - L'impostazione di Paul Watzlawick e degli altri della scuola di Palo Alto, è una impostazione molto lucida anche da un punto di vista teorico – logico-linguistico e socio-antropologico.
Ho sempre trovato molto affascinante tentare di applicare delle formule di logica alle relazioni intra-familiari. Mi sembrava in sé stesso un paradosso, quasi letterario, e quindi molto interessante.
Lo psicodramma, almeno nelle teorie di Levi Moreno, è più legato a idee tardo-romantiche della spontaneità, dell’autenticità, alla creazione di spazi di libera espressività.
Mi sembrano teorie che non sono consapevoli della dimensione paradossale…
A. - Arte dunque piuttosto che rappresentazione.
C.P. -
Sì. Uno dei passaggi importanti dell'insegnamento di Lombardo era la messa in discussione del concetto di rappresentazione. La nostra idea di un arte “eventuale” o “eventualista” era che l'opera non fosse una rappresentazione e che non potesse essere preordinata rispetto all'evento relazionale. Quindi al massimo quello che l’artista poteva fare era uno “stimolo” in grado di suscitare delle dinamiche.
In effetti per noi “l'arte” era non soltanto questo elemento-stimolo, né eventuali tracce documentarie, ma l’intero processo, con al centro l’evento.
Tutto quello che trovo,
1999 Base, Firenze
Performance
A. - In quegli anni sebbene legata alla performance si parlava di "'Opera ambiente" che vive delle interazioni...
C.P. - Certamente, le idee eventualiste erano debitrici di varie teorie artistiche della prima e della seconda avanguardia, dal teatro futurista al situazionismo, dalle serate dada agli happening di Kaprow. Però devi considerare che l’inizio degli anni ’80 segna un generale retour à l’ordre, alla specificità della pittura, all’appiattimento dittatoriale dell’equivalenza fra valore e mercato. In clima di trionfo della Transavanguardia noi lavoravamo praticamente in clandestinità.
Il che, a vederlo con gli occhi di oggi, è stata una fortuna: un allenamento all’apnea (come diceva sempre Lombardo), e un tempo dedicato, senza attenzioni o interferenze esterne, alla ricerca. Senza le pressioni determinate dal successo o dal mercato.
Verso il 1983-84 ci fu una divaricazione nel gruppo di Jartrakor. Domenico Nardone, giovane e lucido teorico dell'arte eventualista, ad un certo punto pensò che le dinamiche relazionali, piuttosto che nel chiuso del laboratorio, come accadeva con Lombardo, si dovessero esplorare nel contesto urbano, con attori inconsapevoli, o comunque non volontariamente partecipi agli esperimenti.
Così cominciò a lavorare con Salvatore Falci, Stefano Fontana e Pino Modica, tre artisti di Piombino (due di loro erano operai alle acciaierie), e che stavano tentando, forse ingenuamente ma molto coraggiosamente, di esplorare questa strada, di fare interagire con degli stimoli estetici un pubblico inconsapevole, nel contesto urbano, per strada, appunto.
L’operazione di Nardone, di valorizzare e fare conoscere le pratiche di questi artisti, aprì un interessante dibattito tra una sperimentazione relazionale “di laboratorio”, ed una invece sociale e urbana. Un dibattito che, direi, era una dozzina di anni in anticipo sulla nascita “ufficiale” dell’arte relazionale (il libro di Nicholas Bourriaud è del 1996) e che quindi non fu raccolto da nessuno, e restò un patrimonio (quasi segreto) di un piccolo gruppo di persone, nel clima di generale euforia pittorica e mercantile.
Nella seconda metà degli anni 80, anche io mi sono ri-avvicinato a Nardone e, insieme agli artisti piombinesi, abbiamo costituito una specie di piccolo movimento (il “gruppo di Piombino”).
A quel punto, con il cambiamento di clima culturale – si sono aperte nuove gallerie soprattutto a Milano - questa limitata ma precoce esperienza di arte relazionale ebbe qualche attenzione: mostre nelle gallerie, articoli sulle riviste, l’invito alla biennale a Venezia nel 1988 e nel 1990, qualche invito a mostre internazionali.
Poi, come spesso accade, nel 91/ 92 cominciarono dei dissidi interni al gruppo e ci fu un certo sbandamento, con successive reazioni di abbandono della ricerca artistica, di condizioni di “lutto”, di opzioni di rifiuto. Insomma, quella che doveva essere riconosciuta come un’esperienza “pilota”, finì con l’assumere l’alone, l’aura, di una sconfitta.
Questo fatto, a vederlo quindici-venti anni dopo, è una cosa un po’ triste, perché adesso mi rendo conto che per un artista è altrettanto importante fare un opera rilevante e significativa in un certo momento, quanto è importante validarla, confermarla negli anni seguenti - con altre opere che confermino gli assunti di base, che offrano nuove letture, che l'amplifichino, che la facciano diventare sempre più portatrice di senso.
A. - Come nasce un tuo lavoro? Da una condizione spaziale...
C.P. - Un lavoro a cui mi riferisco spesso, uno dei miei primi lavori, parte di una mostra personale, dal titolo “Ipotesi di identità” (Jartrakor, 1978), si chiamava Materia identica e consisteva in una stanza vuota con appeso un gfoglio che diceva: “Tutti gli oggetti contenuti in questa stanza”.
La mia idea era di esporre non il vuoto in senso spirituale (à la Yves Klein) o l'assenza come mancanza, insussistenza dell'Io. No, si trattava di esporre proprio solo quello che “c’è” in una stanza che definiamo “vuota” – quindi l'aria, la polvere, le ragnatele, le pareti con soffitto e pavimento, le mattonelle, i fili elettrici ... moltissime cose che riempiono un luogo vuoto.
Esistono altre variazioni di questo lavoro, in cui “quello che c’è” viene descritto minuziosamente, analiticamente, ossessivamente.
A. - Il riferimento è alla performance “ Tutto quello che trovo” a Base, Firenze, 1999 -
C.P. - Sì. Quello è il mio rapporto con lo spazio: non aggiungere nulla.
Detto questo, quando io parlo di spazio non parlo mai solo di spazio fisico, di una stanza o della galleria.
Di spazi ne conosco almeno tre – oltre allo spazio fisico (il luogo), c’è lo spazio sociale (il sistema) e, ovviamente lo spazio mentale (il pensiero) – e ciascuno ha una dialettica propria e modalità dinamiche di incrocio, scambio, conferma, con gli altri.
E se parlo di “spostamenti”, di creazione di spazi, è nella ipotesi che si possa lavorare sul confine tra l'interno e l'esterno dei singoli spazi, sulle dinamiche che ne caratterizzano gli incroci, e che si possa allargare il dominio della coscienza o dell'esperienza rispetto a spazi (fisici, psichici o di sistema) che non sono stati ancora esplorati o considerati praticabili.
Questo fa l'arte. Crea questi spazi, offrendo la possibilità di uno spostamento.
Forse è una visione ottimista, ma questa è il mio modo di sentire.
Methods for an irreversible transformation of money ,
Trafo Gallery, Budapest 2003
A. -
Nel recente lavoro Menu "pasto conoscitivo" ( Spazio Razmataz, Prato)
sembra ipotizzarsi una rinnovata virtualità del "testo" in questo caso
legato ad un intreccio di comportamenti che determinano un racconto.
C.P. - La dinamica del racconto a me interessa molto, ma non tanto perché si ha a che fare con la creazione di un testo, quanto per il fatto che il racconto è basato sulla trasmissione.
Non esiste esperienza portatrice di un qualche genere di significato, senza una sua elaborazione da parte dei soggetti che, avendovi partecipandovi, ne determinano a loro volta un successivo racconto, per altri soggetti, e così via.
A me interessa questo reticolo di successive trasmissioni di racconti, anche se, o forse proprio perché è un reticolo che se ne frega della fedeltà, della aderenza al testo originario, ma che crea effetti collaterali.
Tanti anni fa quando in Italia cominciavano ad aprirsi vari musei di arte contemporanea pensai che se mi fosse stato chiesto di fare una retrospettiva del mio lavoro in un museo non avrei saputo cosa fare. Poi mi venne in mente questa idea: potrei raccontare quello che ho fatto, i miei lavori, a tante persone, dopodiché, disporre in ogni sala un lavoro – sotto forma di una persona che racconta a sua volta quello che io le ho raccontato; così facendo questi aggiungerà del suo, producendo un nuovo lavoro all’interno del quale il mio è solo una componente.
Ecco, questo a me interessa, la reticolarizzazione.
A. - Come vivere la situazione attuale dell'arte in movimento sul globo, come un flusso ininterrotto...
C.P. - Devo dire che io non ho nostalgia per il periodo in cui l'arte era una produzione di élite. Tutto sommato mi piace che l'arte contemporanea, o quella cosa che noi chiamiamo arte contemporanea, sia diventata quasi un fenomeno di massa.
Ovviamente ne vedo gli aspetti negativi: sensazionalismo, star system, spettacolo; però sostanzialmente mi sembrano di più gli aspetti positivi.
La grande diffusione dei messaggi, dei contenuti e degli eventi specie attraverso Internet e le pubblicazioni “free-press” mi sembra molto interessante perché ti consente di essere (sia conoscere che partecipare attivamente) nel panorama, da qualsiasi punto del mondo.
Prima si sapeva vagamente di qualcosa che accadeva a New York o a Parigi da persone che tornavano e ti raccontavano; certo c’era qualcosa di bello, ma adesso non vorremmo fare a meno del questo flusso. Pur salvando la dimensione del racconto.
Per esempio usare la posta elettronica per mandare delle storie non è una grande invenzione, però va nell'ottica di usare uno strumento in modo alternativo.
Penso, come sosteneva Michel De Certeau a proposito della televisione, che non bisogna accontentarsi del proprio ruolo di consumatori, ma piuttosto occorre cercare di diventare utenti (utilizzatori) imprevedibili, usare gli strumenti normativi della omologazione, della massificazione o addirittura dell'oppressione, contro i loro stessi scopi. De-sacralizzarli, profanarli, re-inventarli.
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