L'intuizione cieca
Prendo le mosse da una considerazione squisitamente fenomenologica. Il movimento implica evidentemente il tempo. Come negarlo? Né possiamo negare di essere tempo in ogni fibra del nostro essere, del quale si è soliti sottolineare la fragilità proprio per evocarne la radicale sottomissione al tempo che tutto consuma. Possiamo però fare anche un’altra constatazione, altrettanto evidente, sebbene in apparente contraddizione con la precedente. Il tempo è scorrimento, è successione, è flusso. Noi siamo tempo e che cosa fa il tempo? Ebbene, il tempo scorre. Ma, chiediamoci, dove scorre quel tempo che noi indubitabilmente siamo? La filosofia è sempre stata turbata da questo domanda. Kant, sul quale dovremo tornare, osservava giustamente che "non è il tempo che scorre, scorre qualcosa del tempo, scorre il mutevole del tempo. Il tempo non scorre. Sono le cose che scorrono nel tempo". Il turbamento della filosofia è più che mai giustificato.
La concezione kantiana è la concezione predicativa del tempo. Direi che è la concezione “classica”. Dalla sua ha la autorità di Aristotele. Il tempo, in ultima analisi, è un predicato di qualche cosa, di un sostrato, di una sostanza che, appunto, “diviene”. Ma se ci chiediamo dove scorre ciò che scorre, se ci chiediamo dove scorre il mutevole, dove scorre, ad esempio, il mio corpo che ahimé invecchia, dove cambia incessantemente il mio corpo, la risposta che dovremmo dare a questa domanda è una sola ed è una risposta assolutamente problematica.
Ciò che scorre, scorre nel presente. E' nel presente che scorre tutto ciò che scorre. E' nel presente che io registro l'invecchiamento del mio corpo. Ed il presente nel quale scorre tutto ciò che scorre, ebbene tale presente, a ben considerarlo, non scorre affatto. Non può scorrere. Il presente è il luogo dove tutto scorre, ma il presente – al pari del letto del fiume - non scorre.
Il presente è il luogo dove tutto è dato – dove è dato il mio passato, dove è dato il mio futuro, dove mi sono date le mie speranze, i miei rimorsi e le urgenze che devo sbrigare adesso. Ne consegue che il presente è anche l'orizzonte dal quale io non posso mai fuoriuscire. Provate a raggiungere i confini del vostro presente, provate a uscire dal presente! Vi accorgerete che state cercando di saltare al di là della vostra ombra. Voler raggiungere e oltrepassare i confini del presente significa comportarsi come il bambino delle fiabe che vuole raggiungere la pentola d'oro all'inizio dell'arcobaleno. Evidentemente, mentre mi sposto porto i confini dell’orizzonte con me, sempre alla stessa insuperabile distanza.
Il presente come tale non passa. Esso è il luogo originario (ed immobile) in cui tutto ciò che è, mi è dato - e mi è dato nell'unico modo in cui è possibile che qualcosa si dia - mi è dato, cioè, di fronte (come og-ggetto). La parola latina “obiectum”, la parola italiana “oggetto ", e con ancor più forza quella tedesca “Gegenstand, vuol dire ciò che mi sta di fronte. Nel presente che non passa, tutto ciò che è dato, mi è dato come oggetto, mi è dato, insomma, come qualcosa che mi sta di fronte, secondo una relazione che è la relazione soggetto-oggetto.
Questo presente ha una natura che il filosofo definirebbe con l'aggettivo assoluto. Assoluto vuol dire non relativo a... Questo "Evento immobile" che è al fondo di ogni mobilità è assoluto perché tutto è relativo a lui, senza che lui sia relativo a niente. Lui è as-solto, sciolto da ogni relazione. Proprio in questo presente Cartesio poneva il suo famoso cogito. Il cogito cartesiano non è alla prima persona dell’indicativo presente per caso. Il cogito cartesiano è al presente perché il presente è il luogo dell'assoluto, di ciò che non passa ed in cui tutto è dato. Io, infatti, posso pensare questo e quello, posso dubitare di quello che vedo e di quello che sento, niente di ciò che è dato si sottrae alla potenza del dubbio, ma non posso in alcun modo dubitare del fatto che sto pensando e che sto dubitando. Non posso dubitare di stare facendo quello che sto facendo, cioè pensare, anche se il contenuto di quello che sto facendo è senz’altro dubbio. Il cogito mi installa in un presente assoluto ed imprescindibile dal quale non posso mai fuoriuscire. Se ne evadessi entrerei in una contraddizione che non è logica ma performativa.
Come posso uscire da ciò che non ha fuori? Eppure accade che ne fuoriesca. Non vi esco però come "io". “Io” è infatti un campo di presenza intrascendibile. Eppure qualcuno mi ha detto che in quel campo di presenza ci sono entrato e il venir meno dell’altro mi fa supporre che lo dovrò anch’io abbandonare. Sono nato e dovrò morire. Nascita e morte hanno a che fare con questo paradossale raggiungimento di un confine che non si potrebbe mai raggiungere dal punto di vista logico e che di fatto non si raggiunge mai (qui hanno origine le rassicurazioni di Epicuro…). Hanno a che fare cioè con un trauma, con una ferita, con una frattura, con qualcosa che incrina il piano di questo presente assoluto nel quale, in quanto soggetto, è evidente che io sono già da sempre e che vi resterò per sempre. Logicamente io non morirò mai, così come non sono mai nato. Del resto la morte è il futuro che denota una possibilità pur sempre possibilità. E la nascita la pensiamo sempre al participio passato: sono sempre già nato. Nessuno è contemporaneo alla propria nascita così come non lo sarà alla propria morte. Il presente è immobile, è l’evento immobile in cui tutto ciò che scorre scorre e niente altro. Il presente è eterno.
Questa eternità è claustrofobica. Il presente è la gabbia dalla quale non posso uscire per quanto mi agiti. Tutto è dato in esso, ma tutto è dato in esso a condizione che questo presente assoluto non sia mai dato a se stesso. Esso deve restare invisibile al fondo di ogni visibilità. Se infatti anche il presente si facesse og-getto, se anch’esso ci stesse di fronte come tutti gli altri oggetti del mondo (che mi sono dati in esso) resteremmo intrappolati in quel famoso paradosso che minaccia la filosofia fin dal suo atto di nascita e con il quale la filosofia non ha mai cessato di misurarsi. È il paradosso del regresso all'infinito. Perché se anche il presente fosse dato a se stesso allora non si cadrebbe in un circolo vizioso. Occorrerebbe, infatti, un altro presente nel quale il presente mi fosse dato, e così via all’infinito. Come la macchia cieca che rende possibile la visione senza poter essere a sua volta oggetto di visione, anche il presente è fondamento senza poter oggetto della riflessione. E' questo il grande problema della riflessione, dello statuto del cogito riflessivo, che da sempre tormenta i fenomenologi.
Ora, rispetto a questa situazione claustrofobica, paradossale e aporetica, che cosa scopre la psicoanalisi? E perché oggi la psicoanalisi - e soprattutto la psicanalisi lacaniana – costituisce una frontiera del pensiero speculativo? In questi due o tre anni mi sta capitando sempre più spesso di dovermi misurare da filosofo con tematiche lacaniane. Lacan torna continuamente fuori. Non è un caso. Attraverso Lacan, la domanda che chiede che cosa scopre la psicoanalisi trova infatti una risposta speculativamente seducente. La scoperta freudiana è ovviamente quella che tutti conosciamo: è la scoperta dell'inconscio. Che cosa sia l’inconscio è questione sterminata per la quale non abbiamo né il tempo, né il modo, né io le competenze necessarie per rispondere. Tuttavia l'inconscio ha un senso immediatamente comprensibile.
“Inconscio” significa ciò che è assolto dalla relazione alla coscienza, ciò che vige al di fuori del soggetto, comunque si intenda questo vigere. Con “inconscio” si intende la scoperta di un territorio. Tale territorio l' ultimo Lacan lo chiamerà "reale" e lo distinguerà dagli altri due registri – il simbolico e l'immaginario – che hanno caratterizzato il suo primo insegnamento. Lacan nell’inconscio freudiano individua un territorio che ha una caratteristica “morfologica” che ad un filosofo non può non apparire subito straordinariamente seducente ed intrigante. È un territorio che si trova al di fuori da quella correlazione originaria che lega ogni ente a quell'ambito di presenza nel quale tutto mi è dato. L'inconscio nomina un reale senza correlazione, un reale che sussiste in qualche modo prima della coscienza o a lato di essa. Un territorio situato fuori, veramente fuori, da quell'orizzonte che nella premessa del mio discorso è stato posto come intrascendibile. Fuori dall’assoluto del presente vivente. Fuori dall’assoluto, vale a dire fuori da ciò che si definisce come non avente alcun fuori!
Anzi, la psicoanalisi compie un passo ulteriore. Essa pone la coscienza, la presenza a sé, il cogito, come qualcosa di postumo rispetto a questo reale. Lacan insiste su questo punto, Lacan lavora molto sulla parola object, oggetto, e dice che l'inconscio è oggetto, ma oggetto in psicanalisi non significa ciò che sta di fronte, non significa Gegenstand. Ob in latino, è preposizione che con l’ accusativo, significa “a causa di”. Rimanda a ciò che viene prima e che causa. L'inconscio è causa, non oggetto. Non è ciò che ci sta di fronte nell'aperto della luce, non è oggetto dato al soggetto, non è manifestazione. Per questo, poi, la psicanalisi è una scienza diversa da tutte le altre. Perché tutte le scienze sono tali dal momento che presuppongono un oggetto, un ambito dell’ente di cui sono scienza regionale, e si strutturano secondo la relazione soggetto-oggetto. Ogni scienza ha un oggetto e si rapporta a questo oggetto nella modalità di un oggetto che sta di fronte. Ma l'oggetto della psicanalisi - l'inconscio - non è oggetto, non sta di fronte. L’inconscio è causa: causa del desiderio e causa della coscienza.
Per chiarire la natura di questo scoperta, che ha molto a che fare con l'esperienza artistica, ed in particolare con determinate operazioni cosiddette “concettuali” che vengono condotte oggi soprattutto nell'ambito della pratica video, occorre fare riferimento ad un passo famosissimo del filosofo che inaugura in qualche modo la modernità. Mi riferisco ovviamente a Kant. All'inizio della nostra epoca, Kant ci dice che la conoscenza umana ha due radici: sensibilità e intelletto. Sensibilità significa intuizione (non avendo l’uomo in quanto essere finito nessuna capacità di intuizione intellettuale). Intuizione vuol dire conoscenza sensibile, conoscenza ricettiva. Concetto significa, invece, conoscenza intellettuale, attività spontanea. L’unico modo che abbiamo per rapportarci al mondo esterno è attraverso i sensi. La sensibilità è una delle fonti indiscutibili della conoscenza, ma essa funziona sempre insieme al concetto, insieme alla spontaneità del concetto. La conoscenza umana è perciò una sintesi a priori, è correlazione di intuizione sensibile e di concetti. Solo così la conoscenza umana ha un oggetto e può aspirare alla universalità e alla necessità.
Possiamo ora citare la frase di Kant, che si trova nella seconda parte della Critica alla ragione pura nella introduzione alla logica trascendentale. È una frase celeberrima, che da sola riassume in qualche modo tutta l’epistemologia della contemporaneità (è il credo dei moderni). Kant dice che pensieri senza intuizione sono vuoti - e quindi toglietevi dalla testa di produrre una metafisica, vale a dire una conoscenza razionale a priori della natura, perché non possiamo immaginare pensieri che non abbiano un contenuto sensibile, il pensiero deve sempre riferirsi alla esperienza – e aggiunge subito dopo che però anche l’intuizione senza concetto è cieca.
L'intuizione, insomma, non è mai vergine, l'intuizione è sempre mediata e ora sappiamo da cosa: essa è mediata, dall'intuizione pura di spazio e tempo, dalle categorie tramite lo schematismo. È sempre mediata perché altrimenti non vedrebbe, sarebbe, come infatti egli dice, cieca. Ora io vorrei soffermarmi proprio su questa ultima espressione di Kant, troppo spesso data per scontata e considerata ovvia nel suo significato: Le intuizioni senza concetto sono cieche. Kant sta forse qui dicendoci che un’intuizione che non sia mediata dal concetto, che cioè non sia mediata dal soggetto trascendentale, che non sia, quindi, il risultato di una costruzione, è una non-intuizione? No, ci sta dicendo proprio quello che effettivamente dice, e cioè che una simile intuizione è “cieca”. Ora, che cosa è un'intuizione cieca?
Lacan può risponderci. Nel Seminario XI, racconta un episodio legato alla sua esperienza di giovanotto avventuroso impegnato in una partita di pesca in Normandia. Qui si trova insieme a dei ruvidi pescatori su una barca. Ad un certo punto un suo compagno di viaggio gli indica una scatoletta di sardine galleggiante in mezzo al mare. Questo signore, il cui nome è Giovannino, rivolgendosi a Lacan, gli dice con tono ironico: vedi, caro Jacques, la vedi quella scatoletta di sardine? Si, la vedo , risponde Lacan. E Giovannino risponde: ebbene lei non ti vede. E si mette a ridere. Lacan racconta che l’osservazione giocosa di Giovannino non l’aveva affatto divertito. Ne era rimasto anzi turbato. Se infatti la scatoletta non mi vede, argomenta Lacan, dal momento che il non vedere è una espressione difettiva che concerne un mancato rapporto nella visione in atto, una cecità dell’intuire, questo significa che quella scatoletta mi guarda ma non mi vede, che c'è cioè un guardare che non è un vedere qualcosa da parte di qualcuno (tecnicamente: c’è un guardare che non è coscienza di, che non è intenzionalità d’atto o, detto più semplicemente, c’è coscienza ma non c’è intenzionalità)
Ebbene, quando noi usiamo l'espressione kantiana di intuizione cieca, che cosa intendiamo? Intuizione cieca è sicuramente un guardare, perché intuizione vuol dire rapporto, intuizione vuol dire in qualche modo sguardo, ma è un guardare non mediato dall'oggetto e dal soggetto, è un guardare che non ha più il “mondo” come suo orizzonte. L’intuizione è cieca quando guarda ma non vede.
L' intuizione cieca ci rimanda ad una nozione di immagine che è veramente problematica e che mette a soqquadro tutta la nostra estetica (soprattutto la nostra estetica trascendentale). Su tale nozione di immagine, che, come vedremo, ha il suo battesimo in Bergson, lavorano Lacan e Deleuze, in particolare il Deleuze degli scritti sul cinema. Ed è tale immagine che è al centro di tante sperimentazioni dell'arte contemporanea, soprattutto quando questa si affida al dispositivo fotografico e alle sue derivazioni cinematografiche e video. L’intuizione cieca di Kant ci rimanda infatti ad un tipo di immagine paradossale, che taglia definitivamente i ponti con ogni passato figurativo (connesso cioè all’esercizio della “raffigurazione”).Cioè ad una immagine che non è immagine di niente e che non è immagine per nessuno. Una immagine che è pura immagine in sé. Ci rimanda cioè ad un visibile che è senza oggetto, che non è visione di qualche cosa, e che, al tempo stesso, è una visione senza soggetto.
Ora, tutte le volte che parliamo di visione riferiamo la visione a quel famoso presente di cui parlavamo prima. Visione come coscienza di vedere qualcosa. Visione come intenzionalità. Visione come “essere nel mondo”. Quella scatoletta di sardine, proprio come l'intuizione cieca di Kant, rimanda invece alla possibilità di una immagine che non soltanto è senza oggetto, ma che è anche senza soggetto (senza coscienza, senza intenzionalità, senza mondo). Rimanda ad una immagine che esiste in se stessa. Lacan aveva ragione ad essere turbato dalla inconsapevole saggezza del pescatore Giovannino!
Vorrei citare, a questo proposito, una nozione paradossale ma fecondissima di “materia” che è stata elaborata da Henri Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria e che è stata ampiamente discussa e ripresa da Gilles Deleuze per provare a spiegare il materialismo profondo del cinema: è la nozione di materia intesa come “insieme di immagini che esistono in se stesse”. Non posso approfondirla in questa sede, ma se ne ha una idea proprio muovendo da quanto si è appena detto a proposito della intuizione cieca di Kant. Materia-immagine significa infatti che c’è un campo, un campo visibile, dove si presenta però una visibilità che non è la visibilità di niente e di nessuno.
Per dare concretezza a quanto altrimenti apparirebbe solo come una astrazione speculativa, si può fare un esempio, un esempio che mi ha sempre affascinato moltissimo. Di nuovo dobbiamo tornare a Freud, a quel Freud che nel corso di tutta la sua esistenza teorica non ha mai rinunciato ad una idea che al senso comune non può che sembrare completamente assurda, vale a dire all'idea della cosiddetta “scena primaria”. Freud ne discute, tra l’altro, nel celebre caso clinico dell’Uomo dei lupi. All’origine di una nevrosi fobica ci sarebbe un trauma che Freud ricostruisce durante l’analisi. Un bambino di un anno e mezzo si alza nel cuore della notte e vede i propri genitori che stanno facendo l'amore more ferarum. Naturalmente un bambino ad un anno e mezzo, che cosa può mai saperne di un coito more ferarum? Assolutamente niente. Tuttavia quello in quella fatidica occasione (non) vede, quello che insomma guarda senza vedere, deciderà la sua esistenza futura di nevrotico. Solo a quattro anni elaborerà in un sogno quello che ha guardato senza vedere: è il famoso sogno dei lupi. E poi in occasione di una nevrosi che lo attenderà nel tempo rielaborerà ulteriormente quella scena. Solo a quattro anni di distanza comincerà insomma a vedere indirettamente, attraverso un sogno, quello che aveva guardato senza vedere. Il sogno elabora una intuizione cieca!
Ora capite bene che una affermazione di questo genere è veramente paradossale. Freud radica l'esistenza stessa di un soggetto in una visione che dobbiamo supporre priva totalmente di autocoscienza, perché il bambino non intende affatto quello che sta vedendo. Non lo sa. Lo saprà dopo, “posteriormente”, con un effetto nachträglich. Il bambino indubbiamente “guarda”. C'è una immagine dipinta nella sua retina, come se una fotografia fosse stata scattata automaticamente, ma è l'immagine di niente e non è l'immagine di nessuno. È un segno, o meglio una traccia, senza interpretante. Eppure quella scena primaria decide una esistenza. Quello che accade, dice Freud, è l’avvenimento di una iscrizione, di una traccia o di una registrazione, che precede la sua significazione, il suo voler-dire. Quello che avviene, in altre parole, è un trauma che produrrà senso solo après-coup, un senso per altro sempre rivedibile, solo probabile, che non potrà mai sottrarsi al dubbio cartesiano (come è testimoniato anche dalle esitazioni dello stesso Freud nell’interpretazione della vicenda dell’uomo dei lupi). Si imprime una traccia la quale farà i suoi effetti posteriormente.
E quella traccia è veramente una fotografia intesa nel senso originario, nel senso etimologico della parola, è una impressione pura, non prodotta da mano d’uomo (acheropita), che si è prodotta “automaticamente”: inscrizione senza coscienza, che ha avuto luogo fuori dal presente vivente dal quale sarebbe logicamente impossibile fuoriuscire! Una inscrizione che comincerà a diventare un significato solo quando il bambino, a quattro anni, si sognerà la scena dei lupi senza ovviamente intenderne ancora la portata (che gli sarà rivelata solo dall’analisi). Insomma, più vecchio dell’assoluto del cogito c’è l’assoluto del fuori, al quale attinge una specie di dispositivo automatico che trasgredisce i confini del “mondo” umano.
Per rendere credibile tutte l’eziologia della nevrosi ,dobbiamo supporre che all'origine del fatto cosciente, all'origine delle nevrosi, all'origine dei problemi che subentreranno poi, all'origine insomma del “romanzo famigliare” di questo nobile russo che si era rivolto a Freud per cercare di capire le ragioni della sua nevrosi, vi sia una scena assolutamente primaria. Non una rimozione è la causa prima della nevrosi. La rimozione avverrà infatti dopo, quando questa immagine sarà stata elaborata nel sogno dei lupi. Il sogno, come il sintomo nevrotico, è già una rimozione di quella immagine fotografica.
All'origine, come causa, dell'intera vita cosciente di un individuo e di tutte le rielaborazioni posteriori di quella scena, vi è dunque una scena veramente paradossale. Una scena preistorica che non ha né spettatori né copione. Una immagine pura - in sé, direbbe Bergson - che funziona come causa, rispetto alla quale la coscienza si costituisce posteriormente (ma anche l’inconscio inteso come luogo del rimosso viene dopo).
Freud lo ricorda sempre. La coscienza, i processi consci, sono, scrive, “secondari”. O ancora: la coscienza subentra al posto di una traccia mnestica. Prima c'è la traccia mnestica, una sorta di memoria senza io e senza ricordo. La coscienza, il sistema del riconoscimento e anche quello della rimozione, dice Freud viene aprés coup, a posteriori, dopo, come una sorta di effetto postumo. Originariamente c'è una immagine pura senza soggetto, senza oggetto. C'è veramente lo sguardo vuoto della scatola di sardine che ha turbato il giovane Lacan nei mari agitati della Normandia. Prima c’è il reale.
La questione che io pongo è allora la seguente: non è forse tale visibilità anonima, una visibilità senza oggetto né oggetto, l'utopia del cinema come arte materialistica?. Non è essa che ritroviamo agente nell’ontologia dell’immagine fotografica di Bazin o nel piano sequenza infinito, nel cinema come scrittura della realtà, di cui parlava Pasolini in Empirismo eretico? Non è forse questo ambito che precede il presente assoluto della coscienza quello che, in qualche modo, il dispositivo fotografico ed il dispositivo cinematografico riescono ad attingere, esautorando il più possibile l’occhio umano (l’occhio che vede), sostituendosi alla sua intenzionalità, surrogando di meccanismi la percezione quasi volessero annullarla, mettendo in questione ogni demiurgia, irridendo infine il principio stesso della creazione artistica (l’”opera” di un uomo)? Non è forse la possibilità materiale, tecnica, di uno sguardo che non vede, la praticabilità di una intuizione cieca, quello che veramente attrae, come una falena di fronte alla luce, chi oggi si affida sempre di più a questo genere di dispositivi?
Secondo Deleuze le cose stanno proprio così. La grande pittura, secondo lui, ha sempre sognato il cinema (Bazin ha ben chiara questa connessione nel suo saggio sull’ontologia dell’immagine). Il cinema dà a quel sogno una possibilità materiale, almeno là dove può estrinsecare la sua potenza. Esso riesce a trasformare l'occhio dell'uomo nell'occhio della materia (il cine-occhio di Vertov, ad esempio) e a dare consistenza sensibile a quel sogno di assoluto.
Allora – e concludo – dove sta l’interesse della psicanalisi freudiana e lacaniana per le questioni che stiamo sollevando? Tornando a Freud, dicevamo che Lacan ha scoperto il reale fuori dalla coscienza, e lo ha scoperto come causa. E ha scoperto il simbolico - il grande Altro - non come origine ma come (sintomo) postumo rispetto a questo reale. L’inconscio strutturato come un linguaggio viene dopo questo reale. Il simbolico in qualche modo è una risposta alla insorgenza del reale
E quando Lacan fa riferimento alla pulsione, quando fa riferimento a quel “godimento” – che gode oggi di una pessima stampa, perché il mio amico Massimo Recalcati ne ha fatto (anche con ottime ragioni) la cifra della corruzione italiana – introduce nel piano teorico un elemento decisivo che non può lasciare insensibile il filosofo. Il tema della jouisssance come lo tratta Lacan è fondamentale perché la pulsione, essendo totalmente non figurativa, essendo totalmente fuori dalla dimensione della luce, al di là della estetica trascendentale, oltre il segno e il suo voler-dire, essendo qualche cosa che sta prima di tutto questo, indica il radicamento originario del soggetto nella materia-immagine. Attraverso il godimento il soggetto tocca insomma qualcosa di inumano, di non-umano (e perciò, se visto con gli occhi del mondo, anche di dis-umano). Il patto stipulato tra sensibilità e intelletto, tra ricettività e spontaneità, che, secondo Kant, fondava la conoscenza, nel godimento si scioglie. E attraverso la pulsione, nell’intuizione cieca, nel dispositivo cine-fotografico, tocchiamo il limite in un certo senso dell'e-sistenza, tocchiamo quel punctum di extimité in cui l'esistenza umana smette di essere umana e forse smette anche di essere e-sistenza, cessa cioè di essere trascendenza, Dasein, in der Welt sein. In quel punto comincia anche la veggenza.
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