Aleksandra Mir, Triumph , 2009
in dialogo con Marta Papini
Marta Papini - Vorrei partire dal titolo dell'opera: cosa significa un trionfo per te?
Aleksandra Mir - È un titolo semplice con molte sfaccettature. In questo caso, il trionfo è restituire all'Italia un lavoro che è stato esposto in Germania e in Gran Bretagna, ma che è stato realizzato in questo paese dieci anni fa.
MP - Come è nata l'idea di raccogliere questi cimeli? Ho letto in un'intervista che la genesi è legata a un momento in particolare, ti va di raccontarlo?
AM - Nel 2005 mi sono trasferita da New York a Palermo. Sono arrivata con solo due valigie, perciò, quando ho preso un appartamento in affitto, sono andata a cercare dei mobili per arredarlo nei negozi dell'usato. Li ho trovato alcuni vecchi trofei: una volta questi oggetti erano di grande importanza per le persone che li avevano vinti, ma dopo qualche tempo sono stati buttati via. Ero affascinata sia dalle loro forme, tutte diverse, che dalla storia dietro ognuno di essi. Ogni trofeo costava un euro, ne ho comprato dieci, e li ho messi su una mensola nel mio studio. Tutti quelli che avevo appena conosciuto a Palermo, e che venivano a trovarmi per la prima volta, pensavano che fossi stata io a vincere tutti quei trofei, anche se erano di sport differenti, dal calcio, al ping pong, all'equitazione, al windsurf, di colpo, i trofei sono quindi diventati la rappresentazione di un passato fittizio. In quel momento ho deciso di creare un'opera d'arte e trascendesse la mia esperienza personale, per arrivare a un’osservazione più generale nella comunità nella quale mi trovavo. Ho messo un annuncio sul giornale di Sicilia offrendo cinque euro per ogni trofeo. In un anno, me ne sono arrivati 2529.
Aleksandra Mir, Triumph, 2009. 2529 trofei sportivi. Veduta dell’installazione al Centro Pecci. Photo Ela Bialkowska
MP - In che modo la mentalità e la cultura italiane hanno influenzato l'opera?
AM - Sono arrivata in Sicilia con un obiettivo artistico e antropologico: mi interessava sia il patrimonio artistico di Palermo, che trova la sua massima espressione nelle chiese della città, sia la cultura popolare. Ho scoperto una grande cultura sportiva della quale la coppa è un simbolo molto potente, che unisce I rituali della chiesa a quelli dello sport.
MP - Un trofeo ha un rapporto diretto con la memoria, con ciò che vogliamo ricordare e ciò che preferiamo dimenticare del nostro passato. Secondo te come hanno vissuto l'atto di donarti i loro trofei le persone che te li hanno portati? E tu nel riceverli?
AM - Sono rimasta positivamente sorpresa dalla risposta dell'annuncio. Le persone lo vedevano come un'opportunità per liberarsi di un po' di roba vecchia, letteralmente e metaforicamente. Venivano da tutta la Sicilia a lasciare i loro trofei nel mio studio, oppure andavo io da loro a prenderli. Questi oggetti una volta erano di grande importanza, ma poi sono rimasti per anni ad accumulare polvere su qualche scaffale, per cui cederli in cambio di denaro era qualcosa di molto più che vantaggioso. La transazione, per così dire, era tuttavia del tutto simbolica, poiché il valore del loro sollievo e della mia gioia rimaneva incalcolabile.
MP -
Triumph riunisce i ricordi di tanti individui in un'unica storia, quella dell'opera. A metà strada di questo processo, tra l'individuo e il collettivo, ci sei tu come “conservatrice” di storie delle singole persone, che hanno condiviso con te molto più di un trofeo: alcuni ti hanno raccontato la loro vita, moltissimi ti hanno consegnato anche le foto del momento glorioso della premiazione. C'è uno scambio in particolare che hai voglia di raccontare?
AM - Ci sono stati diversi momenti molto intensi. Quando entravo nelle case delle persone sentivo su di me un'ondata di generosità: mi invitavano a rimanere a pranzo con tutta la famiglia per raccontarmi la storia di come il trofeo fosse stato vinto, e poi mi mostravano gli album delle foto. Queste sono diventate un inaspettato ma importante strumento, che, oltre a permettere di identificare i diversi sport aveva la funzione di testimoniare quei momenti di gloria. Eppure, il momento in cui entravo in quelle vite era anche quello in cui le persone decidevano di lasciarsi tutto ciò alle spalle: un uomo mi disse che il suo più grande trofeo erano i suoi figli. Un altro, che non voleva tenersi in casa degli oggetti che gli ricordassero che stava invecchiando. Un'altro ancora mi disse che il vincitore del trofeo, suo figlio, era morto. Una moglie mi chiese di svuotare il garage di suo marito perché, essendo lui un allenatore di calcio, avevano già tutta la casa piena di trofei.
Ho cominciato in veste di artista-antropologa, ma poi mi sono sentita anche un prete, una strizzacervelli e, a tratti, una specie di spazzina.
Aleksandra Mir, Triumph, 2009. 2529 trofei sportivi. Veduta dell’installazione al Centro Pecci. Photo Ela Bialkowska
MP - Ho letto da qualche parte che i neuroni specchio mettono in relazione diretta guardare un’attività sportiva e praticare un'attività sportiva come attività complementari, che si influenzano a vicenda. Trovi che ci sia una somiglianza tra fare arte e farne esperienza, e questo lavoro in particolare?
AM - In generale, alle persone che hanno donato il loro trofei non importava il fatto che quegli oggetti sarebbero diventati un'opera d'arte: volevano soltanto liberarsene e andare avanti con le loro vite. Per quanto riguarda la partecipazione del pubblico al processo creativo, suppongo che sarebbero dovremmo aspettare di vedere le foto che verranno messe su Instagram.
MP - Il gesto dell' alzare la coppa al cielo deriva dalla tradizione liturgica cristiana. In qualche modo lo sport, come la religione, ha che fare con il rito, la fede e l'eternità. Credi che lo sport abbia un potere salvifico? E in che modo la religione è assimilabile allo sport?
AM - Ci sono molte teorie su come gli sport moderni abbiano sostituito la religiosità, e anche le guerre; per questo motivo abbiamo ereditato alcuni rituali da queste due sfere. Tuttavia, quello che mi interessa di più è come la storia dell'origine delle cose possa venire distorta nel tempo, entrando nella cultura popolare.
Come la maggior parte delle persone, ero convinta che il gesto degli atleti moderni di alzare la coppa al cielo derivasse dalla tradizione olimpica antica. Per questo, quando ho cominciato la mia ricerca, sono andata nella sezione dedicata all'antica Grecia del British Museum di Londra per verificarlo. Il responsabile mi disse che ero nella sezione sbagliata, spiegandomi che, quando vincevano le olimpiadi, gli antichi greci ricevevano solo una corona di rami di ulivo. Lo sport moderno si è invece appropriato dell'opulenza della Chiesa, cosa che appare subito evidente guardando i trofei d'oro e d'argento, sebbene non sia cosa nota a tutti.
Aleksandra Mir, Triumph, 2009. 2529 trofei sportivi. Veduta dell’installazione al Centro Pecci. Photo Ela Bialkowska
MP - L’assistere a eventi sportivi live ci rende testimoni di un evento, e allo stesso tempo trasforma quelli che affrontano la competizione in eroi. Quali sentimenti rimangono a distanza di tempo e come influiscono sulla vita degli ex campioni, a tuo parere?
AM - La Gloria si manifesta in maniera diversa per ciascuno, per cui dovremmo chiedere agli ex campioni come si sentono. A me interessava più che altro il processo attraverso il quale la gloria svanisce, svelando nuovamente la vulnerabilità umana.
MP - Nella storia dell'arte il fallimento è stato affrontato in tanti diversi modi, io in questo lavoro rivedo la fragilità di Bas Jan Ader, la complessità e la critica di Broodhtaers, la disperazione di qualcuno dei soggetti di Diane Arbus. Che ruolo ha il fallimento nel tuo lavoro?
AM - Ai miei studenti dico sempre che, anche se ho studiato l'arte in teoria e in pratica, nessuno poteva insegnarmi ad essere un artista. Adesso ho cinquant’anni e ho fallito in tutti i modi possibili. Potrei raccontare loro tutte queste esperienze, così da impedire che commettano gli stessi errori. Ma se vuoi essere all'avanguardia, devi vivere con il rischio del fallimento, e continuare a fallire in modo che nessuno credeva possibili.
Questo succede semplicemente perché esplorare territori sconosciuti e voler progredire significa spesso non sapere che cosa sta facendo, dove stai andando, che cosa troverai, chi incontrerai, e quale affetto tutto questo avrà su di te e sul tuo lavoro. Quindi bisogna accettare il fallimento, viverlo e andare avanti.
Aleksandra Mir, Triumph, 2009. 2529 trofei sportivi. Veduta dell’installazione al Centro Pecci. Photo Ela Bialkowska
MP - Spesso hai fatto progetti che richiedevano la collaborazione di un team esteso di persone. Cosa ti porta a intraprendere progetti come questi e rimane qualcosa di questa energia collettiva nell'opera secondo te?
AM - Le mie collaborazioni sono maggiormente evidenti nei disegni di grande formato, per i quali mi faccio occasionalmente aiutare da gruppi di studenti o giovani artisti. Il disegno è un mezzo che incarna la personalità, l'energia e l'anima delle persona che tiene la matita in mano. Amplificare queste variazioni attraverso il lavoro di dieci o venti persone è come avere una tavolozza con una ricchissima gamma di colori. Anche se i miei disegni sono in bianco e nero vibrano con l'intensità dei colori, poiché il colore non è altro che energia catturata.
MP -
Triumph ha una forte componente legata al passato, ma tu hai anche di recente lavorato sulla nostra percezione del futuro con (with your book)
We Can’t Stop Thinking About The Future (Mit Press, 2017). Come vedi il futuro da qui?
AM - È impossibile prevedere il futuro, eppure non riusciamo a smettere di pensarci!
*Testo dal catalogo della mostra Aleksandra Mir. Triumph, a cura del Centro per l'Arte Contemporanea L. Pecci.
Aleksandra Mir, Triumph, 2009. 2529 trofei sportivi. Veduta dell’installazione al Centro Pecci. Photo Ela Bialkowska