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- Vito Hannibal Acconci -

"

Vorrei progettare una città virtuale con le strade e le vie che esistono soltanto sul Web. Abbiamo progettato sempre luoghi dove la gente va, ma vorremmo progettare posti che si possono portare via, per la vostra testa o l'interno di essa"

 

 

Il mio lavoro non è iniziato nell'architettura.
Mi consideravo uno scrittore. Dalla fine dell'Università e per i cinque anni seguenti avevo preso a concentrarmi sullo spazio di una pagina, ma pensavo anche che quello che stavo scrivendo era possibile portarlo fuori dalla superficie di una pagina!
Si utilizzavano in quegli anni parole come "arte concettuale", era il 1968. E mi chiedevo una cosa abbastanza ovvia: che se mi interessava tanto " il movimento" - perché rimanevo su di un foglio che misurava appena 21x28 cm. Là fuori c'è il mondo - mi dicevo, c'è una città intera!
La realizzazione dell'opera -
"Following Piece"
fu un modo di lasciare lo spazio ristretto dello scrivere e portarmi fuori verso la città.
E quindi nel 69 ho cominciato a pensare al contesto in cui mi trovavo, e all'arte -
che forse non aveva delle caratteristiche particolari proprie, eccetto per la sua forza e per questo si chiamava arte.
E quindi l'arte era un campo in cui si poteva importare tutto dagli altri ambiti, dalla psicologia, la sociologia, dalla storia, le notizie quotidiane. E quindi entrava in un contesto in cui ogni mia composizione...
In fondo fino a quel momento io sapevo cosa stavo facendo: sapevo di dover scrivere su di un pezzo di carta -
Ma ero arrivato al punto in cui questo terreno non mi sembrava più utile e la mia nuova posizione era: ora che mi trovo nello spazio vero, quello reale, cosa mi spinge ad andare avanti - quali motivazioni nuove darsi?

Ho cominciato a cercare una ragione per proseguire.
Uno dei primissimi lavori in questa direzione è Following Piece del 1969 che faceva parte di una serie che si chiamava:
- Street Works -
Dunque - a diversi artisti era stato chiesto di fare un opera per la strada.
Nel mio caso ho deciso di scegliere come lavoro una persona che vi caminava a caso.
Ogni giorno dunque seguivo una persona - la seguivo, una persona diversa ogni giorno, fino a che non entrava in un luogo privato - la casa o l'ufficio. In realtà poteva durare due o tre minuti o in certi casi la persona saliva in macchina e tutto finiva lì. A volte riuscivo a seguire una persona per sette o otto ore, finché questi andava al ristorante, al cinema.
Dunque in quel periodo pensavo al lavoro in questo modo. Lo pensavo attraverso le condizioni che mi ero dato - Cioè che io di fatto come persona tendevo ad andare ad incidere su di un mondo presente cercando di lasciarvi la mia firma.

 

Voglio aprire una paretesi e spiegare perché mi sono messo a lavorare nel settore dell'arte utilizzando solo me stesso. Probabilmente questo mio pensiero è sucessivo al fatto di non voler più scrivere.
Naturalmente potevo scegliere un mezzo che sostituiva la pagina. Ma mi sono reso subito conto che se fossi arrivato al punto in cui la pagina non mi sarebbe sembrata più utile, a quel punto qualsiasi mezzo avessi scelto, in sostituzione, mi avrebbe portato alla stessa condizione di inutilità.
Di conseguenza invece di scegliere un altro strumento, un altro terreno su cui lavorare, perché non spostare la mia attenzione su me stesso, in quanto strumento - così che a quel punto potevo utilizzare qualsiasi situazione a disposizione..

Quindi ho cominciato a cambiare il centro dell'attenzione, ho cercato di concentrarmi sul mondo, per capire. Ed ho cominciato a concentrarmi su me stesso.
E mi chiedevo - come faccio a dimostrare a me stesso ed agli altri che mi concentro su me stesso? Un modo ovvio era applicare una certo stress su di me. Così una volta che il mio corpo è sotto tensione, il corpo certo si adatta a quella tensione - il corpo cambia, forse proprio a causa di tale tensione esercitata.
Dunque un tipo di concentrazione su me stesso!
C'è un film molto lungo degli anni settanta che si intitola - Conversion - Il film inizia nell'oscurità. Dopo qualche secondo appare una luce che si muove sullo schermo mentre diventa sempre più chiaro che questa luce è una candela. Una candela che io sposto davanti al mio corpo. Quando poi avvicino la candela al mio corpo - la telecamera fa un primo piano - sucessivamente si vede che brucio i peli sul mio petto - e poi piano piano mi tiro anche il torace, in un tentativo feudale di farmi venire il seno femminile.
Da qui il titolo del film - Conversion.

Vito Acconci

La cosa che mi interessava in queste opere era che si trattava di azioni basate solo su me stesso - Io mi ero necessario, mi bastavo - Bastava una candela e potevo utilizzare la mia persona per lavorare.
Il problema era che quando ho iniziato a vedermi in questa sorta di -
"auto-affidamento" - è diventato chiaro che si trattava per me di una forma di isolamento.
Ché quando io avvio un azione e questa finisce dentro di me, in realtà costruisco un cerchio chiuso intorno al mio corpo - E tutti gli altri, i potenziali spettatori esterni, diventano come dei voyeurs che guardano qualcosa che non dovrebbero vedere. Ho pensato che bisognava rompere questo cerchio, questo mio auto avviluppamento che costruiva come una cortina intorno.
E come fare a distruggerla?

Questa fase è iniziata nel 71.
Infatti in quell'anno ho realizzato un'opera che si chiamava - Claim - in uno spazio a due livelli: uno sul livello della strada e l'altro sotterraneo.
E quando le persone camminavano a livello della strada c'era un monitor accanto alla porta che riprendeva sotto, la zona sotterranea - così il monitor funzionava come una sorta di annunciatore per gli spettatori - per indurli a decidere se aprire la porta e scendere, sulla base di quello che si vedeva sotto, sul monitor.
Io ero seduto su di una sedia in fondo alla scala nel sotterraneo. Avevo una benda sugli occhi, avevo anche dei tubi di ferri. E parlavo costantemente a voce alta, ma parlavo a me stesso, e dicevo :
... sono qui da solo, nella cantina. Voglio rimanere qui, solo in questo sotterraneo. Non voglio che nessuno venga a raggiungermi. Voglio impedire a tutti di unirsi a me quaggiù in fondo - Sono qui da solo. Voglio restare solo..
Quindi utilizzavo quelle parole come una sorta di dispositivo di ipnosi, come una sorta di autoipnosi cercando di convincermi che questo spazio era mio. E tutte le volte che sentivo qualcuno scendere facevo roteare i pezzi di ferro nell'aria, un piede di porco... rivendicando per me tutto lo spazio.

 

Queste opere erano accenni di architettura, ma allora non me ne rendevo ancora corto. Una sorta di prototipo di casa privata! Direi.
Mi costruisco uno spazio per me e tengo tutti fuori..

A quell'epoca dunque visto che non mi occupavo ancora di architetrtura - la cosa che mi interessava di queste opere era che pensavo all'arte come possibilità di incontro, cioè come un sistema di scambio. L'arte era il modo in cui l'artista poteva venire faccia a faccia con persone, molto varie, che impersonavano gli spettatori.
La cosa che mi ha cominciato a disturbare era che vedevo in maniera signigìficativa il fatto che io mi mettevo comunque in un punto fisso nello spazio, e quindi allo spettatore in realtà, allo spettatore in quel caso, veniva chiesto di avvicinarsi a dei tubi di ferro e a dei piedi di porco, alla fin fine.

 

Ho pensato quindi che in quel momento dovevo creare una situazione di incontro - Ma l'incontro deve essere tra pari mentre tutto il lavoro che stavo svolgendo, in realtà confermava una sorta di gerarchia del mondo dell'arte in cui l'artista si trova ad un livello più elevato rispetto allo spettatore - mentre lo spettatore -
si deve dibattere per arrivare all'arte. E questo era tutto quello che io odiavo...l'arte in quanto religione, gli artisti in quanto preti, l'arte in quanto altare.
E ho cominciato a pensare che il mio lavoro non solo confermava questo, ma in realtà lo sottolineva.
Dovevo dunque risolvere questo problema definitivamente.
Il problema era quello della focalizzazione: se uno spettatore entra nello spazio,
io diventavo il punto centrale, ma se io non ero l'obbiettivo, non ero il target, ma ero solo un punto in questo spazio - e se cercavo di sparire nello spazio, se cercavo di diventare parte dell'architettura, dello spazio della stanza, cosa sarebbe sucesso?...
Questo tipo di pensiero mi ha portato a realizzare un opera nel 72 dal titolo -Seedbed -
In una galleria di otto metri di larghezza e di circa 14 metri di lunghezza - a metà stanza il pavimento diventava come una rampa, il pavimento si innalzava ad una altezza di circa un pò meno di un metro nel muro più lontano.
Vito Acconci

La rampa costituiva come una continuazione del pavimento e della pavimentazione. Il visitatore cammina sul pavimento, e senza pensarci più di tanto inizia a salire sulla rampa.
C'era una voce che da sotto il pavimento, da sotto la rampa che diceva qualcosa come... ti sto toccando i capelli, ti sto toccando la schiena etc..

Questa opera è stata fatta per circa due settimane, per otto ore al giorno. Per precisione diciamo che è stata tenuta attiva per due settimane. Ed ogni giorno dall'apertura della galleria alla chiusura - dalle dieci di mattina fino alle sei, io ero sotto la rampa, mi muovevo sotto il pavimento dove i visitatori stavano passando...
Il mio obbiettivo era masturbarmi - e per riuscire a farlo ho utilizzato proprio gli spettatori come fonte di ispirazione.
Seguivo i passi degli spettatori, avevo delle fantasie sessuali su questi passi.
Fantesie sessuali che facevano sì che io continuassi a masturbarmi.
Poi, ogni tanto arrivato all'apice pensavo - Uh.. ma forse lo fatto con loro... O forse me lo hanno fatto loro!..

 

Era questo un tentativo di unire lo spazio privato sotto il pavimento ad uno spazio più sociale e pubblico. Ci sono un paio di cose da dire rispetto a questa opera - Seedbed -
Si trattava di un lavoro vero, io lavoravo otto ore al giorno, dalla mattina alla sera in galleria. Lo dico perché non si trattava solo di tensione, ma di resistenza.
Ed anche se era un lavoro che non veniva pagato, sapevo cosa portavo avanti - o almeno sapevo cosa avevo promesso di fare.

Per quanto riguarda la - performance.. per così dire - c'è un problema sulla parola stessa su cui ho riflettuto molto.
Non mi piaceva il termine, perché la performance era associata comunque al teatro, e pensavo che in quello che facevamo noi doveva esserci qualcosa di diverso dal teatro. Quello che facevamo noi - in realtà, non era stato provato prima e non poteva essere fatto più di una volta.
Il significato della parola "performance" che io preferisco è nel senso di esibirsi. In realtà il termine a cui penso io è "eseguire un contratto" un qualcosa dal quale non si può tornare indietro (alquanto diverso da quello del fare.. ).

Una volta realizzata questa opera mi sono venuti una serie di pensieri - Mi sono detto: ma se nello spazio non sono visto, ci devo proprio essere...
Questo accadeva nel 72 quando a San Fransisco, Amsterdam, in Italia si svolgevano tutta una serie di attività ed opere live - mentre in fondo quello che facevamo noi era di impersonare gli altri... lo spettatore.
Erano gli anni 70 - anni in cui ciascuno doveva trovare se stesso. Era il momento in cui tutto girava intorno al nocciolo del Sé.

 

E l'idea del momento era che se uno riusciva a separare il proprio sé dal mondo circostante, a quel punto avrebbe trovato praticamente il Sé.
Ma se si separa il Sé dal lavorio quotidiano allora non c'è più niente - e forse il Sé da solo esiste se fa parte di un sistema sociale e politico - di un sistema culturale.
Quindi passati gli anni settanta volevo che il mio lavoro cominciasse ad avere a che fare con un altra nozione del Sé - che molti di noi già lo pensavano come un sistema di antenne - Il Sé era qualcosa che sentivi.. il mondo intorno...
Negli anni seguenti il mio lavoro è cambiato. Non erano più delle performance e non erano più delle attività live, ma diventano ciò che poi viene definito come - installazioni - che all'epoca erano una cosa molto vaga, ed ancora adesso..
ma per me si trattava di uno spazio in cui lavorare, per un certo periodo.

Comunque all'epoca non avevo l'idea di un opera finché non mi veniva dato un certo spazio. La galleria..
Idealmente iniziavo a fare un opera che poteva essere fatta solo lì, solo in questo luogo particolare, solo in quel momento particolare.
Mi interessava questo spazio e la sua specificità perché odiavo l'idea dell'arte in quanto elemento universale.
Io vengo da una generazione che ha avuto delle difficoltà a credere nei valori universali. Se una cosa sembra universale è perché la cultura dominante del periodo lo sostiene.

La mia generazione e non soltanto la mia - anche la generazione degli informatici di oggi, si sente così. Vuole qualcosa di specifico, e se una cosa è specifica, legata al tempo, forse ha senso, in quel luogo ed in quel momento in particolare. In un altro momento ha un senso diverso o non ha senso. Quindi la specificità è un valore del lavoro, un modo per concentrarsi sulle condizioni materiali del mondo che ci circonda.

 

Bene c'è una installazione dal titolo - Where we are now - Tra parentesi - Who are we anyway - è stata fatta nel 76 a New York - nella Sonnabend Gallery che all'epoca si trovava a West Broadway 420.
Sottolineo questo per dire che il 420 di West Brodway all'epoca era al centro dell'arte di New York.
Ho cercato quindi di fare un opera che in qualche maniera cercava di arrivare ad una sorta di atmosfera di "congratulazione"
C'era una porta chiusa dipinta di nero - ed accanto a questo oggetto nero, c'era un lungo tavolo con deri panchetti alti al suo fianco - Il tavolo era appoggiato, a dire il vero usciva dalla finestra, e almeno come lo avevo visto io, era una sorta di avvertimento a me stesso, era un modo di mettersi in galleria, di sedimentarsi, e tuttavia era un modo di allontanarsi dalla galleria stessa.

C'era una sorta di altoparlante sul tavolo - si sentiva il tichettio di un orologio, ed una voce, la mia voce che diceva ...ed adesso che siamo tutti qui insieme, cosa ne pensi Bob? Ora che siamo arrivati al massimo possibile, che ne pensi Bob?...
Facevo una voce come se dovessi richiamare all'ordine in un incontro collettivo -
Questa è una delle migliori opere che io ho fatto in quegli anni.
Comunque la cosa che mi interessava nell'opera era che stavo cercando di trattare lo spazio della galleria come se fosse un luogo aperto, la piazza di una città!..
Mi sono reso subito conto che mi stavo prendendo in giro e che mai una galleria potrà essere un luogo pubblico.
Se veramente avessi pensato di avere uno spazio pubblico e realizzare un lavoro per uno spazio pubblico, dovevo trovare un altro modo per farlo. Questo comunque è il primo pezzo, la prima opera che mi ha fatto cominciare a pensare che ci fosse altro... oltre l'arte.

Vito Acconci

Devo adesso dire brevemente del motivo e dei motivi per cui il mio lavoro si è allontanato progressivamente dall'arte ed è passato al design, all'architettura e alla progettazione. Il fatto è che io non volevo qualcuno come spettatore. Mentre nell'arte ci sono solo spettatori.
Mi sono accorto che io volevo degli utilizzatori, utenti, partecipanti, abitanti.
Ma la questione è che l'arte - e molti di noi hanno tentato di forzare questa tradizione - vede sostanzialmente l'arte da una parte e lo spettatore dall'altra.
Lo spettatore si trova nella condizione di desiderio e di frustazione perché non può toccare l'opera d' (sopratutto in un museo).

Forse e per queste ragioni il lavoro è diventato progettazione e arte - anche perché il design è l'arte della vita quotidiana, piuttosto che l'arte dei musei o l'arte nelle gallerie.

Certo fin dalla fine degli anni sessanta pensavo che se volevo che le mie opere fossero nei luoghi pubblici, mi dovevo rendere conto che ci sono delle discipline che affrontano gli spazi pubblici - l'architettura, l'architettura del paesaggio, quella industriale, e quindi dovevo chiedermi : come riesco ad utilizzare queste discipline per me stesso?
Come di fatto mi relaziono con l'architettura?
L'architettura! In fondo il mio lavoro era sempre stato collegato ed associato ai corpi, alle persone - Dovevo cominciare quindi a pensare al corpo come causa di architettura. Le mie prime opere negli anni ottanta erano quasi dei giochi architettonici.
Erano dei giochi di architettura

 

Un esempio di lavoro degli anni ottanta è - Instant House - sono quattro pannelli ricoperti con la bandiera americana e poi messi in terra.
E c'è una altalena - e se vi sedete sull'altalena, questa fa sollevare i pannelli che si chiudono e che diventano una casa... con la bandiera americana disegnata sopra - e la bandiera sovietica all'esterno. Questo ci fa capire che ci sono spazi diversi per se stessi, che stanno dentro, ma anche per gli altri che stanno fuori.
Così forse la persona comincia a pensare: ma dove mi trovo?
Cioè in che posizione si trova rispetto ad una certa situazione.
La cosa che mi interessava di queste opere era che l'architettura durava quanto la persona la mantiene o la usa come strumento o come funzione - e se uno si alza per esempio dall'altalena di conseguenza le pareti si abbassano.

Inoltre mi piaceva l'idea della casa, forse era ancora un gioco o forse era qualcosa di pre-architettonico.
Ci sono delle opere del 84 - Ci sono tre case rovesciate - due a dire il vero sono inclinate una contro l'altra in modo che sostengono una terza casa appoggiata sopra - Si passa attraverso un gabbione all'ingresso ed una volta entrati dentro c'è un tavolo rovesciato oppure si sale su - in quello che era sostanzialmente la parte sotto della casa - la casa è rovesciata. Quindi quello che era la parte sotto - in realtà ospita delle sedie.
Ci sono elementi trasparente e degli specchi.
Forse questo è stato il punto di svolta che mi ha fatto iniziare a pensare che non era più solo arte.
E se dunque le mie opere costruivano dei veri e propri spazi e case - non avevo più bisogno di musei e di gallerie.

Per poi rendermi conto che non mi interessava più lo spettatore dell'arte. Con questo intendo che quando una persona entra in uno spazio artistico, in effetti dice: io sono uno spettatore dell'arte! Quindi mi separo da tutti gli altri che non sono spettatori dell'arte!
E guardare l'arte ed assistere all'arte diventa come una sorta di autocongratulazione.

 

Quello che mi interessava era il passante occasionale.
Mi interessava la persona che sta ferma di fronte a qualcosa, e non per quanto è stato denunciato come "opera artistica" - ma per un motivo o per un altro, significa qualcosa per me la persona -
e quiindi in questo periodo, alla metà degli anni ottanta, ho pensato che dovevo cambiare radicalmente il mio lavoro - Non potevo più lavorare come artista da solo - Dovevo far parte di un gruppo di persone, diventare parte di un gruppo di progettazione - un gruppo di architettura.

>>>< continua ><

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