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“Shadows and Velvet” Sharon Green


A cura di Ivan Quaroni

 

La delicata preda.

Lo strano legame venutosi a creare tra le donne e la fotografia è forse uno dei capitoli più interessanti dell’arte contemporanea. Perché mai le donne hanno scelto questo strumento per affermare con forza la loro presenza nell’arte? In fin dei conti, la pittura non ha mai offerto loro una valida prospettiva. Dopotutto, le pittrici passate alla storia si contano sulle dita di una mano. Tra il Sedicesimo e il Diciottesimo secolo raggiungono una certa fama solo Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana, Rosalba Carriera e pochissime altre. Poi, dall’Impressionismo in avanti, nel firmamento tutto maschile della pittura, compaiono le rare e luminose stelle di Mary Cassat, Sonia Delaunay, Frida Khalo, Kathe Kollowitz, Tamara De Lempicka, Georgia O’Keefe. Di fatto, con qualche sporadica eccezione, nel corso dei secoli la pittura è rimasta dominio esclusivo degli uomini.

La fotografia, invece, in quanto arte relativamente giovane, dunque priva di una lunga e opprimente tradizione maschile, ha offerto alle donne la possibilità di misurarsi con uno strumento pressoché vergine e di provare, con esso, ad affermare in termini artistici non solo la loro tanto a lungo bistrattata identità, ma anche il loro sguardo sul mondo. Penso soprattutto alle sperimentazioni di marca Bauhaus di Lucia Moholy e Toni von Haken, al fotogiornalismo di Berenice Abbott, Margaret Bourke White e soprattutto Dorothea Lange, ma anche all’impegno politico dell’italiana Tina Modotti, che frequentò e fotografò il vivido ambiente dei pittori muralisti messicani. Che dire, poi, dello struggente mondo dei freaks immortalato dagli scatti di Diane Arbus o degli inquieti e decadenti autoritratti di Francesca Woodman? Se volessimo tracciare una Storia della fotografia al femminile ci accorgeremmo di dover annoverare centinaia di nomi importanti. Cosa che, in verità, non succederebbe se tentassimo un’analoga operazione con la pittura.

Potremmo partire, arbitrariamente, dai lavori di Leni Riefensthal, fotografa ufficiale del Terzo Reich, o dai ritratti di donne fatali di Irina Ionesco, per arrivare ai suggestivi bianchi e neri di Susan Friedman o agli scatti erotici di Naomi Toki e Bettina Rheims. Potremmo considerare le minacciose fantasmagorie di Sandy Skoglund o i silenziosi interni architettonici di Candida Höfer, per approdare alle disturbanti immagini di Orlan e Marina Abramovic o a quelle levigate di Vanessa Beecroft.
La fotografia è stata, ed è tuttora, un luogo accogliente per le artiste, in cui si è finalmente potuta affermare un’idea altra dell’identità femminile. Facciamo un esempio. Il corpo femminile è stato spesso affrontato dai fotografi semplicemente come oggetto del desiderio o come feticcio erotico, perfino da quelli dichiaratamente omosessuali come Robert Mapplethorpe. Basti pensare agli eleganti nudi di Helmut Newton, alle Strippinggirls di Anton Corbijn, alle donnine legate e imbavagliate di Nobuyoshi Araki, alle provocanti ragazze di Richard Kern, alle Secretaries di Sergey Braktov, alle Dee geneticamente modificate di Micha Klein, alle bellissime top model di Richard Avedon o a quelle algide di Philippe Lorca Di Corcia, per capire che la visione maschile della donna non è cambiata semplicemente perché non può cambiare. Piuttosto, a ridefinire i tratti della personalità delle donne ci hanno pensato artiste come Francesca Woodman, Bettina Rheims, Janieta Eyre, Shirin Neshat, Cindy Shermann e perfino Nan Goldin, proponendo immagini ambigue e perturbanti, in bilico tra pulsioni sessuali e istinti di morte.

Il lavoro fotografico di Sharon Green s’inserisce nel solco delle nuove ricerche fotografiche sull’ identità femminile attraverso l’indagine dei difficili rapporti intercorsi tra le donne e la società nel corso della Storia. Tramite la rappresentazione di interni architettonici, nature morte e ritratti caratterizzati da un potente impianto chiaroscurale, Sharon Green è riuscita ad elaborare uno stile suggestivo e drammatico capace di enfatizzare la qualità tattile delle superfici, delle trame dei tessuti, dei dettagli degli oggetti allo scopo di richiamare un contesto storico, quello fecondo dell’epoca barocca, nel quale, a suo avviso, si sarebbe sviluppata la consapevolezza femminile.
Nei suoi tableaux, infatti, le tracce e i segni della Storia, così come gli abiti o i dettagli architettonici ed ornamentali, sono la testimonianza di un cambiamento, di una trasformazione delle nozioni di purezza e castità propugnate dalla Chiesa nel corso dei secoli. Con i suoi scatti, dove violenza ed erotismo sono intrecciati indissolubilmente, Sharon Green registra l’atto di nascita di un nuovo tipo di donna, dibattuta tra gli obblighi imposti dalle convenzioni sociali e le spinte di liberazione di una sensualità per troppo tempo repressa. Proprio in questo contrasto storico di forze, in questa lotta ardua tra ribellione e repressione, ha origine la sensibilità femminile contemporanea. La scelta dell’età Barocca come alba di una nuova Era non è casuale, poiché si tratta di un momento cruciale della storia europea in cui la società è percorsa, in eguale misura, da una prepotente carica erotica e da un forte spirito religioso di riforma. U n periodo, dunque, in cui convivono il sacro e il profano, le miserie delle epidemie pestilenziali e le sfarzose ostentazioni di lusso delle corti. Un’epoca animata, per giunta, da straordinari contrasti artistici, che prendono corpo in una inedita coesistenza di codici e linguaggi diversi, che spaziano dalla pittura capricciosa e fantastica a quella realistica di stampo caravaggesco.

Sharon Green riunisce nelle sue immagini queste antinomie, questi fattori formalmente e concettualmente contradditori. Già nella serie Dark Silence sono, infatti, presenti gli elementi tipici della sua grammatica, basata su incisivi chiaroscuri e sull’abbinamento di oggetti dal forte richiamo simbolico. Negli scatti di quella serie, sorta di notturni ambientati in indefinibili scenari boschivi, si respira l’atmosfera inquieta e palpitante di certo cinema Lynchiano (da Blue Velvet a Twin Peaks, da Fire walk with me a Lost Highways) dove una luce lunare e adamantina sembra posarsi sui corpi che affiorano in primo piano, lasciando lo sfondo in una coltre di buio impenetrabile. Il mistero di Sharon Green è racchiuso proprio in quelle ombre fitte, che avvolgono le fronde degli alberi lasciando a tratti intravedere fuggevoli visioni di corpi femminili. Una metafora, forse, del potere oscurantista della Chiesa, che soprattutto nel Medioevo fece molte vittime tra le appartenenti al gentil sesso, accusate di stregoneria e negromanzia o semplicemente di adulterio. Sarà per questo che le foto di Dark Silence, quando non somigliano esplicitamente agli scatti di una scena del crimine (Sweet dreams, 2004), lasciano presagire l’imminenza di un delitto efferato (Nowere, 2004) o la scomparsa di una potenziale vittima (Nighttime Betrayal False Allurement, 2004). La violenza, spesso evocata attraverso particolari allusivi, è una presenza costante nell’opera di Sharon Green, come dimostrano le foto raccolte nella mostra Lonely Empire, alcune delle quali sono qui riproposte. In questi lavori, l’artista rileva inquietanti parallelismi tra i tradizionali rituali della caccia e i riti legati al comportamento sessuale. Soprattutto nelle fotografie in cibachrome della serie The Score of History (2005), la donna di Sharon Green è rappresentata alla stregua di un trofeo di caccia. Nel dittico Darkest fight, ad esempio, la figura femminile ritratta di profilo reca sul collo un tatuaggio, o piuttosto una scarnificazione, in foggia di bisonte, che ricorda le rappresentazioni di caccia dei graffiti rupestri. Accanto, a ribadire il parallelismo tra il corteggiamento maschile e la pratica venatoria, su un magnifico tessuto nero damascato giace il corpo inerte di un fagiano. Nel trittico Smothered Pleasures, la stessa donna, di cui ancora una volta non scorgiamo interamente il volto (ulteriore negazione dell’identità), ci mostra frontalmente un decoltè graffiato con l’immagine di un cavallo rampante, motivo ricorrente nelle araldiche nobiliari. Nell’ultimo trittico della serie (Trace), Green ripropone con insistenza la presenza sullo sfondo di un tessuto prezioso. Qui, come in altre immagini, la stoffa pregiata e l’arazzo finemente intrecciato alludono metaforicamente alla seduzione femminile, incantesimo ormonale che inverte il meccanismo venatorio, trasformando il cacciatore in preda, come in quelle piante carnivore che attirano gli insetti con il richiamo dei colori e degli aromi. Forse proprio questa ambiguità, che rende la donna allo stesso tempo fragile e temibile, ingenua e perniciosa, è il tratto distintivo della moderna sensibilità femminile.

Con le sue allegoriche immagini di trofei di caccia e animali imbalsamati immersi in una penombra crepuscolare, dove il cangiante piumaggio degli uccelli e il manto dorato delle pelli si confonde con il velluto dei drappi damascati, Sharon Green riesce a interpretare questo nouveau espirit femminine, soggiogando finalmente lo sguardo maschile con immagini di delicata violenza e di ferina sensualità.

 
   
 
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