SELFIE secondo Richard Dupont
Nel mese di Ottobre 2013 su una delle più note e utilizzate applicazioni con cui scattare e condividere immagini, Instagram, erano oltre 140 milioni le foto postate con l’hashtag #me.
Un numero impressionante e a distanza di un anno sicuramente cresciuto in maniera esponenziale che riesce a testimoniare soltanto una parte del fenomeno del Selfie, ovvero, di quella necessità di autorappresentarsi, qui e ora, che ha contagiato molte persone in ogni angolo di mondo.
Una necessità primariamente narcisistica che nasce da quel continuo desiderio di affinare e migliorare la nostra immagine verso gli altri. Nello stesso anno, a certificare la sua ormai piena accettazione, selfie è entrata come nuova occorrenza nell’Oxford Dictionary: “fotografia che una persona ha fatto di se stessa, normalmente con uno smartphone o una webcam, e poi ha pubblicato su uno dei social media". Da questa possibilità di poter sempre e in ogni luogo accedere a un veloce e sempre pronto autoscatto, si è originato un flusso continuo di volti e facce, accomunate dalle stesse stereotipate espressioni, ora raccolto essenzialmente sul web, dando così vita alla più grande galleria in cui è esposta l’ossessione più tipica del nostro tempo: il voler presentarsi più come “vorremmo essere” che come siamo in realtà.
D’altronde una cifra del contemporaneo è il continuo riarticolare la nostra identità, un’esigenza cui siamo chiamati per generare nuove narrazioni del sé e del sé con gli altri. Tuttavia, questa ridefinizione del sé dovrebbe avvenire nel passaggio da un’esperienza all’altra, attraverso il nostro rapporto con il mondo, facendo ‘fare palestra’ anche al nostro cervello e non soltanto al nostro corpo, come ci dicono le neuroscienze. La nostra vita comincia, si sviluppa e finisce cercando di scoprire chi siamo, combattendo per afferrare e affermare la nostra identità. Un’affermazione che non avviene semplicemente con la manifestazione continua e sempre nuova della nostra immagine. L’identità non è soltanto questione di scatti o di voler apportare modifiche al proprio corpo anche con le più aggiornate tecniche della medicina chirurgica.
Alcuni commentatori e studiosi riconducono, forse troppo velocemente, il fenomeno del selfie al genere dell’autoritratto fino a individuarne la paternità nelle polaroid di Andy Warhol, non a caso anch’esse caratterizzate da una tecnica che permetteva la pressoché istantanea visione dell’immagine (in questa relazione forse influenzati anche dal formato quadrato ripreso proprio da Instagram e da altre applicazioni di fotografia digitale).
Ma siamo sicuri che la questione stia proprio così? Giacché la capacità di autorappresentarsi è problema ben più complesso del fare un’artificiale immagine di sé o del dare una semplice certificazione di presenza sulla pubblica piazza elettronica.
Gli artisti conoscono bene il monologo interiore e l’intima pulsione necessari per ritrarsi. E di ciò ne abbiamo giusta e ineguagliabile testimonianza a Firenze dove da 350 anni, ovvero, da quel 1664 in cui Leopoldo dei Medici inizia l’eccezionale e sistematica collezione, gli Uffizi conservano e raccolgono la più vasta raccolta al mondo di autoritratti di pittori e scultori; un cospicuo corpus di opere che dalla modernità giunge fino ai nostri giorni, dove questo genere sembra aver ritrovato una nuova attenzione e nuove forme superando la tradizionale iconografia del mezzo busto. Un genere frequentato dagli artisti, quello dell’autoritratto, che ha superato tutti i tempi, ha segnato una costante nella storia dell’arte e, che ben più di una moda, sa raccontare la vera e propria evoluzione della ricerca dell’io in ogni epoca.
Se nel ritratto appare essenziale che quanto dipinto debba essere somigliante al soggetto, nell’autoritratto è tollerato un ampio grado d’incertezza perché questo è prima di tutto un prodotto d’immaginazione e di memoria.
Entrambi potrebbero essere paragonati a una mappa che sappiamo non rispecchiare bene le caratteristiche complete del territorio che presenta, o meglio rappresenta. Soltanto che il ritratto è più simile alla mappa che teniamo in mano e guardiamo per orientarci, mentre l’autoritratto corrisponde alla mappa di noi stessi prodotta dal cervello.
In questo caso non c’è un io distinto che legge guarda e, eventualmente, produce; tutto avviene dentro di noi, “il mio cervello – scrive la filosofa e neurobiologa Patricia S. Churchland – fa ciò che fanno i cervelli e non c’è un io distinto che legge le mappe del cervello.”
Se oggi queste mappe è possibile guardarle, e in un futuro poterlo fare ancora meglio, è grazie allo sviluppo della tecnologia digitale in campo biomedico con cui è possibile correlare la nostra attività cerebrale scansionata, in cui si colorano differentemente alcune aree, con la nostra esperienza soggettiva. Una possibilità che offre maggior trasparenza rispetto al nostro corpo percepito oscuro e impenetrabile ma che però produce anche una nuova e inedita chiusura in quanto la scansione sarà direttamente la nostra esperienza soggettiva, con buona pace per coloro che continuano a credere, anche secondo la tradizione filosofica e non solo religiosa, nel ruolo dell’anima come origine del pensiero, percezione, speranze, sogni, decisioni e sentimenti, come a suo tempo aveva ritenuto Cartesio cadendo in errore.
In una tale prospettiva l’idea dell’autoritratto quale accesso privilegiato dell’anima, almeno secondo l’opinione comune recuperata da un’idea romantica, non si adatta più alla nostra epoca.
Richard Dupont @ Eduardo Secci Contemporary Firenze Istallation
In questo grande gioco del rappresentare se stessi appena descritto, dal selfie alle nuove tecnologie come la tomografia computerizzata, passando ancora una volta per l’autoritratto, che da sempre accompagna la nostra storia, Richard Dupont entra a tutto tondo e compie un passo laterale, così come si richiede a un artista. L’approfondita e articolata analisi del suo corpo, o di altri frammenti anatomici dello stesso come le mani, che caratterizzano i suoi lavori esulano dall’effetto di una ricerca che aspira alla diretta rassomiglianza del soggetto per fare prima di tutto un’opera che ritrova la sua autonomia formale e una memoria.
Nel suo caso quella digitale, liquida e facilmente manipolabile attraverso i software, che dal 2001 è all’origine di tutto il suo percorso come unica matrice, dopo averla acquisita tramite l’intera scansione del suo corpo realizzata presso una base militare statunitense. Un modo diverso di prendersi carico del proprio corpo, che avviene nello stesso anno in cui termina il progetto della mappatura del genoma umano, e quindi quando si assume la piena consapevolezza da parte della comunità scientifica che l’informazione biologica è codificabile in maniera digitale, manipolabile e potenzialmente riproducibile. Dupont sembra cogliere immediatamente la possibilità di poter vedere e misurare il nostro corpo in maniera totalmente differente rispetto al passato e non perde occasione per aprire dei nuovi spazi in cui s’incrociano dispositivi avanzati di elaborazione digitale e tensioni creative.
La nozione di corpo creata sulla nuda referenza d’immagini nate dalla tecnologia post-oculare, ovvero il poter guardare oltre la capacità dell’occhio fissandone un’immagine, introduce l’idea di organismo e fa del corpo un oggetto. Ma il corpo-cosa che conosciamo attraverso questi dispositivi di imaging non è un’altra realtà ma la stessa presente in un’altra modalità. Una modalità che Dupont coglie per porre in questione le fantasie e le filosofie dominanti che fissano il nostro essere e danno origine alle nostre identità. La possibilità che il nostro si trova davanti, grazie al suo corpo-cosa digitale, è quella di potersi smontare e rimontare, di funzionare come un’eterna dissolvenza, di scomporsi e ricomporsi.
Ma è anche la modalità per continuare a sperimentare intorno alla scultura avvalendosi ancora una volta delle più avanzate tecnologie come la stampante 3D con cui realizza buona parte delle sue opere. La sua idea di scultura è basata sul divenire, sulla mutazione e sul duttile, caratteri che ritrova nei software che utilizza, così come nei materiali. In Bifurcated (2007) un corpo senza testa appare nelle sue estremità dilungato, delineato da piani sghembi e aperture curvilinee.
Se non fosse per la cultura cinematografica di cui siamo intrisi tanto da farcelo apparire come un personaggio uscito da qualche film di fantascienza, potrebbe sembrare anche una figura manierista per quella sua bizzarria nelle forme. Forme che sembrano lasciarsi andare, accettare la sfida del materiale come succede nelle grandi teste della serie Going Around by Passing Through (2013-2014) che pendono dalla parete, e che non sono riconoscibili come invece è la testa di Medusa che penzola dal braccio alzato del Perseo nel capolavoro manierista di Benvenuto Cellini, visibile a Firenze sotto la Loggia dei Lanzi.
In questo caso Dupont oltre a riprendere la tradizione iconografica dell’uomo scorticato, che si ritrova anche in un disegno di Gaspare Becerra, autore delle tavole dell’ “Anatomia del corpo umano” di Juan Valverde de Amusco, e prima nel michelangiolesco San Bartolomeo della Cappella Sistina, sembra ritornare all’Häutung (1984) di Joseph Beuys o alle esperienze della seconda metà degli anni sessanta di Richard Serra, Robert Morris e Bruce Nauman quando appendendo diversi materiali, tra questi feltro e gomma, lasciavano che assumessero una loro naturalità di forma.
Non era altro che un modo per continuare a indagarla e arricchirla di altre desinenze. e
Una modalità, quella dell’appendere a parete materiali morbidi, che appartenne anche a Oldenburg e ai suoi oggetti, basti pensare a Soft Ladder, Hammer, Saw and Bucket (1967). In un’intervista con Rosalind Krauss del 1973 Oldenburg racconta della somiglianza che i suoi oggetti hanno con lui, con la sua pelle, con il suo corpo. Ogni oggetto di Oldenburg può essere quindi inteso come un autoritratto. Così come lo è per Dupont.
Non c’è bisogno di riconoscere il viso nell’autoritratto contemporaneo, anzi sua caratteristica sembra quasi quella di occultare volto e testa. Ruolo importante lo giocano i frammenti e tra questi le mani che da sempre crediamo siano un’altra espressione in cui poter leggere i sentimenti. Nella serie di disegni intitolati Biometry (2014), ancora una volta Dupont non fugge dalla storia ma la attualizza enfatizzando sul foglio di carta effetti da pittura astratta con quella fine retinatura dal colore nero, rosso, blu e viola che è propria della geometria del perimetro del corpo derivante dalla scansione. Un effetto che evoca la tridimensionalità e che ancora una volta rimanda all’oggetto corpo o, in alternativa, alla sua immaterialità su uno schermo. Schermo come limite, superficie, confine tra noi e il mondo, è la nostra epidermide, che se stampata con le nuove tecnologie si trasforma in paesaggi lunari o in superfici dal forte aspetto materico avversando, però, ogni imperfezione come avviene in DEM (2013) o in The Last Invocation (2013).
Fare arte, come fare scienza, non significa abbandonare la presenza, il modo di mondanizzarsi, ma adottare nel mondanizzarsi un’ottica diversa per meglio analizzare i fenomeni. Con un unico selfie, Dupont procede non nel realizzare la semplice riproduzione di se stesso ma nel dispiegare differenti tracce, a partire da se stesso, che rappresentano una possibile evoluzione culturale che influenza il senso dell’identità e dell’io nella nostra società.
( Marco Bazzini)
Firenze 2014
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