CON TITOLO E SENZA
(I'opera intitola il titolo che intitola I'opera)
Ogni fregio nasconde ciò che adornando, copre…
…. tutto ciò che è profondo ama la maschera….
Friedrich Nietzsche
Racconta Gerard Genette(1) che, interrogato un giorno a proposito del titolo che intendeva dare a una scultura appena terminata, Hans Arp rispose:
"Forchetta o Buco di culo, come vi piacerà di più" ...
La questione del titolo, improponibile quando l'artista lavorava su commissione, resta di scarso interesse nei casi in cui quest'ultimo, mantenga una mera funzione descrittiva, limitandosi a sancire una sorta di genere cui l'opera afferisce (" paesaggio", "natura morta" ecc.) mentre assume rilievo soprattutto quando tende esplicitamente ad arricchire, rivelare o contraddire, ciò che l'opera o l'autore offrono allo sguardo ma, per così dire, celano alla vista.
Schematizzando potremmo asserire che, nella 'storia' dell'arte occidentale, ad un primo periodo in cui titolo e soggetto antecedono la firma, ne fa seguito uno di segno opposto, che vede progressivamente delinearsi la preminenza dell'autore e che concorre a creare le condizioni per la possibilità stessa della nominazione dell'opera; sarà, infine, la paradossale apertura decostruttiva di questa stesso processo, a favorire, in anni relativamente recenti, l'opzione del senza-titolo: una forma di nominazione che, contrariamente a quella distintiva del titolo, si impone quasi esclusivamente nel campo delle arti visive.
Jacques Derrida, (2) ricorda che titulus ha significato, in senso primitivo o etimologico "un'iscrizione ... visibile e leggibile, che incide una superficie o un supporto", segnalandoci così l'impossibilità di un titolo privo di un luogo d'iscrizione:
"Nessun titolo senza spaziatura ... senza la determinazione rigorosa di un codice topologico che" fissi "delle linee di bordatura". Prossimo al bordo, né dentro né fuori dell' opera, il titolo resta "sospeso sui suo stesso nome": la locuzione titolante lascia infatti "innestare sul suo senso un senso supplementare che si legge così: questo è un titolo, io sono un titolo"; anche quando non possieda "la forma grammaticale di un nome" ogni titolo, "produce un effetto nominale" che unifica e permette di identificare l'opera. In breve il titolo è ciò che fa sì che quest' ultima faccia valere il suo diritto all'esistenza e al riconoscimento: una sorta di battesimo autoriale che ne autorizza e legittima la circolazione.
E il Senza titolo?
Sarebbe necessario domandarsi se, nell'economia della sua ellissi, anche il cosiddetto Senza titolo sia in grado d'assumere quella "struttura di nome proprio" ...
Prima pero di imbarcarci in questa paradossale questione appare necessario analizzare più da vicino il ruolo che lo stesso titolo recita nelle arti visive, poiché, contrariamente a quanta avviene ad es. in letteratura, qui esso avvicina e mette in comunicazione due regimi discontinui e, per certi versi contraddittori: quello verbale e quello iconico, la trasparenza della parola e l'opacità dell'immagine. Sulla scia di Lessing e della tradizione dello specifico modernista, che hanno accreditato l'idea di una netta separazione tra il leggibile ed il visibile, alcuni ritengono, infatti, che accompagnandosi al titolo o alla didascalia, l'immagine indebolisca la propria intrinseca polisemia e che l'ancoraggio denominativo fornito dal titolo rischi di vanificare, attraverso un sottile dispatching, ogni interrogazione sul senso e ogni potere proiettivo dell'immagine.
Ma le cose sono davvero cosi?
Qualcosa di diverso se non di opposto sembra accadere in quelli che Foucault ha chiamato i "calligrammi disfatti" di Magritte, di cui il famoso Ceci n'est pas une pipe - tracciato con grafia scolastica sotto l'icona di una pipa - pare inaugurare la formula. "I titoli - asserisce Magritte - sono scelti in modo tale che impediscano di situare i miei quadri in una regione familiare, che l'automatismo del pensiero non mancherebbe di suscitare al fine di sottrarsi all'inquietudine", gli fa eco Foucault (3) che sintetizza:" Magritte nomina i suoi quadri ... per tenere a bada la denominazione".
Spesso inventati a posteriori da altri, i titoli dell'artista "si inseriscono nelle figure dove la
loro presa era se non segnata almeno autorizzata anticipatamente e vi assumono un ruolo ambiguo: zeppe che fanno star su, termiti che rodono e fanno cadere" (4).
Robert Rauschenberg, Disegno di De Kooning cancellato, 1953
Ma quand'anche i titoli forniscano una precisa indicazione sulla 'lettura' dell'opera non è detto che perciò stesso svolgano una funzione limitante. Per dare un'idea della posta in gioco ci limitiamo ad alcuni esempi: come ci avvicineremmo a Disegno di De Kooning cancellato, 1953, di Robert Rauschenberg, o a Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini, 1967, o, infine, a Piss Christ,1987, di Andreas Serrano, se queste opere fossero proposte nella loro nudità, prive di titolo e di qualsiasi ulteriore indicazione? La ricezione ne risulterebbe irrimediabilmente minata o perturbata: come distingueremmo infatti l'opera di Paolini da una semplice riproduzione fotografica su tela dell'opera di Lotto?
Cosa differenzierebbe il Disegno di De Kooning cancellato da un qualsiasi altro foglio bianco che mantenesse tracce di un'avvenuta abrasione? Ci accosteremmo allo stesso modo all'opera di Serrano se si intitolasse genericamente 'crocefissione'?
In questi, come in altri casi, il titolo entra a far parte dell'opera, si rivela cioè indispensabile alla sua comprensione ed al suo stesso funzionamento. Qui, infatti, un esterno che non è semplicemente un fuori e un interno che non è semplicemente un dentro, concorrono a inaugurare un'inedita dimensione dell'opera: qualcosa di simile a ciò che Lacan chiama estimità, un dentro/fuori capace di produrre un effetto di scorniciamento che proietta l'opera oltre la dimensione visiva.
II titolo non si limita a svolgere un ruolo delimitativo simile a quello della cornice, non serve cioè solo a contornare ed a presentare ma anche, e soprattutto, a indirizzare la 'ricezione'.
La questione richiama, direttamente, la problematica derridiana del parergon (5): il titolo diviene infatti "un misto di-dentro e di-fuori ... un di-fuori che e chiamato all'interno dal di-dentro per costituirlo nel suo interno ... ".
Il parergon, prosegue Derrida, riferendosi alla cornice fisica del quadro, ma crediamo che l'asserzione possa valere allo stesso modo per i casi in cui il titolo diviene indispensabile alla ricezione, "iscrive qualcosa che è in più, qualcosa di esteriore al terreno proprio ... ma la cui esteriorità trascendente ... non interviene nel suo interno che nella misura in cui l'interno
manca. Manca di qualcosa ed e insufficiente a se stesso".
L'incorniciatura (del titolo) diviene, allora, conditio sine qua non, supplemento necessario che "sostiene e contiene ... ciò che, lasciato solo, crollerebbe subito".
Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967
Lorenzo Lotto, Ritratto di giovanetto, 1505
Vanificando ogni presunta istanza riduttivamente identificativa il titolo acquisisce una evidente funzione concettuale che concorre alla genesi stessa dell'opera. Riferendosi al proprio lavoro, Giulio Paolini dichiara (6) infatti: "l'immagine non porta integralmente il senso di ciò che rappresenta.
Questo è distribuito fra il titolo, le note d'accompagnamento e l'immagine stessa ...
Quello che mi interessa non è dare all'immagine una destinazione esclusiva, ma donare al quadro la struttura di un possibile. Mi succede allora di cercare qualcosa come un elemento complementare dell'immagine.
Lo trovo a volte nel titolo, a volte in piccole note che accompagnano il mio lavoro.
Non bisogna comprendere questi elementi né come didascalie né come una interpretazione dell'opera, ma come una via parallela all'immagine, altrettanto fondamentale di quella".
A proposito di Giovane che guarda Lorenzo Lotto, allo stesso tempo semplice riproduzione di un'opera preesistente e straordinaria riflessione e mise en abyme dell'idea stessa di ritratto, Paolini precisa, esplicitamente: "La chiave è nel titolo mi piaceva restaurare il momento in cui il Lotto dipingeva questa quadro e trasformare per un attimo tutti quelli che guardano la riproduzione fotografica in Lorenzo Lotto", questa evidentemente non è, però, che una parte della verità di un'opera che si nutre di un vertiginoso ribaltamento di prospettiva per riflettere e restituire il nostro sguardo. II rovesciamento a cui ci invita l'artista è tutto di natura mentale: come in un ready made duchampiano il senso dell'opera non riposa qui, sulla qualità dell'immagine proposta ma, evidentemente, sull'operazione che la sostiene; Paolini ricorre infatti non a una copia ma al medium fotografico (7) e lo sottolinea (optando per una stampa in bianco e nero), la foto, barthesiana emanazione del referente, diviene una sorta di doppio del quadro che ci raggiunge come il raggio differito di una stella (8).
II baricentro dell'operazione si colloca fuori dall'immagine: nel rovesciamento di prospettiva annunciato dal titolo, che appare capace di trasformare il nostro guardare in un essere guardati.
L'artista, scrive Maddalena Disch, "esce di scena" per invitarci ad "assumere il suo ruolo ... In veste di controfigura dell'artista siamo autori di un'immagine: siamo autori delle sguardo che si inscrive in essa, o meglio che inscrivendosi in essa produce la copia visibile di una visione (già consumata).
L'opera infatti ci riguarda: il giovane di Lotto ci restituisce lo sguardo che presiede alla sua immagine. Giovane che guarda Lorenzo Lotto è un'immagine moltiplicata dell’ ‘originale' che riproduceva quel giovane che nel 1505 guardava colui che lo stava ritraendo: l'opera come ben sappiamo, non (di)mostra il modello, ma una copia speculare dello sguardo che lo porta a portata del visibile. L'artista che sostituisce il proprio sguardo a quello del modello [...] riconosce nello sguardo del ritratto il proprio sguardo. Lo sguardo cioè che e inscritto in ogni immagine e che la costituisce come tale (come copia del modello assente): lo sguardo che ha 'visto' il modello e che nel tentativo di renderlo 'visibile' consente ad un altro sguardo di immaginarlo. Ritraendo il proprio sguardo, l'artista si guarda nell'istante in cui trasforma il modello in immagine.
Misura la distanza che sempre lo separa dall'autenticità tangibile di quel modello: sperimenta la realtà della rappresentazione" (9). La potenzialità di rovesciare come un guanto la posizione dello spettatore e dell'autore, implicita nella straordinaria invenzione di un titolo (10), diviene
la ragione stessa di un'opera che, riposando sulla realtà irreale della fotografia e, dunque, sulla congiunzione illogica che si instaura tra qui e un tempo (11), inaugura un gioco di specchi senza fine, assolvendo concettualmente il delicato compito di traghettare lo spettatore oltre l'aspetto puramente visivo dell'opera.
Vincenzo Agnetti Autoritratto, 1971
Se - come sottolinea Genette - "è attraverso il paratesto ... che il testo diventa libro e in quanto tale si propone ai suoi lettori", possiamo asserire, parafrasandolo, che è attraverso ; il titolo (e la firma) che, in epoca moderna e post-moderna, l'opera diviene opera.
Costituendosi come una sorta di 'soglia', il titolo istituisce infatti tra l'opera e il suo fuori non solo una zona di transizione ma anche di transazione. Erodendo sempre più i confini che separano opera ed operazione ed avvicinando il regime iconico con quello linguistico, gli anni Settanta del 1900 arriveranno a fonderli: due movimenti coevi e contrapposti il pop ed il concettuale, giungeranno, sia pur per vie diverse, come nota Michel Gauthier (12) "ad accreditare il puro testo come quadro: uno sostituendo il testo-concetto all'immagine e l'altro trasformando, la parola, l'enunciato in icona"; due percorsi che com'è ovvio non sono privi di ricadute sul nostro tema.
Come misurarsi infatti con due opere: Ritratto, 1970-71 e Autoritratto, 1971, di Vincenzo Agnetti: pannelli di feltro su cui sono rispettivamente stampate le frasi: "QUANDO TI VIDl NON C’ ERI", "QUANDO MI VIDl NON C’ ERO" se non come con due quadri, per così] dire, "dimenticati a memoria"?
Una lista pressoché infinita di nomi ed opere potrebbe essere stilata per illustrare questa duplice e contraddittorio commercio fra icona e parola: dai Data Paintings di On Kawara alle scritte al neon di Bruce Nauman alle icone Campbell di Andy Warhol ecc., c'e tuttavia un nome che, in questa prospettiva, si impone, per il suo ruolo anticipatore, quello di Edward Ruscha: pensiamo alle sue grandi tele degli inizi anni 60 (Large Trademark with Eight Spotlight, Boss, Electric, per esempio) che sostituiscono direttamente la parola alla figura a ai suoi Liquid Words che "mostrano la parola minacciata nella sua integrità letterale e significante, ma sublimata nella sua presenza plastica" (13).
L'introduzione della parola nel quadro si risolverà in molti casi in quadri-titolo: la parola o la frase, accampandosi sulla tela acquisteranno, secondo un'anticipatrice intuizione di Magritte, la "stessa sostanza" dell'immagine (14), finendo per assolvere contemporaneamente alla funzione di soggetto, opera e titolo, e lo stesso avverrà per molte opere che pur rifuggono la forma-quadro come: Corner, 1968 a Image du ciel, 1978, di Maurizio Nannucci.
Crediamo che sia proprio in questa terreno di superamento del rappresentativo e del visivo che, in concomitanza can una mutazione genetica in senso astratto concettuale dell'opera, resa esplicita da Duchamp, ma operante, sottotraccia, sin dall'arte classica (15), inizi a delinearsi la possibilità stessa del senza titolo. Un senza titolo che non si oppone al titolo ma funziona come una neutralizzazione delle sue istanze identificativo-designative: una sorta di 'cornice' vuota che pur tuttavia non rinuncia al suo ruolo di cornice.
In questa prospettiva il senza del senza titolo designerebbe allora non un'assenza, ma una volontaria lacuna, una cancellazione, una titolazione bianca che sancisce una specie di rigetto a indirizzare lo sguardo e le aspettative dello spettatore, o, ancor più radicalmente, un'abdicazione dell'artista al proprio ruolo di artefice.
Un senza titolo che si propone, dunque, a tutti gli effetti, come un titolo renitente che sottraendosi alla sua stessa funzione, mima l'esemplare risposta del Bartleby melvilliano: I would prefer not to (preferirei di no)
Edward Ruscha, Adios, 1967
Funzionando come una designazione paradossale, una designazione vuota, la locuzione: senza titolo, giunge così ad occupare il posto del titolo senza occuparlo veramente e, pur non titolando niente, permette l'inizialità di un discorso che, per così dire, comincia senza essere cominciato.
Ma questa inizialità priva d'origine era anche uno degli elementi caratterizzanti, 'in positivo' e 'in negativo', di Giovane che guarda Lorenzo Lotto a di Disegno di De Kooning cancellato. Si affaccia allora il sospetto che, almeno in certi casi, il troppo del titolo ed il troppo poco del
senza titolo finiscano per avvicinarsi come avviene, sintomaticamente, in alcune opere di Nauman, Paolini, Morellet, Nannucci (16) ... che scaturendo da una sovrapposizione grafica a una messa in movimento apparente delle singole lettere del proprio titolo, danno vita a opere-titolo che complicano o raffinano la loro stessa possibilità di lettura, raggiungendo così la paradossale perfezione di un titolo intraducibile o, se vogliamo, di un senza titolo che non necessita più di dichiararsi come tale. Presi in un double bind, titolo e senza titolo finiscono qui, per proporsi come il recto e il verso di un'unica istanza che, come la porta di Duchamp
(17 Rue Larray), non può limitarsi ad aprire a chiudere ma deve, necessariamente, in un unico movimento, aprire chiudendo a chiudere aprendo, perché il rapporto tra dentro e fuori dell'opera non si da più come semplice rapporto di inclusione a esclusione.
Contrariamente a quanta potrebbe far pensare la grammatica, infatti, non è il titolo a intitolare l'opera ma l'opera a intitolare il titolo (anche nella particolare variante del senza titolo).
"II titolo - ha dichiarato del resto ed esemplarmente Paolini - interviene a siglare la definizione di un'opera che non ha altra certificazione che quella di essere, appunto, definita come tale. Interviene cioè a chiamare di volta in volta, con un nome sempre diverso, la stessa identica cosa" (17).
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