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Luca Bertolo



 

Artext incontra Luca Bertolo 

 

Artext - Puoi dire della "pratica" della pittura. Tempi, circostanze, modi. E del gesto del dipingere, come evolve da segno/disegno, "surfaces", curvature dello spazio [nei termini di commento, trascrizione, didascalia].

Luca Bertolo - Mi soffermo su "pratica", mi sembra una parola essenziale, almeno per capire il senso che io attribuisco al fare arte. Pratica è un termine che sgancia l’opera da una definizione eccessivamente intellettualizzata, riportandola alla sua origine processuale, a una dimensione (anche) schiettamente materiale, gestuale, parzialmente casuale. Benché io creda che ogni pratica, e la pratica artistica più che mai, sia connessa strettamente al pensiero. Tracciare una linea, scegliere un colore, decidere un’immagine e tradurla in linguaggio: tutto questo produce pensiero. In questo senso non credo che si possa distinguere nettamente il momento ideativo da quello della realizzazione. Si può poi discutere se e quanto sia importante che la realizzazione di un’opera sia effettuata dall'artista stesso o delegata ad altri; o dei casi in cui l'opera, molto concettuale, addirittura non prenda affatto una forma materiale… Ma preferisco fermarmi un passo prima, in questo ragionamento. Non credo che l'attività ideativa avvenga in una specie di limbo metafisico, astratto dalla fisicità del nostro esserci, del nostro corpo. Non riesco concepibile che i pensieri siano scollegati dal nostro esserci fisico, sconnessi dal nostro agire, tanto meno nel caso di un’attività artistica, dove continuamente mettiamo alla prova noi stessi, i nostri ricordi, le nostre convinzioni, le nostre emozioni, il nostro corpo. Devo molto alle riflessioni di Carlo Sini proprio sulla pratica, sul pensiero, sul linguaggio.

Dunque... mi metto davanti a una tela con un’idea in testa: è nel momento in cui traccio la prima linea o faccio la prima prova di colore che prende inizio questo percorso eccitante e spaventoso – quello della creazione – da lì inizia il nuovo. Fin tanto che resto nella mia idea sono nel passato; è la pratica che ti porta in un presente (che è già futuro), cioè nei luoghi dell’inatteso, del non ancora conosciuto. Paradossalmente, il corpo è più veloce del pensiero... tracci una linea, questa linea subirà variazioni e intermittenze, avverrà qualcosa che consideri un errore, quell’errore ti stimolerà a correggerlo; cancelli più di quel che volevi, rimane una traccia, un pulviscolo: prima di cancellarlo del tutto ti rendi conto che quello è un buon fondo da cui ripartire, e così via. Il "gesto" in pittura è molto importante.

Per quel che riguarda il tipo di spazio che si genera o il tipo di tensione che lo produce, ricordo una conferenza di Mario Merz all'Accademia di Brera, a metà degli anni Novanta, dove parlò di convessità dell'opera. Mi sembrò una metafora particolarmente interessante proprio perché utilizzata da uno scultore. Merz utilizzava il termine "convessità" in relazione al quadro - che dal punto strutturale non ne possiede affatto - e parlava del tentativo del pittore di raggiungere questa qualità. Mi colpì molto, sentivo che questa idea, questa metafora, si addiceva perfettamente a quello che anch’io cercavo in pittura - al di qua di qualsiasi idea o dimensione intellettuale. Oltre la storia, il racconto, c'era una dimensione tattile e corporea che aveva bisogno di uscire dai suoi stessi limiti.
Da una parte, la tela è il luogo per il puro, immateriale, tracciato delle idee (idee pittoriche, quelle che si possono esprimere solo in quel linguaggio). Dall'altra parte, io sento la tela, sento il supporto sul quale voglio dipingere, lo sento nella sua dimensione fisica, architettonica, materiale, ne sento l’odore… sento un corpo che interagisce col mio. Il telaio, per esempio, pur nascosto, fuori dal campo della significazione del quadro, non lo dimentico mentre lavoro al quadro: se un telaio è spesso e pesante quel quadro diventerà più facilmente spesso e pesante. Quelle che potremmo chiamare le precondizioni per la nascita di un quadro agiscono fortemente su di me. Su una certa tela non nascerà la stessa immagine che su un foglio di carta, o su una tela con caratteristiche differenti. Non so dire come ciò avvenga - ma il supporto, la materialità degli agenti influiscono sulla formazione delle idee.

 

A. - Come scegli i soggetti: da certi contesti, prediligi la tradizione figurale, oppure
fai ricorso ad una estetica?
E riguardo alla serie, vi è un progetto - in alternativa ad una ridondanza ricorsiva?

L.B. - Il termine "soggetti" include molte cose. Per alcuni anni ho realizzato dei quadri a partire da immagini fotografiche. L'obbiettivo di fondo era di disinteressarmi della scelta del soggetto e di concentrarmi sul processo di traduzione dell’immagine fotografica in un’immagine pittorica. Una traduzione incentrata sulle qualità specifiche del medium, un percorso che porta contemporaneamente a una semplificazione e a una maggiore complessità. I soggetti di quei quadri erano i più disparati, mi interessavano più i generi che non i singoli motivi: pescavo da fotografie di cronaca, fotografie storiche, foto pornografiche, sebbene in queste ultime – dato che la fotografia pornografica vive dei particolari e la pittura tende piuttosto a generalizzare – l’ipotesi di una “traduzione” (non di una copia!) nasceva già come impossibile. Questo per quanto riguarda il lavoro specifico con le fotografie. In tanti altri casi, il soggetto è piuttosto uno stato d'animo legato a una sensazione tattile, cromatica... è difficile da mettere in parole. A volte il mio soggetto è una forma di malinconia o una gioia; un ricordo di infanzia che non viene realmente descritto nel quadro.

Mi poni la questione della "tradizione"? È importante. Il rapporto con il già fatto è per me molto impegnativo – il rapporto con il già fatto, il già esistito, il già figurato, il già sintetizzato - perché ogni opera è una sintesi. A volte questo confronto mi schiaccia, mi inibisce. A volte pesco da un campionario storico di immagini senza nemmeno rendermene conto. Altre volte mi ci riferisco consapevolmente, con l'idea di un confronto. Mi affascina il "d'aprés", la copia da. La rielaborazione di qualcosa di già fatto ha un fascino enorme, si avvicina un po’ all’interpretazione in musica. Ho copiato molto e continuo a farlo, nei musei. Disegni però, mai quadri.

Per quel che riguarda la serie, il lavoro in serie, credo che sia una modalità tipicamente novecentesca tuttora valida e importante. Per me è stata una modalità liberatoria, in certi momenti di difficoltà, perché distogliendo la concentrazione e le ansie dall'opera singola, conclusa, finale, assoluta, ti permette di disseminare intuizioni e stati d'animo diversi, ti consente di sperimentare infinite variazioni di uno stesso motivo. Forse il pericolo è che questa modalità diventi una maniera. Dico pericolo perché penso al senso di responsabilità rispetto all'opera: in una serie ci si nasconde meglio. Se ti si chiede di giudicare un tuo pezzo singolo, all’interno di una serie, puoi sempre dire: non è che un episodio! In altre parole, s’indebolisce il senso di responsabilità dell’autore, il ché non mi convince, perché credo che il fatto artistico sia un atto etico.

Luca Bertolo    Luca Bertolo

Untitled 2010 watercolour on paper 30x40 cm each

 

A. - Il tuo lavoro ha un'innegabile matrice concettuale. Puoi parlare del tuo dato personale e di
un personaggio che trovi congeniale al fare arte.
Hai una concezione politica ed etica dell'arte?
Come ti poni nei confronti del pubblico o piuttosto dello spettatore?
E dell'estetica relazionale, hai una considerazione in proposito?

M.B. - Mi viene subito in mente John Baldessari, di cui ho visitato recentemente una grande retrospettiva.
Lo amo perché, contemporaneo e per certi versi sulla stessa lunghezza d’onda di artisti come Kossuth, Donald Judd, Sol Lewitt, ha avuto da subito la capacità di prendere le distanze da un certo ideologismo concettuale. Un distacco praticato attraverso una geniale ironia – pensa solo a Baldessari sings LeWitt, del 1972, la performance videoregistrata in cui canticchia i testi dei 35 Paragraphs on Conceptual Art di Sol LeWitt. E poi ha una grande capacità di rimettere in gioco ciò che ha appena realizzato, capacità di rischiare! Ho visto un documentario recente su di lui. Dopo averlo ascoltato mi è venuta voglia di abbracciarlo, con quella faccia, con quei capelli bianchi. E poi ha fatto delle scelte che io non ho avuto il coraggio di fare, almeno non così radicalmente (per fortuna forse), è come se le avesse fatte lui al mio posto, permettendomi così di dedicarmi ad altro. Mi riferisco per esempio alla sua opera-distruzione ("The Cremation Project", 1970): prende tutti i suoi quadri dipinti tra il 1953 e il 1966, e li butta in un forno crematorio. L’azione viene filmata. Una performance tragica… (io stesso ho fatto almeno due grandi falò di miei quadri, anche se in forma di rito privato, e conosco quel tipo di emozione). Da allora Baldassari non ha poi mai più dipinto, anche se ha continuato a utilizzare una sensibilità pittorica in quasi tutti i suoi lavori.

Mi chiedi qual è il mio modo di essere concettuale… beh, tanto per cominciare diciamo che sono un tipo piuttosto riflessivo. Così, se da una parte c'è il momento in cui mi abbandono, per così dire, alla pratica, subito dopo o subito prima c'è il momento della riflessione, che per me è altrettanto fondamentale. E altrettanto appassionante. Che delle persone, a un certo punto della storia dell’arte, abbiano posto così fortemente l'accento sulla dimensione analitica – parlo degli artisti detti concettuali - al punto da concepirla come l’essenza del "fare artistico" - mi sembra una cosa straordinaria, incredibile. Mi sembra anche una follia. Come pensare di fondare un mondo nuovo - di creare l'utopia in terra, l’uomo nuovo - una follia affascinante. Nel caso del socialismo, la follia stava nel credere che si potesse raggiungere, per via di un’organizzazione sociale, la felicità dell’uomo. Nel caso dell’arte concettuale, la follia sta nel fatto di trattare le idee come cose slegate da ogni pratica, da ogni interazione con le cose, con il corpo, con la materia.

M’interessa Sol Lewitt quando, nei suoi " Paragraphs on Conceptual Art", dice cose come: “Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti. Saltano a delle conclusioni che la logica non può raggiungere”. Oppure: “I giudizi razionali ripetono giudizi razionali. I giudizi irrazionali conducono a nuove esperienze”. È verissimo. È paradossale che sia diventata poi opinione comune considerare gli artisti concettuali, in generale, dei razionalisti, dei geometri dello spirito, con i loro schemi… poi vai a leggere uno dei loro testi fondanti e al primo punto si dice che gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti! Dove si parla sì di logica, ma per utilizzarla al limite dell’ossessione: “Irrational thoughts should be follone absolutely and logically”. Allora comprendi la grandezza di Sol Lewitt... La dimensione concettuale deve comunque tener conto di una forma di irrazionalità. La cosa che più mi distanzia dal modo concettuale di intendere l'arte è la loro opinione che la dimensione realizzativa sia solo un sottoprodotto dell’idea. Ripeto, per quel che ne so, realizzare un’opera è la stessa cosa che realizzare l’idea di un’opera, entrambe si formano, trovano una forma, la giusta forma, durante il processo. Fare arte significa produrre pensiero, non illustrarlo.

Per quel che riguarda la dimensione etica dell'arte direi che questa è quasi consustanziale alla pratica artistica, anche se non è facile trovarla facendo un’autopsia delle opere. Io credo che tutti i grandi artisti abbiano avuto una dimensione etica molto forte. Intendo qui l’ethos come le prerogative, le modalità per fare bene ciò che si fa, e non il fare qualcosa di giusto e buono, cioè non mi riferisco a una dimensione morale. E questa dimensione etica implica una responsabilità di fronte a se stessi e secondariamente di fronte a un pubblico (o a Dio, o a chi preferisci avere come referente). Diversa è la questione politica. L’artista un cittadino come tutti gli altri, che può scegliere se fare politica e come farla. Può credere di farlo producendo opere in grado di riverberare energie o messaggi che migliorino lo stato del mondo, attraverso un coinvolgimento attivo delle persone e così via. Credo che la generazione di Kounellis sia stata l'ultima che ha potuto beneficiare pienamente di quest’illusione. La sua è stata l'ultima generazione che ha potuto credere fino in fondo alla dimensione eroica e quindi rivoluzionaria dell'artista. Da quelle successive non è stato più possibile. Rimane l’urgenza di recuperare o inventare forme di trascendenza, dimensioni che superino l'istante presente, le cose, le beghe appena fuori dalla porta di casa. L'utopia rivoluzionaria era una modalità. Come trovarne altre? Mi pare che gli artisti più validi, in questi ultimi quarant’anni, non molto diversamente dalle epoche precedenti, hanno dato prova di aver cercato e trovato qualche “soluzione”, forse la differenza maggiore è che si tratta di ipotesi personali o di piccoli entourage, piuttosto che ipotesi collettive.

Infine, mi chiedi dell'estetica relazionale. Premetto di non aver letto il famoso "L'estethique rèlationelle" di Nicolas Bourriaud. Ogni passaggio di artisti o gruppi di artisti che mettono l'accento su di una dimensione particolare dell'arte è utilissimo per tutti. L'estetica relazionale, sottolineando la dimensione relazionale del lavoro dell’artista ha sicuramente riverberato sulla mia pratica, sebbene io non sappia dire in che modo, così come ha sicuramente riverberato sulla mia pratica artistica l’accento posto sulle idee e sulle parole da parte dell'arte concettuale, o la potenza mistica della materia messa in atto da tante opere dell'Informale. Rispetto ad alcuni artisti detti “relazionali” ho trovato a volte una notevole discrepanza tra il livello teorico, raffinato e interessante, e le realizzazioni, piuttosto banali.

 

A. - Pensi mai ai tuoi quadri nei contesti di utilizzo quotidiano, dove sono disposti, e all’organizzazione sensibile degli uomini al riguardo?
Nutri qualche forma di intimità che ti riconduce alla scrittura?

M.B. - Non mi chiedo quasi mai come e dove finiranno delle mie opere. È un pensiero che non mi preoccupa. Certo, sono molto contento quando mi capita di percepire l’emozione di qualcuno suscitata da qualcosa che ho fatto. E mi stupisce sempre molto, vedere che funziona questa triangolazione, (artista – opera – pubblico), che è uno dei meccanismi magici con cui si confronta l’artista. Per questo ho molti dubbi rispetto alla smaterializzazione dell’opera o rispetto all’intento di creare rapporti immediati, diretti, tra artista e pubblico. Al contrario, trovo fantastico che nella relazione tra due esseri umani si possa frapporre un terzo elemento, l’opera, che come intermediario, si apre a tante forme di scambio, mai del tutto predeterminabili. Forse questo generale desiderio di “andare dritto alle cose” ha a che fare col miraggio (ideologico) di questa fase tardiva del capitalismo: pay and get it! Anche il termine interattività, per come viene usato in genere, banalizza l’idea di rapporto, di relazione, non si tratta di fornire a priori due o tre possibilità – fai una croce su, clicca su una delle icone...

Quanto alla scrittura, in effetti ho un rapporto intenso con la scrittura, come lettore in primo luogo, e in piccola parte come autore. Mi piace scrivere lettere, riflessioni, appunti, racconti. È una dimensione che mi accompagna da molti anni. Nello scrivere trovo quello spazio, per me altrettanto essenziale, che manca alla dimensione visiva. E trovo virtuosa la separazione dei generi, delle modalità. Mi interessa più ciò che differenzia il testo dall’immagine che non ciò che li unisce. Non ho nessuna attrattiva per l'opera d'arte totale. Mi piace l'idea che nel corso di secoli o millenni, attorno a diversi "modi operandi" della nostra sensibilità si siano pian piano codificati, per sedimentazione, dei linguaggi autonomi - linguaggi complessi e raffinati che richiedono una lunga frequentazione.

Intimità, dici. Sì, credo che si riesca a sviluppare una particolare intimità con se stessi solo scrivendo. A volte, dopo aver scritto una frase, scoppio a ridere da solo; dipingendo non mi capita mai. La scrittura ha la qualità di riverberare qualcosa su chi la usa, una specie di feedback identitario, probabilmente perché il meccanismo narrativo ci coinvolge come persone, come soggetti, in quanto voce narrante o personaggi. In genere quello che scrivo si trova sempre all’incrocio tra riflessione autobiografia e fiction – cosa che mi consente di allineare considerazioni generali, desideri e fragilità personali. Ecco, questa dimensione narrativa che mi avvolge e allo stesso tempo mi permette di guardarmi dal di fuori. Con la pittura è tutt’un’altra cosa.


Luca Bertolo

Untitled # 7 2101 oil on canvas 50x40 cm

 

A. - La pittura!
Un problema da risolvere - o forse un “come volevasi dimostrare (CVD)” ?
[ conseguente biografia: biologica, culturale, emotiva, nel dispiegamento dei
suoi linguaggi e le sue idee di “verità”].

L.B. - Tendenzialmente è un problema da risolvere. È un fenomeno curioso: l’artista incappa in un qualche problema (per lo più formale, direi), crede che sia un problema importante, e si cimenta nella soluzione. Ecco perché è complicato discutere di funzione pubblica dell'arte, perché non è la società che da un mandato all’artista, come a un politico, l’arte non ha un’agenda di impegni da seguire. L’artista riparte sempre da capo dando a sé stesso un compito nuovo. Ti auto nomini artista, ti crei da te i problemi, cerchi di risolverli e alla fine speri di avere un qualche riconoscimento dagli altri.

Il "come volevasi dimostrare" è quanto di più lontano dalla mia pratica artistica. Non capisco neanche bene cosa significhi, nel contesto dell’arte. Forse lo si potrebbe interpretare all’interno di una visione concettuale pura (nel senso di arte concettuale), dove l’opera-oggetto, quella cosa che puoi guardare e toccare – diventa, rispetto all’opera-idea, un come volevasi dimostrare ad uso dei poveri d’immaginazione. Ma non è questo il mio punto di vista. Per me, “mettersi all'opera” significa provare a "varcare una soglia" verso un non-ancora-conosciuto, non c’è assolutamente nulla da dimostrare.

 

A. - L’atto artistico. Che cos'è l'atto di creazione? Qual è il senso della formula!
l’algoritmo di un esperimento? il "Possibile che si emancipa da ogni ragione".

L.B. - Che cos'è l’atto di creazione? È l'origine che si ripete! Un paradosso. Potrei provare a descriverlo così, in termini di processo: l'abbandono a delle forze che ti spingono in varie direzioni, e che si diversificano nel procedere, ma che comunque precedono il primo istante, quello in cui pensi, o credi di pensare a qualcosa. Per descrivere l'atto creativo lo si deve contestualizzare. In primo luogo, è necessaria una volontà di mettersi nelle migliori condizioni per fare qualcosa, anche la speranza (o la convinzione) che qualcosa accadrà è fondamentale. Non li chiamerei algoritmi – vedo che ami la terminologia matematica! – ma certamente si tratta di sequenze di gesti, di decisioni. Altre volte subentra una modalità rituale, come mettere in ordine lo studio per poi rompere questo ordine nell’opera. Rituali propiziatori. In ogni caso per me è assolutamente impossibile sapere a priori cosa succederà di un’opera. Del resto, se lo sapessi non sarebbe poi così interessante realizzarla.

 

A. - L'ambito, il "Milieu" - Luciano Fabro e Alberto Garutti alla Accademia di Brera hanno stimolato la nascita di una generazione di artisti così come Corrado Levi in un contesto legato ad Architettura.
Ti senti di appartenere ad un ambiente particolare e di avere avuto dei compagni di strada.

M.B. - Purtroppo non ho avuto molti compagni di strada, almeno negli anni della cosiddetta formazione. È una mancanza che ho sentito a volte con tristezza. A parte tutte le motivazioni biografiche, mi sembra anche che ci sia come un buco generazionale. Io sono nato nel ’68 - ecco, ho la sensazione che non siano poi tanti gli artisti italiani nati tra il ‘67 e il ’72, o almeno quelli di cui si sente parlare, mi sembrano meno di quelli nati, mettiamo, tra il ’60 e il ‘66 o tra il ‘74 e il 1980 - ma forse sono mie allucinazioni.

Negli anni all’Accademia di Brera andavo ogni tanto a sentire le lezioni di Fabro e più raramente di Garrutti. In un ambiente che generalmente trattava la pittura con sufficienza mi colpì molto il rispetto che Fabro aveva per essa. Per me, che sapevo di volermi concentrare su questa disciplina e non trovavo in giro quasi nessuno disposto a prenderla sul serio, è stato importante - Fabro faceva riferimento alla pittura classica con un rispetto commovente.
Inoltre, a causa della mia allergia a tutto quanto sembrava alla moda e giovanilista - il nonno mi chiamavano alcuni amici - sicuramente mi sono perso esperienze tonificanti, per quanto effimere. Non ho mai fatto parte di un gruppo di giovani artisti, di studenti, che condividono un appartamento, delle idee, un maestro, delle ambizioni. Il mio "milieu" iniziale è stato molto letterario: scrittori, artisti, tutti per lo più morti.

Luca Bertolo

2009 FoundFootage #4 oil on canvas .40x40 cm

 

A. -  Sei nato a Milano, e vissuto in diverse città del mondo. Adesso risiedi nelle Apuane.
C'è qualche altro luogo dove ti immagini di poter vivere?

L.B. - Posso pensare di vivere in molti luoghi. Dopo questi ultimi anni passati in una piccola frazione montana sento ogni tanto la mancanza di una grande città. Non penso a Milano, dove sono nato e cresciuto. Ci sono tante altre città più civili in giro, meno care, meno stressate.

 

A. -  "La fine dell’arte non è la fine" Cosa pensi al riguardo?
E della sopravvivenza dell'arte come un continuo ripensamento, ludico, sperimentale di questa fine..

L.B. - Che dire in proposito. Penso che fino a quando una catastrofe, ambientale o militare, spazzerà via la specie umana, ci sarà sempre qualcuno che realizzerà qualcosa che verrà detta "arte". E si discuterà; e si riterrà qualcosa vecchio e inutile e qualcosa nuovo e appetitoso; e poi a un certo punto il vecchio sembrerà nuovo, e poi sbarcheranno gli alieni.

 

 

Lecture - Di cosa si occupa l'artista -

 
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