Luigi Presicce
Artext - Di cosa parliamo quando parliamo di arte nel tuo lavoro?
Luigi Presicce - Questa è una questione che si pone sul modo di intendere l'esistenza, per quanto mi riguarda...
Non voglio dire che la vita è paragonata all'arte, o cose del genere.
Non mi piace pensare questo... che uno conduca una vita in maniera artistica... no.
Questo fa folclore. Quello a cui penso è proprio un modo di intendere l'esistenza, il quotidiano.
E quindi, per quanto mi riguarda il mio fare arte è una possibilità in più per capire molte cose,
per studiare, per andare avanti su determinati argomenti, che probabilmente se avessi fatto altri lavori o scuole, non avrei potuto approfondire. Di fatto sono molto autodidatta proprio perché adoro avere questa dimensione molto plurale dell'apprendimento. Quindi studio su più fronti, su vari argomenti o su determinate questioni specifiche, quando sono sotto l'input di una idea. In questo modo assimilo informazioni, le più disparate e spesso si tratta di inseguire delle coincidenze che tali non sono mai. Io colgo i segni e ne approfitto per conoscere. Questo è la mia idea di arte, ma anche di libertà, nel mio lavoro.
Il mio metodo è mettere insieme sapere che esiste già e aspetta una forma per riscattarsi. Non c'è nessuna forma di fantasia nel mio lavoro.
Non è un lavoro di fantasia o di ispirazione il mio, né tanto meno di visionarietà!
E' un processo che nasce da suggestioni che vengono messe insieme da un legame che si crea in automatico tra loro, molto spesso senza che io ne sia consapevole o minimamente intenzionato.
Artext - Nel 2007 Presso la Fondazione Antonio Ratti hai partecipato al Corso Superiore di
Arti Visive con l'artista americana Joan Jonas pioniere di video e performance art.
Come hai rielaborato il suo modo non lineare di presentazione.
Com’è il tuo metodo “performativo a matrice pittorica”?
L.P. L'incontro con Joan Jonas è stato fondamentale per quanto mi riguarda.
L'apprendere il suo sistema, la sua naturalezza di fare le cose. Lei in quei giorni era la mia maestra e io ho cercato di essere più ricettivo possibile.
Tutti gli studenti hanno lavorato sia per se stessi che tutti insieme per un suo lavoro che ha realizzato lì in fondazione.
C'è stata questa sorprendente coincidenza tra me e Joan per quanto riguarda lo studio su Warburg,
e quindi ci siamo trovati nel seguire questo filone di idee che andavano verso una direzione sola.
Guardandola... credo che il suo lavoro sia un continuo rielaborare, rimettere in gioco determinati codici che sono sempre i suoi, sempre gli stessi, identificativi. E quindi molto spesso si trova qualcosa che in un video o una proiezione, che era messa in un determinato modo, diventa tutt'altro. Lei mette in circolo sempre delle cose come se fosse un flusso sanguigno, porta con se sempre le stesse cellule, le rielabora, le sposta, ne cambia il senso, le rinnova continuamente, tutto sotto una sua personale direzione-visione d’insieme.
È sempre lei che dirige i lavori, che impronta questa idea di disegno incerto, molto importante nella sua idea di performance... Lei disegna sempre, crea queste figure, questi animali che sono molto importanti perché diventano simbolici e lo fa un po’ alla Matisse: disegna con un bastone al quale è legato un gesso o un pennello, ha un segno incerto, ma molto elegante, è molto performativa nel disegnare.
Per quanto riguarda il mio metodo di lavoro, direi che ho un modo di vedere le cose, le guardo come se dovessero essere già immobili, e quindi nel momento in cui penso ad un lavoro, lo penso visivamente, cioè al di la dei contenuti. Lo immagino già nella sua forma, che è poi una reminescenza del pittore che sono stato, riesco a vedere l'immagine di quello che ho messo insieme nella testa.
Quindi se delle storie o personaggi si intrecciano tra loro, quello che ne scaturisce è sempre un’ immagine visiva molto chiara, che poi riporto subito su carta e cerco di spiegarla ai miei collaboratori, spiego i dettagli al costumista, all’attrezzista, agli attori, al fotografo, al video operatore a chi accompagna il pubblico e tutti coloro che sono coinvolti.
Per me è molto chiaro quello che si forma nella testa, quando avviene l'unirsi delle idee, è come una specie di flash che illumina il tutto e lo rende palese.
Arriva un’immagine molto definita e quando viene realizzata la performance è esattamente quella che avevo nella testa. Non c'è mai fantasia, è molto naturale come metodo. Non cerco di architettare le cose in modo da confondere le idee, non sono astratto, sono sempre stato figurativo!
Non c'è volontà da parte mia di essere ermetico o di utilizzare codici poco scrutabili, pretendo che tutto sia riscontrabile, qualsiasi cosa, un gesto, un oggetto di scena, un vestito…
Artext - Come rielabori Il montaggio (anacronismo) dell’Atlante Mnemosyne di Warburg che citi?
Ad esempio questa recente esposizione a Roma a Zoo/Zone Art Forum lo ricorda..
L.P. Ormai credo che sia un dato assunto il modo di allestire le idee alla maniera di Warburg.
Per me ha molta coerenza perché è conforme a un mio immaginario che utilizza l’immagine in maniera spasmodica. Fare raccolta di immagini, di scritti, di suggestioni o oggetti, non è differente dall’arredare o allestire uno spazio. Se hai visto il lavoro che ho fatto a Roma con le immagini dei santi che vengono a far parte dell'installazione, avrai notato che per me è una questione veramente innata, quasi ancestrale... In casa dove abito a Porto Cesareo (casa di mia nonna) è esattamente così, non esiste un angolo dove non c'è un santino, una statuetta votiva, una madonna, dei fiori. E' sempre un modo di riallestire uno spazio in funzione di una religiosità che è molto invasiva e barocca, se consideri un’idea condivisa di white cube che va per la maggiore.
L'arte di moda va in questa direzione, nel lasciare tutto intatto, e cercare di essere meno incisivi possibile. Io provengo da un pensiero barocco, probabilmente, non come stile architettonico, ma proprio per un certo tipo di comportamento, di eleganza, di modo di parlare e porre determinate questioni. Io credo che l'uomo del sud sia Barocco per conformazione, e quindi se vuoi, questa idea di accatastare immagini su immagini è qualcosa di molto atavico.
Warburg ha codificato questo modo di essere plurali nella ricezione, ne ha fatto una metodologia, un punto distintivo della ricerca.
Lu Cafausu, La festa dei vivi (che riflettono sulla morte), quinta edizione, 2014, Otranto (LE).
Foto Luigi Negro.
Artext - Hai qualche teoria al riguardo dell’esistere…
E’ recente “La festa dei vivi (che riflettono sulla morte)”
In una data il 2 novembre: visibili e invisibili, si ritrovano camminando, dal tramonto verso l’alba.
L.P. Esistere, non esistere.
Sono argomenti molto complessi in realtà, per svariati motivi.
Io credo di essere, come uomo, uno che si porta dentro determinati momenti, anche della vita degli altri e delle esperienze della mia vita. In un paio di anni ho perso mia nonna, mia madre e adesso a distanza di pochi mesi da questi dolori, sta per nascere mio figlio. Questi sono momenti che fanno l'esistere di una persona, ti formano e senti di essere un tramite tra "le generazioni". Anche il mio essere felice all'interno di una casa che è stata di mia nonna, di mia madre e adesso mia, mi rende consapevole di tutti i passi che ho fatto fin ora, sia quelli per allontanarmi da li, sia quelli per ritornarci. Ho lascianto la mia casa, la mia terra, i genitori e tutti gli amici, cercavo una dimensione differente da quella in cui ero protetto e adesso dopo molti anni, quello che voglio è una forma di appartenenza agli antenati. Un luogo dove sono riconosciuto come figlio dalla comunità. Credo di essere un tassello della storia, in qualche modo. La microstoria entra nella macro storia.
Artext - Come costruisci i “tableaux”, il contesto così da innescare una reazione
estatica, emozionale, critica? Attraverso altre immagini e altri testi..
L.P. Di recente ho discusso molto di questa cosa con una studiosa francese che sta scrivendo un libro sulla storia del "tableau vivant". Partiva da dove cercare una nascita di questo mezzo, in determinati atteggiamenti dell’happening e della performance intesa non come spettacolo, ma come qualcosa di altro che ha a che fare con il costruire un’idea, attraverso altri strumenti tra cui l’immobilità.
Quando penso a un mio lavoro, lo immagino sempre senza pubblico, non cerco e non mi aspetto alcuna reazione.
Siamo qui nella libreria di Pietro e Maddalena, gli organizzatori di CastelloInMovimento. Quando ho realizzato con Maurizio Vierucci In hoc signo vinces al castello di Fosdinovo, abbiamo lavorato moltissimo, giorno e notte per giorni interi, ma nessun essere vivente ha visto niente, nonostante ci fossero tutti gli artisti in residenza, tra cui Goshka Macuga (che però ha partecipato alla performance) e il curatore Juan Gaitan (direttore dell’ultima Biennale di Berlino) con la compagna Maria Ines Rodriguez, anche lei molto brava. La performance è stata realizzata per due bambini dipinti, abbiamo trovato due quadri nelle sale del castello che raffiguravano un bambino e una bambina antenati dei Malaspina e sono diventati il pubblico della performance, gli unici spettatori a vedere il risultato di tanta fatica. Questo per tanti che si affannano per apparire potrebbe sembrare pura follia, ma c’è una volontà ferrea da parte mia che va oltre le convenzioni dell’arte.
Artext - La presenza dello spettatore è ininfluente.
L.P. Non cerco di fare spettacolo. Non voglio essere il centro dell’attenzione di un pubblico annoiato e poco attento.
Il mio interesse verso lo spettatore non è finalizzato a fargli provare buone o cattive sensazioni, la mio priorità è riuscire a fargli compiere quello spostamento necessario affinchè si senta parte integrante di quell’epifania che ho macchinosamente messo in piedi. Se ci deve essere un pubblico voglio che sia più pulito possibile, pulito da infrastrutture ricettive o come lo chiamo io sguardo viziato: quell’attenzione verso un'opera d’arte che ha subito condizionamenti di vario tipo, come può essere con quale galleria lavora l’artista, quali curatori lo sostengono, quanto costa, che mostre ha fatto…
Quello che mi interessa maggiormente e che tutto quello che arriva dall'opera sia puro e lo spettatore sia pronto a ricevere questa purezza senza alcuna costrizione, senza distrazioni o clamore di folle armate di fotocamere.
Artext - C'è un'adesione completa all'azione, benché l'osservatore possa non essere presente.
L.P. Per me è totalmente indifferente, io lo accolgo con molto piacere nel momento in cui mi viene richiesto dal committente. Se non ho queste esigenze del committente (di fare i numeri), a me come artista non cambia nulla. Non muta il mio atteggiamento, tutta la costruzione mastodontica per realizzare il lavoro, tutti gli strumenti, l’allestimento della scena, le luci, i costumi, preparare gli attori, il fotografo, il video operatore…
E' una costruzione incredibile che dura mesi per preparare una performance e non è la presenza del pubblico che giustifica tutto questo lavoro. Non sono centomila persone che fanno di tutto questo lavoro, un’opera.
E la performance, è il risultato finale, la messa in atto delle idee.
La fotografia o il video, sono esattamente una traduzione del risultato finale.
E' nell’atto performativo che si concentra tutto il frutto dello studio, se anche non ci fossero foto o video, comunque la performance ha visto la luce, è emersa, ha avuto un suo esistere; per due bambini o cento persone o per dei pavoni, in ogni caso è avvenuta.
Testimoniare il suo avvento fa parte della traduzione che gli si vuole dare, per rendere possibile la visione a che non c’era o gli è stato impedito di esserci.
Come artista devo pormi il problema di tramandare il mio “messaggio”, non posso essere così egoista da pensare di fare tutto solo semplicemente per me e la mia vanità. Quello che lasciamo in qualche modo modifica quello che verrà dopo, si tratta di responsabilità.
La sepoltura di Adamo (Le storie della Vera Croce), 2012, performance per un gabbiano morto,
litoranea Porto Cesareo – Torre Lapillo (LE). Foto Francesco G. Raganato.
Artext - Hai delle fonti a cui attingere … relative o inesauribili?
L..P. Bisogna partire dalle fonti.
Non mi piace essere ermetico, il mio lavoro viene spesso visto come visionario e non lo è assolutamente.
Ogni volta che utilizzo una fonte è mio dovere dichiararla nella maniera più assoluta. Nel senso che qualsiasi riferimento a qualsiasi cosa deve essere dichiarato.
Tutto ha un'origine e va ritrovata nelle fonti.
Sto lavorando da tre anni su Le storia della vera croce, e quella è una fonte fondamentale e inesauribile. Da lì si dipanano tutta una serie di informazioni e di approfondimenti che non fanno parte di quella fonte specifica, ma che arricchiscono l'opera e la rendono attuale, senza essere un’ennesima traduzione degli scritti. Rispetto anche all’iconografia per esempio, non sto lavorando a Le storie della vera croce seguendo l'iconografia né di Piero della Francesca, né di Agnolo Gaddi o Luca Signorelli.
Non sto a rifare cose del passato con mezzi moderni. Il mio ruolo, anche in questo caso, è di aggiungere una coscienza differente, che non è quella dell'uomo del Trecento o del Quattrocento. Vivendo una mia temporalità, credo di essere un tramite tra queste pietre miliari del passato e l'epoca che stiamo vivendo.
Traduco con uno sguardo del nostro tempo un modo di pensare le storie e la narrazione.
Anche la composizione dell'immagine stessa mantiene una costruzione medievale. Abbiamo sempre una scena in cui, i personaggi, senza parlare raccontano delle storie e lo fanno con mezzi altri, non con le parole. Con determinati atteggiamenti, con gli oggetti, mettendo in relazione questi tra loro, o attuando forme di dialogo che si creano tra le figure mute, la narrazione si compie così come negli affreschi del trecento e del quattrocento, dove avviene anche un dislocamento temporale di tutto quello che accade. Molto spesso si vedono nella stessa scena, diversi momenti di un determinato avvenimento che si svolgono in contemporanea e lo spettatore riesce a mettere insieme una storia seguendo l’andamento dell’accaduto. Questa lezione storica importantissima che io utilizzo, mi consente di far dialogare i vari “pezzi” dell’impianto scenico.
Artext - Perché questo interesse per il medioevo....
L.P. Per la rappresentazione in simboli o allegorie, ma anche per un approccio metafisico nel racconto.
Artext -. In seguito l'invenzione della prospettiva trattata come forma simbolica richiederà
un punto o più di uno... Mi chiedo allora se nel tuo lavoro c'è un punto sorgivo...
così da trattare i prodotti della coscienza e la stessa come uno strumento....
L.P. E' una questione complessa: se ci deve essere un punto di fuga o al contrario un punto da dove nasce la visione, questi sono due aspetti di una controparte che guarda un centro...
E' molto complesso determinarne l'esistenza e non è detto che debba essere io a scoprirlo
[risa]
Maurizio Vierucci (Oh Petroleum) e Luigi Presicce, 2013, Castello Malaspina, Fosdinovo (MS).
Foto Dario Lasagni.
In hoc signo vinces (Le storie della Vera Croce), 2013, performance per due bambini dipinti,
Castello Malaspina, Fosdinovo (MS). Foto Daniele Pezzi.
Artext - Di alcune sostanze o qualità : spazio, accadimento e sfondo –
in riferimento al recente lavoro “Allegoria astratta dell'atelier del pittore…”
quali le analogie e relazioni reali con lo spazio, il tuo studio, la progettazione del lavoro?
L.P. Non è una visione specifica del mio reale. E’ uno stato emotivo che può essere quello dell’artefice, del demiurgo. Nel momento in cui avviene la creazione e si forma un’immagine non solo mentale e il pubblico viola questo momento di nascita, distogliendo l’attenzione del demiurgo dall’opera. È un’invasione di campo non prevista, qualcosa che non ci deve essere e quindi nell’accadimento il pittore si blocca; si blocca in questo suo gesto che seppur meccanico, porta in se il seme dell’opera. Questo sentimento credo sia riscontrabile nell’opera di riferimento che è “L’atelier del pittore” di Courbet. Il vero titolo è incredibile: “Allegoria reale che fissa una fase di sette anni della mia vita artistica e morale”. Courbet è in un momento in cui vi sono accadimenti nella sua vita, che fanno si che si percepisca questo suo malessere. Si trova di fatto all’interno di una folla in un momento davvero santo della creazione. Nel momento in cui dovrebbe essere solo con la musa e il modello, c’è un disturbo della scena che è quella della collettività che lui mette in piedi sullo sfondo e allegoricamente fa parte di un turbamento, probabilmente di una società che impone determinate regole e che l’artista nel suo lavoro sta cercando di evolvere non dico di cambiare ma di evolvere.
Questo è anche il guardare un impianto accademico della scena e cercare nel gesto di rinnovare non solo le arti, ma la società.
Artext - E delle qualità specifiche del fondo, di un'opera-ambiente senza orizzonte
L.P. Si, la questione di avere o non avere un orizzonte è molto importante. Una storia può essere finita o infinita se solo ci si relaziona allo spazio che la contiene. È ancora il discorso sulla fuga…
Probabilmente, lo sfondo deve essere quell’inaccessibile, quel castello inespugnabile, nel quale
lo spettatore entra per altre volontà che non sono le sue.
Se hai avuto anche tu questa percezione nel vedere l’opera (Allegoria astratta…), sai che arrivi da un contesto esterno che ha dei tempi comunque molto differenti rispetto a quello che accade poi all’interno della scena. È come un entrare in un'altra realtà per poi riuscirne con questa visione che si è fermata all’interno della retina e che ti porti appresso anche nella tua realtà.
Artext - Si sta imponendo una nuova volontà, ovvero l’uscita dal mercato galleristico e dalle costrizioni museali per imporre nuovi modelli e modalità sistemiche – che in parte tu hai sperimentato.
Come rimodulare categorie quali Bellezza Potere - temi quali il mito dell’artista, la divisione del lavoro nell’arte e quindi l’autorialità. Il valore…
L.P. E’ una domanda complessa, perché c’è un assunto che è un sistema dell’arte con le sue leggi e poi tutto il resto.
Ma tutto il resto esiste, a prescindere del sistema dell’arte, del quale molto spesso ne ignora l’esistenza o procede su nuovi percorsi senza rimarcare le impronte già calcate.
Ci sono artisti, uomini che hanno dedicato la loro esistenza all’arte, pur non facendo parte di nessun meccanismo di sistema. Allora dovremmo pensare che quella non è arte o che quella esistenza è stata vana? Semplicemente perché uno non è mai entrato nelle grazie delle gallerie, dei musei o dei critici?
Io non sono, forse, la persona adatta per poter affrontare determinati argomenti, per scelta ho evitato di entrare all’interno di un meccanismo fagocitante e sono andato a giocare nel campetto di fianco con le mie prodezze e i miei sbagli.
Ho iniziato da pittore rapportandomi con le gallerie e vendendo il mio lavoro sin da subito, a vent’anni, quando avere vent’anni era una cosa anomala (i giovani artisti italiani ne avevano quaranta).
Dopo questa mia entrata a gamba tesa nel mercato dell’arte, ho preferito altro. Sono certo di non essere una pedina, o una moneta di scambio, di non avere protettori da deludere, ma neanche gente che si strappa i capelli per essermi amica.
Credo che il mercato cambi molte cose e in determinate circostanze sia questo stesso a prevalere sul valore concettuale di un'opera.
Luigi Presicce, Kiss (Danilo), 2003, acrilico a fresco su tessuto, cm 50 x 70.
Luigi Presicce, S.T. (Mariangela), 2001, acrilico a fresco su tessuto, cm 50 x 90.
Artext - La tua sembra l’Autobiografia di un mestiere misterioso', che produce presenza dalla sparizione –
Nel tratto dal significante al significato, evidenzia una sostituzione temporanea
che fa vivere il luogo in un flusso vitale che attraversa (persone e cose)
Mostrarsi o esporre si pone come momento di analisi di questa operatività?
L.P. Si può affermare che la funzione di filtro è particolarmente evidente nella produzione delle mie opere. Esiste tuttavia anche un guardarsi dentro, un cercare risposte che possono venire solo dall’aver esperito determinati avvenimenti. Ci tengo però a precisare che questa non è una riflessione sull’identità dell’artista e il suo essere opera anzi trascende da tutto ciò.
La mia immagine non significa il mio lavoro.
Non plasmo l’idea su me stesso, cerco sempre di restarne fuori, per aver maggior contatto e una visione completa. Non credo che il mio lavoro sia riconoscibile dalla mia faccia (…che tra l’altro non si vede praticamente mai), credo che abbia una sua autonomia, principalmente perché ci sono determinati impianti costruttivi che fanno del mio lavoro qualcosa di riconosciuto e riconducibile al mio pensiero.
Attraverso le immagini si vede quello che studio, quello che conosco, probabilmente, quello che voglio condividere, dei miei studi o della mia conoscenza che rimetto in circolo.
Può essere fondamentale discutere di un aspetto del mio lavoro che è quello della presunta autorefenrenzialità. A questo proposito sarebbe interessante porre una domanda: può esistere una mia opera senza di me? Un’opera scritta può essere realizzata anche se io non ci fossi? Io credo certamente di si, in fondo la scrittura racchiude esattamente una forma personale di visione probabilistica, che anche sotto la mia diretta direzione può mutare e alterarsi.
Ci sono delle scelte nella scrittura e quelle scelte fanno l’opera; se una creatura viene partorita da un coccodrillo, non può sembrare un elefante. Credo che alla base ci sia anche un dna intellettuale al quale l’opera si affida per poter somigliare all’autore.
I significanti nel mio lavoro acquistano un valore simbolico che diventa significato, la struttura narrativa si posa sui significanti e l’esatta loro collocazione è il messaggio. Riporto una frase di Ulay: “l’estetica senza etica è cosmetica”.
Il messaggio viaggia nel tempo, si fissa nella retina dello spettatore attraverso l’esperienza. Il contributo che lo spettatore può dare è appunto quello di muovere un invisibile che altrimenti non si sposterebbe mai.
Nella visione viene acquisita una nozione di spazio e tempo che sovrapposte creano una struttura leggibile. Di questa griglia si nutre lo spettatore e su questa inscrive il suo vissuto e lo riporta fuori nel mondo reale al quale apparteneva prima e al quale apparterrà anche dopo la visione.
Artext - Fai dei sogni elettronici.. virtuali e coscienti?
L.P. Ho un particolare rapporto con il sonno e mio lavoro. Molte delle cose che penso si sposano in un momento di dormiveglia, quando vado a letto o mi risveglio alla mattina e rimango in quello stato di sonno che è tutto costellato da scintille. In questa fase le informazioni si sposano o ricevono una maggiore dominazione da parte di una volontà sopita che riemerge con violenza. Quando studio, non riesco a collegare quello che voglio, non riesco a costruire un solo pensiero che abbia la forma di un’idea. E’ inutile anche sperare di poterlo fare coscientemente, tutto viene da sè nel momento in cui decide che sia il momento giusto e questo momento è il dormiveglia. Un altro dispositivo per attivare l’automatismo è il camminare per lungo tempo o la corsa. Utilizzo spesso questa forma di meditazione, in questa fase riesco a elaborare, a creare connessioni tra quello che ho studiato. E quindi lì si forma il pensiero. Molte opere sono nate così, quasi tutte direi. Non nasce niente a tavolino, se uno si mette lì e ragiona, sono stimoli che vengono da un automatismo che forse io stesso ho creato. Questo è il mio metodo.
Firenze 2014
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