CBernhard-Rudiger  
 Bernhard Rudiger Manhattan Walk (After Piet Mondrian) - (NY2 Glockenspiel), Château des Adhémar, 2006 | DR
Saretto Cincinelli
Il museo come Set
 
 


Il museo come Set
E la smaterializzazione dell’opera
   

 


Sempre più spesso, a partire da Duchamp (dalla sua “Boîte en valise”, vero e proprio antimuseo trasportabile) gli artisti si misurano con il problema (1) , del museo (2); con sempre maggior frequenza, l’opera, tradizionalmente intesa, diviene ante-farro, pre-testo che trova la sua giustificazione ultima e la sua fisionomia definitiva attraverso la “documentazione”. Esemplare in quest’ottica il caso di Claus Gärtner, artista tedesco, che trasforma l’opera in un set da ripresa, destinato a scomparire una volta che di esso siano state tratte una o più immagini fotografiche. Soggetto esplicito del suo lavoro è l’opera al secondo grado: egli costruisce infatti maquettes di musei e spazi espositivi in cui allestire mostre personali con opere miniaturissate. Tutto questo lavorio costruttivo, di forte impatto illusionistico, rimane preliminare all’opera vera e proprie che si realizza poi attraverso il medium fotografico.
E’ come se il suo lavoro, muovendosi nel campo dei modelli, tralasciasse, paradossalmente, la fase della vera e propria realizzazione, per trasformarsi nell’esibizione di un esporre. Mise en abyme della scultura, la sua opera non si esaurisce però, nonostante il rilievo concessogli, nella fotogafia (trattata essenzialmente come mezzo di riproduzione adatto per la sua presunta obbiettività a documentare l’operazione) ma tende a trasformarsi in indagine concettuale sulla realtà dell’arte e sulla artificialità del reale. Non dobbiamo infatti dimenticare che le sue “sculture” installate in musei che non sapremmo definire in altro modo che “virtuali”, sono, non casualmente, materializzazioni in scala vertiginosamente ridotta di sezioni e frammenti di carte topografiche, in quanto tali, capaci di riattivare en abyme la dialettica tra modello e realtà consustanziale alla sua ricerca.

In un’analoga direzione si muove, già da qualche tempo ed in perfetta autonomia, anche Pedro Riz A’Porta, d’origine svizzera ma italiano d’adozione, che ha dedicato gran parte della sua ricerca alla messa in opera di un omonimo museo, in cui si sono tenute a tutt’oggi circa venti esposizioni.
Di che tipo di museo si tratta?
Ancora una volta siamo posti di fronte ad una maquette di modeste dimensioni: un unico ambiente che, a differenza di quelli di Gärtner non concede molto alle suggestioni architettoniche ed ai trope l’oeil. Nel corso degli anni, Riz A’Porta ha invitato alcuni artisti (Antonio Catelani, Aldo Trinci, Massimo Contrasto, Fabio Cresci, Bernhard Rüdiger ecc.) ad esporre in questo spazio; si è trattato prevalentemente di “personali”, inutile dirlo, non visibili, di cui resta però una tangibile testimonianza attraverso i video realizzati dall’artista, che documentano la “realtà” dei singoli eventi.
Anche qui, come nel caso di Gärtner, lo spettatore riesce difficilmente a decodificare la reale entità dell’avvenimento a cui sta assistendo via monitor, in entrambi i casi, infatti, l’illusione di reltà non è mai totale: non potrebbe essere altrimenti pena il decadimento di tutta lì operazione. Il craquelé della vernice sul pavimento di un “museo” di Gärtner, fortemente enfatizzato rispetto alla presumibile cubatura dell’edificio, l’innaturale asetticità del luogo ripetutamente proposto da Pedro Riz A’Porta ed altri segnali minimi ingenerano nello spettatore una sottile inquietudine: non si tratta di veri e propri dubbi sulla realtà dell’avvenimento di cui siamo testimoni ma di una sorta di indicibilità circa la natura delle immagini proposte.
Il crimine perpetrato da questi artisti – direbbe Baudrillard - non è mai perfetto, la loro opera può darsi infatti solo come traccia di questa imperfezione criminale.
Entrambe queste operazioni, attraverso una reduplicazione minuziosa del reale, più che giocare una partita illusionistica sembrano in realtà voler dissolvere ogni differenza tra reale e immaginario. Entrambe, per uscire dalla crisi della rappresentazione, si propongono di imprigionare il reale nella pura ripetizione, quest’ultimo però, attraverso i vari passaggi di medium in medium, necessari a condurre in porto lì operazione, corre il rischio di volatizzarsi.
Nell’ansia di liberare l’opera da tutti i condizionamenti possibili, compreso quello della legge di gravità, sia Gärtner sia Riz A'Porta corrono il rischio di fargli il vuoto attorno e di confinarla in una scena “ideale” in cui mancando l’attrito, le condizioni sono in un certo senso perfette, ma dove, appunto per questo, è impossibile muoversi.
Come ha osservato Baudrillard, “c’è puntualmente emorragia della realtà come coerenza interna d’un universo limitato, quando i limiti di quest’ultimo regrediscono all’infinito”.
Raddoppiando se stessa l’arte mette in scena una specie di simulazione tattica alla quale inerisce un godimento estetico che sembra trovare il suo inizio e la sua fine nella semplice scopeta della regola del gioco.
Se dunque, da una parte, queste operazioni rendono inevitabile il dubbio sull’eterna validità e sussistenza di ciò che appare, dall’altra, si aprono al rischio di un potenziale svigorimento dell’operazione artistica, in direzione di ciò che Salvatore Natoli ha chiamato “auto interpretazione attraverso la critica”. Rischiamo così di finire per confrontarci non tanto con la realtà del mondo quanto con la realtà del sistema dell’arte: luogo in cui gli scarti della norma, sono riassorbiti e livellati dal contesto e dalla limitatezza del suo ambito.
E’ questo un rischio a cui non sfugge del tutto neanche il progetto IAGO Gallery di David Renaud (con la collaborazione di Grazia Quaroni). Ancora una maquette che si offre però, secondo i promotori, come luogo di esposizione “à parte entière, malgré ses dimensions reduite”; si tratta della riproduzione in scala 1/5 di un appartamento esistente che vuole funzionare come luogo d’arte totalmente itinerante. Più che come scena quest’ultimo si offre come luogo di creazione e come punto di incontro; non si tratta più di costruire uno spazio ad hoc per sculture ed installazioni di volta in volta diverse o di opere realizzate appositamente per uno spazio preesistente, per quanto neutro, ma della copia in scala ridotta di uno spazio reale.
“La choix de la maquette est determiné – almeno secondo le intenzioni dei promotori – par une volonté de changer le fonctionnement tradizional d’une galerie, dans le sens d’un lieu d’exposition, plutot que par l’impossibilitè de disposer de locaux grandeur nature”. Ci pare che qui più che la scena sia l’assunzione della distanza della scena a divenire protagonista: non è infatti in attto nessun tentativo illusionistico, la maquette è offerta come tale ma i rischi connessi ad un indebolimento della portata dell’opera restano presenti e sono da ricercare, ancora una volta, nella preventiva limitazione che tutte queste proposte si auto impongono. Nella simulazione, infatti, dichiara come tale o meno, l’illusione metalinguistica raddoppia e completa l’illusione referenziale, come dimostra implacabilmente il pur suggestivo lavoro realizzato da Jarg Geismar per IAGO GAllery. “Patience is wisdom”..

 

1 – “..un’esposizione – non è certo il caso di dirlo – è lì a proporre degli oggetti, a offrirci delle immagini. Ma un’esposizione è anche a sua volta e in quanto tale, un’immagine, una cornice di tempo e di luogo, che delimita l’area che ci troviamo ad osservare..Tutto questo ci suggerisce una considerazione: è il nostro punto di vista e non l’oggetto (sempre uguale o destinato a diventarlo) è la traiettoria dello sguardo (sempre diversa o comunque irripetibile) che disegna, qui o altrove, lo spazio dell’esposizione, il luogo dell’opera, quel teatro di luce e di silenzio chiamato museo .. Giulio Paolini, “Locus Solus”, Genova, 1994.
2 - vedi “Le museé comme oevre et artefact di Andrea Miller-Keller in Les Cahiers du Museé National d’Art Moderne, 1989, hors série.



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