Andature III. L’avventura del reale
Helene Appel e Eva Marisaldi
a cura di Marcella Cangioli e Antonella Nicola
Dalla terra con occhi sognanti guardiamo il mare e quando siamo in mare guardiamo la terra
Fausto Melotti
Realizzato in collaborazione con il Museo Marini Marini di Firenze,
Andature è giunto
quest’anno alla sua terza edizione, con Helene Appel (Berlino, 1976) e Eva Marisaldi
(Bologna, 1966) quali protagoniste.
Andature ha visto la partecipazione, accanto agli artisti, di studiosi, ricercatori e operatori
culturali, con il prezioso sostegno di aziende private, gallerie e istituzioni: un’occasione
di confronto e dialogo che anche quest’anno si è rinnovata grazie al supporto
di una rosa di aziende private, sensibili e attente al contemporaneo, che noi qui
ringraziamo profondamente, e che, insieme al Museo Marino Marini, hanno garantito
una continuità progettuale. E’ stato così possibile ampliare e approfondire l’indagine
avviata su argomenti centrali della nostra epoca e temi come l’osservazione del reale
e l’esperienza del quotidiano, attraverso il dialogo di due artiste di diverse generazioni,
un format che aveva caratterizzato anche le edizioni precedenti di
Andature I e
II 1. Un percorso che ha svelato ogni volta note e caratteri differenti, rivelandosi ricco
e inedito nelle associazioni create tra le varie ricerche artistiche, nella qualità delle
opere proposte e nelle riflessioni che ne scaturiscono, colorate da sempre nuove
traiettorie e connessioni.
In questa edizione, lo studio della realtà nei suoi dettagli, nei linguaggi e nelle convenzioni,
viene trasformato dalle artiste in un inatteso atto poetico, cui siamo invitati a
partecipare, inoltrandoci, insieme a loro, nei differenti ambiti di esperienza, creatività
e bellezza che di volta in volta si aprono, proprio grazie a quello sguardo sottile, acuto
e sofisticato che solo l’artista sa offrirci.
Rivolgendo lo sguardo al “qui ed ora”, le artiste indugiano sul momento o sul particolare,
per tentare, attraverso quello che a noi si mostra in modo palese o ovvio, di
giungere altrove, a uno svelamento, a quel qualcosa che sfugge o che non cogliamo,
per aprire a possibili altri significati e trasformazioni, riscoprendo un valore che restituisce stupore.
Eva Marisaldi, Linee, 2019 e/and Lezioni, 2023 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Gli aspetti che qualificano il reale esplorato dalle artiste - dai gesti più banali agli
oggetti o situazioni che ci circondano - sono cristallizzati da un particolare o da uno
spaccato di paesaggio, come nella serie intitolata
Sand di Helene Appel o in
Perseverance di Eva Marisaldi.
Untitled (Cleaning), Spilled water e la serie dedicata all’acqua
di Appel, ci riportano invece all’ambiente domestico, eco di storie e di esperienze,
tracce di memorie minuziosamente indagate. Terreno su cui nascono anche le installazioni
sonore e luminose di Eva Marisaldi, tra cui
Tic Clac, Studio #2 (Somarino
Somarini), Narciso o Mistery Box, metafore di codici e linguaggi che, sorprendendoci,
inducono a una riflessione.
Immergendoci nella poetica delle due artiste, risulta evidente quanto la storia dell’arte
sia presente come richiamo o ispirazione e come sia importante continuare a
percepire i legami col passato. Un’esperienza iniziata già dalla prima edizione di
Andature,
ma che quest’anno si è arricchita della
liason che abbiamo voluto creare con
le opere della collezione del Museo Marino Marini, sottolineando da un lato alcuni
aspetti della parabola artistica del maestro, dall’altra rivelando le particolari affinità con il suo lavoro.
Eva Marisaldi, Perseverare, 2018 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Dell’immensa produzione di Marino Marini, sono i cavalieri e le piccole figure di
acrobati di ispirazione etrusca a catturare l’attenzione di Eva Marisaldi che, riconoscendo
un tema a lei caro, articola la propria riflessione sulla scultura, realizzando
appositamente per questa occasione una serie di nuove opere:
Danze, è un polittico
composto da 4 disegni stampati su tela, in cui sono rappresentati lo studio di un fregio
- che evidenzia i punti in cui il metallo doveva essere lavorato per la creazione
di un bassorilievo - giocolieri, oggetti e statuine etrusche, posti accanto alle figure
di acrobati tratte da Marino Marini. Su di un piano in legno grezzo, tra i fili d’erba di
cotone tessuti a mano, Vegetare, troviamo altre due opere:
Studio#1, una scultura in
cartapesta dipinta, di rimando etrusco, che ritrae un giocoliere con cavallo, raffigurato
anche in
Danze; e
Studio #2, formato da due singolari automi, due piccoli asinelli
dalle vesti giocose che grazie ad un meccanismo interno sapientemente costruito, si
muovono emettendo suoni grazie ai campanellini che decorano gli occhi e le vesti.
Nel lungo corridoio adiacente, in una nicchia scopriamo, sempre di Eva Marisaldi,
Lezioni, un ritratto di Fausto Melotti inciso su vetro, tratto dal busto in gesso realizzato
da Marino Marini, posto in dialogo con il video
Linee, anch’esso ispirato a Fausto
Melotti, dove “I birilli - i rocchetti nell’opera di Eva - in attesa di cadere parlano fra
loro del più e del meno”
2. Opere che ben si integrano con le altre selezionate per
la mostra, dove ritmo, luce e suono rappresentano un nuovo lessico per continuare a parlare di scultura.
Una sorta di punteggiatura, di danza, che, seguendo il titolo della mostra, afferisce
all’
andatura, al passo dell’artista e al suo procedere, che muove dall’osservazione del
reale, della società e delle regole che influenzano la comunicazione e i comportamenti,
al fine di decrittarne gli aspetti non indagati.
Spostandoci da un’opera all’altra, un altro suono, cadenzato in modo irregolare, riecheggia
nella cripta del Museo: si tratta del trotto di un cavallo, che scopriamo
fuoriuscire da un misterioso oggetto a corda, rivestito con un elegante tessuto a
quadretti: è
Mistery Box realizzato in collaborazione con il musicista Enrico Serotti. Lo
spazio viene agito e mutato nell’attimo del suo incontro con le installazioni realizzate
da Eva Marisaldi. Anche i suoni e le luci di
Tic Clac spostano la percezione di spazio e
tempo, trasportandoci immediatamente in un’altra dimensione: una lanterna magica
luminosa intagliata su disegno dell’artista, proietta un nugolo di pipistrelli in volo sulle
pareti della cappellina della cripta del museo. Il loro volare e il suono generato dal
battito delle ali, definiscono nuovamente lo spazio circostante, donandoci l’illusione
di essere scesi in una grotta.
Ogni opera di Eva Marisaldi, è un gesto di attenzione verso il mondo circostante, un
atto di cura verso una materia sensibile - l’essere umano e la sua fragilità - e insieme
un invito ad aprirsi all’ignoto e all’ignorato. Le sue opere sono esempi di come la
poesia e il gioco possano essere compagni fedeli di temi profondi e importanti e di
come sia possibile comunicare attraverso quel concetto che piaceva tanto a Italo Calvino: la leggerezza.
Helene Appel, Untitled (Cleaning), 2023; Tape, 2021; Sand, 2018; Eva Marisaldi, Perseverare, 2018
(veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Immaginando i passi di un visitatore, ci siamo domandate che tipo di sensazione
avrebbe avuto guardando le opere di Helene ed Eva. Abbiamo così concepito la
mostra come un percorso esperienziale, in cui i pensieri e le emozioni che possono
attraversarci nel momento in cui osserviamo le opere, ci offrono anche la possibilità
di avvicinarci agli impulsi e alle ossessioni dell’artista nel momento dell’atto creativo.
In
Perseverance - composto da quattro disegni di rocce stampati su tela - notiamo
come il tratto ripetuto del pennarello si sofferma e scurisce nei punti in cui l’acqua
incontra la roccia, creando ombre profonde: un gesto che fa emergere la solidità delle
pietre, della scogliera che lambisce il mare; la forma prende corpo nel rinnovarsi
dell’azione, ma non la esaurisce. Forse quei 4 pannelli potrebbero essere anche più
numerosi. Così come i minuscoli granelli di sabbia di
Sand and Stones o le infinite
trame della rete di
Nylonnetz, sapientemente dipinte da Helene, rispondono al suo
sguardo diventando tutt’uno con il proprio supporto di tela grezza. Un agire che non
si esaurisce in quella tela specifica, ma che si perpetua nella ricerca, come in
Small
fishing net o in
Untitled (Cleaning), dove è proprio il gesto il soggetto del dipinto, insieme
al microcosmo di quelle bollicine di schiuma ripetute al punto di poter essere
interpretate come un paesaggio. O come in
Tape dove i nastri adesivi tracciano strani
percorsi e si arrampicano sul lino, senza che ci sia una fine.
Una nuova esperienza di pittura, che non si limita ad essere realistica, ma che attraverso
la dedizione al dettaglio, apre l’orizzonte alle innumerevoli storie possibili,
diventando paesaggio “astratto” in modo totalmente nuovo.
I temi che ricorrono nei dipinti di Helene Appel si ritrovano nella quotidianità.
Dai ciottoli e tombini incontrati lungo il cammino, dalla sabbia ai frammenti di un bicchiere
infranto, dai finocchi finemente sminuzzati fino a chicchi di riso e alla schiuma
di sapone, tutti dipinti a grandezza naturale, inquadrati su un campo, la tela grezza,
senza finzioni, nella loro nuda presenza, come ritratti che, estrapolati dal loro contesto,
assurgano allo status di icone tridimensionali.
La ricerca iperrealistica del dettaglio, che si avvicina alla modalità scientifica settecentesca,
mette in luce oggetti altrimenti privi di significato, dove anche i rifiuti gettati in
un cestino, diventano traccia, alfabeto, enciclopedia di vissuti con una propria identità,
come in
Untitled o Shards 3. Percorrendo le sale della mostra ci troviamo poi ancora
ad ammirare
Twig, un ramoscello spezzato,
Gully, un tombino su cui casualmente
ha camminato,
Cutting Board, un finocchio tagliato su un piano, o
Sand, una grande
tela dove granelli di sabbia e piccole pietre, si disperdono nello spazio immaginato,
sia esso terreno di gioco per bambini o confine della nostra terraferma, disegnando
le ombre e le luci di questa inaspettata inquadratura. E, a inizio e chiusura del
percorso espositivo, la grande tenda azzurra,
Blue Fabric e
Red Cloth, appositamente realizzata per la mostra.
Helene Appel, Cutting Board (Chopped Fennel), 2023 Foto di Serge Domengie
Queste ultime due opere, poste una di fronte all’altra, definiscono
lo spazio perimetrale entro il quale si trovano due grandi sculture in pietra
di Marino Marini -
Composizione Ideale (1971) e
Intuizione (1972) - sulle quali l’artista
aveva tracciato con un gesto il colore. “È il colore che mi da la spinta e il sentimento
per fare qualcosa di creativo. Così comincio con il colore e dopo il colore vedo una
linea e vedo una forma”
3. Allo stesso modo il colore arriva come impronta sulle tele
di Helene Appel e definisce le forme, i paesaggi e i dettagli.
Perlustrando e indagando la quotidianità nelle sue sfaccettature più diverse, ma anche
nelle sue forme più comuni, Helene dirige il suo sguardo attento alla ricerca di
quel dettaglio, di quella forma o di quella precisa curvatura in grado di diventare
l’incipit di un nuovo racconto.
Non diversamente le opere di Eva sollecitano il visitatore a interrogarsi sulla natura
di quello che lo circonda, attraverso gesti e materiali trattati con inconfondibile intelligenza
e ironia. “La realtà è ciò che sfugge, e può essere messa in evidenza solo
attraverso il gioco dell’avanti e indietro, del farsi e disfarsi forsennato dei gesti…”
4.
Helene Appel e Eva Marisaldi hanno lavorato su tutto il piano della cripta, costruendo
un percorso che si snoda tra suggestioni visive, sonore e luminose, proponendo
opere pittoriche, scultoree, installazioni sonore, video e disegni. Un percorso ricco
e articolato attraverso cui, procedendo per intuizioni, ispirazioni o richiami specifici,
possiamo riconoscere il passo dell’artista, il suo tempo, il suo sguardo, il suo inconfondibile processo creativo.
Note
1 - Andature I - Chiara Bettazzi / Daniela De Lorenzo, Museo Marino Marini, 2021, cat. Bandecchi e Vivaldi editore;
Andature II - Elisabetta Di Maggio e Sophie Ko, Museo Marino Marini, 2022, cat. Bandecchi e Vivaldi editore.
2 - Fausto Melotti, Linee, Adelphi, Milano, 1975
3 - Marino Marini, in https://www.artearti.net/mostre/doppio-omaggio-di-pistoia-a-marino-marini
4 - Sergio Vitale, L’arco il telaio e la tempesta, Recanati 2023, pag. 35
Helene Appel, Grey Envelope, 2023, Foto di Serge Domengie
Décadrages / Dis-inquadrature
(Helene Appel / Eva Marisaldi)
Saretto Cincinelli
Il corso del senso deve essere sospeso perché il senso abbia luogo
Jean-Luc Nancy
L’écart est une opération
Marcel Duchamp
Le ricerche di Eva Marisaldi (Bologna,1966) e Helene Appel (Karlsruhe,1976)
oggetto di questa nota, paiono rispettivamente afferire a due scene contrapposte
nel panorama dell’arte contemporanea: una basata sull’esibizione della figura e l’altra,
all’opposto, sul suo ritrarsi, una totalmente incentrata sulla pittura e l’altra su una
pratica plurale che spazia dal disegno al video, dalla scultura all’installazione, non
trascurando l’animazione e la dimensione sonora. Ad un secondo sguardo sembra,
però, farsi strada, in entrambe, sia pur sottotraccia, la necessità di complicare-raffinare-decostruire
la schematica contrapposizione di queste due scene. Né Marisaldi né
Appel mirano infatti -secondo equivoche strategie della sottocultura di massa- a
pareggiare, al proprio interno, registri ‘alti’ e ‘bassi’ quanto piuttosto a sospenderli
e neutralizzarli, facendoli giocare l’uno con l’altro e l’uno contro l’altro, fino a far
emergere un’indecidibilità che priva lo sguardo di ogni pre-giudizio, aprendo la strada
ad un maggiore ed a un minore ciascuno definitivamente turbato dal suo opposto.
L’interesse delle opere pittoriche di Appel, in parte riconducibili ad una inusuale forma
di ‘natura morta’ contemporanea, non risiede, infatti, come avveniva tradizionalmente,
nel carattere simbolico della composizione o in quello ingannevole e illusionista della
rappresentazione -già stigmatizzato da Pascal-
1 quanto piuttosto nella sospensione
dell’immagine che, radicalmente spogliata da ogni risonanza metaforica, pare
interrogare ostinatamente lo sguardo dello spettatore, proprio a causa del suo
carattere trascurabile e residuale.
Anche nella ricerca di Eva Marisaldi che, sin dagli esordi, “gioca a mimetizzarsi fin
quasi alla sparizione”
2
le modalità costitutive e ricettive balzano in primo piano operando un conseguente ridimensionamento della figura dell’artista e della tonalità
dell’opera; quest’ultima è, in certi casi, alleggerita e “abbassata di tono” sino a mutar
nome: motivi d’attenzione sono, semplicemente, ribattezzati alcuni pezzi della mostra
Ragazza materiale 3.
Helene Appel, Black Thread Stitches, 2013, Foto di Serge Domengie
Pur rinunciando al voler-dire, a tradursi in preposizioni eloquenti, i suoi lavori liberano
un effetto di sospensione capace di “mandare in vacanza l’ipostasi del senso” (Derrida),
come mostra ad esempio, ma non c’è che l’imbarazzo della scelta
4, il glissement della
camera nel video
Steadygirl, 1996, un ininterrotto scivolamento visivo che si riverbera
sull’operazione, inquietandola da cima a fondo.
Nonostante assuma la parvenza di un ‘documentario’ su una villa barocca ubicata nella
campagna bolognese
5 la macchina da presa di
Steadygirl si muove sempre in soggettiva,
adottando un tono medio, neutro, che non facendo alcuna differenza tra oggetti e
architetture, tra percorsi privilegiati e di servizio, finisce per erodere dall’interno
ogni visione documentaristica. L’artista non si preoccupa infatti di fornire l’immagine
di un dato nella sua interezza ma spesso lo ritaglia, sezionandolo arbitrariamente
e trascinandolo in un flusso lento ma inarrestabile che dedica al rivestimento di
una poltrona la stessa enfasi o mancanza di enfasi che riserva ad affreschi, quadri,
dettagli architettonici. Il verbo
glissare (nella sua duplice accezione) ci sembra adatto
a descrivere gli apparentemente inconcludenti percorsi della macchina da presa sui
particolari degli arredi e gli interni della villa, percorsi che non conducendo ad alcuna
meta, in qualche modo, si autoannullano: la camera come calamitata dalle cose le
insegue perdendole, quasi fosse impossibilitata a fermarsi.
6
Più che un progressivo avvicinamento al motivo -fine di ogni documentario- il video
di Marisaldi sembra mettere in scena il suo rovescio, inseguire qualcosa come un
orizzonte che, fatalmente, appare solo attraverso il suo distanziarsi. L’importanza
accordata alle scale nell’economia delle riprese è, in qualche modo, metafora del
movimento della macchina. Queste ultime, infatti, non sono viste come tramite ma
come fine, come simbolo di transitività intransitiva; su di esse non casualmente si
apre e simmetricamente si chiude il video, in quella mirabile sequenza finale che
mima, sciogliendola, la spirale di una scala a chiocciola; una forma che richiamando
un padiglione auricolare sembra invitarci all’ascolto, facendoci riflettere oltre che sul
senso della ripresa anche sul sonoro del video in cui -se la memoria non mi inganna echeggiano
fluidi suoni di campane orientaleggianti che, proprio come le immagini,
invece di formalizzarsi in una melodia, aleggiano fluttuanti nell’aria come chiamate insistenti e discrete.
Helene Appel, Sand and stones, 2018; Spilled Water, 2015 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Una strategia non molto dissimile, ma interamente giocata in ambito pittorico, è
all’opera nei quadri di Helene Appel che pongono al loro centro oggetti anodini o
insignificanti resti del quotidiano (porri sminuzzati, canovacci, rametti, tagli di carne,
resti di spazzatura…) che il minuzioso realismo dell’artista restituisce in maniera
perfettamente mimetica ma tramite un’assolutezza che finisce però per svuotarli di
ogni rimando. Senza venir meno alla riconoscibilità, l’oggetto si trova posto in una
soglia incerta e desituante, appare familiare ed estraneo ad un tempo, riconoscibile
ma indecifrabile, preso in una sospensione in virtù della quale ad essere sospeso
sembra essere il senso stesso.
Di fronte a questi dipinti più che un oscuramento del significato sperimentiamo uno
scacco della sensibilità, una decadenza dell’immediatezza. Ciò che si dissolve è quel
complesso tessuto di mediazioni che rende tale il mondo percepito. È come se gli
oggetti decontestualizzati delle pitture di H. Appel non più inscritti in quell’orizzonte
di evidenze che ce li rendeva familiari si sottraessero alla trasparenza e alla chiarezza
del senso. Risultato: la pittura sembra smarrirsi nella minuziosa restituzione della
loro materialità e produrre una sorta di muta esibizione della cosa: ciò che rimane
dell’oggetto quando il mondo è posto radicalmente fra parentesi.
Le opere di Marisaldi ed Appel, non rappresentano, dunque, lo strumento espressivo
di un pensiero ma la sua pratica attiva; è questa, del resto, la posta in gioco di operazioni
che fanno della propria manifestazione il luogo unico della loro esplicazione. Ciò che
questi lavori ci mostrano non è, infatti, un eventuale messaggio ma la sua cancellazione,
poco importa se in un caso ciò avvenga tramite un eccesso di figurazione e nell’altro
attraverso un mirabile indebolimento dei predicati dell’opera, quel che conta è che
esse non si configurano come semplici veicoli, non fanno la presentazione di ma
mostrano un “venire in presenza” (J-L. Nancy) che, configurandosi come una sorta di
donazione vuota, mette in riserva una specie di incoativo permanente, un differimento
ed un differenziarsi della stessa presenza o, detto altrimenti, una resistenza a ciò
che potremmo chiamare la figurazione significante, attraverso un richiamo alla non-significanza,
alla figura come apertura e tracciato.
Marino Marini, Composizione ideale, 1971 Helene Appel, Blue Fabric, 2019, (veduta dell’installazione), Foto di Serge Domengie
È quanto emblematicamente indica la serie dei
Disegni persi,1996, di Marisaldi che
- tracciati con la polvere di ferro - grazie ad un magnete semovente nascosto- si
disfanno, assumendo continuamente nuove forme aleatorie, sotto lo sguardo dello
spettatore. Una simile metamorfosi è all’origine anche nell’immobile trasfigurazione
dei post-it di
Omissioni, 1997. Qui, modificando leggermente l’originaria colorazione
di un’enorme quantità di comuni foglietti adesivi promemoria e disponendoli a griglia
sulla parete, l’artista giunge a delineare una sorta di straordinario
monocromo pulsante.
’Monocromo’ che, non si esaurisce però unicamente nel rimando all’astrazione
pittorica modernista né in quello alla funzione decontestualizzante del ready-made.
Grazie alla riconoscibilità del singolo elemento di partenza l’alterazione cromatica
continua infatti ad alludere -come indica con discrezione il titolo dell’opera- ai
diversi modi tramite cui è possibile comunicare uno stesso messaggio e, quindi, alle
immancabili omissioni presenti, di volta in volta, nel modo con cui quest’ultimo è
formulato. Come ha sottolineato la stessa artista “quando tu presenti una versione
dei fatti non raccontando qualcosa, e la tua versione diventa quella ufficiale, quello
che non hai raccontato è perso per sempre. Questo l’ho tradotto alterando con
matite colorate il giallo uniforme dei post-it, rendendoli tutti gialli ma di gialli diversi”.
Più che esprimere un senso le opere di Marisaldi sembrano custodirlo, tenerlo
in riserva, così come il seme contiene un potenziale frutto a venire. La mossa al
tempo stesso eccessiva e debole dell’artista tende a svuotare il potere assertivo
consunstanziale ad ogni formula espositiva, tramite un gesto che potremmo definire
“renitente”, un gesto che ritraendosi dona e, contemporaneamente, mette in riserva
un vuoto che custodisce una nuova possibilità di sguardo.
Seminazione e
disseminazione finiscono, dunque, per costituire il recto e il verso di
un’opera che, proprio come il seme, sembra trar profitto dal suo stesso venir meno.
Marino Marini, Composizione ideale, 1971 Helene Appel, Blue Fabric, 2018 e/and Gully, 2022, (veduta dell’installazione), Foto di Serge Domengie
È quanto indica, esemplarmente,
Il corso tace una mostra che, sovvertendo la
tradizionale scenografia di una esposizione, si realizza attraverso un letterale
svuotamento della scena. In questa occasione, infatti, le opere dell’artista appaiono
per così dire mimetizzate e sottratte alla vista. Nonostante ciò, lungi dal dissolversi,
finiscono per riempire la scena del loro niente, ponendoci di fronte più che ad un
vuoto ad una mancanza. “
Il corso tace -precisa Eva- è la frase che utilizzano i docenti
universitari che prendono un anno di pausa, di riflessione… La mostra era ospitata in
un appartamento e volevo che, entrando, si sentisse che qualcuno era andato via”. Chi
visitava l’esposizione, infatti, faceva immediatamente esperienza di questa mancanza,
trovandosi “spiazzato” da ciò che era “esposto alla svista”
7: due stanze contigue
apparentemente prive di qualsiasi intervento: la prima con “mobili” coperti da bianchi
lenzuoli, come quelli di un’abitazione usata raramente e la seconda radicalmente
svuotata da ogni ingombro. Dopo un iniziale smarrimento lo spettatore iniziava ad
accorgersi di qualche incongruità, nella forma della supposta ‘mobilia’: “soffermandosi
-ha dichiarato l’artista- si poteva intuire che quelle forme erano altro”. Esse, infatti,
pur mimando la tradizionale disposizione di mobili da appartamento, apparivano
ad uno sguardo più attento, sagome vagamente animali. Nel testo di presentazione
della mostra Risaliti, parla di svelamento e rimessa in circolo di simboli e, scendendo
in profondità nell’analisi dell’opera, giunge fino a identificare le singole sagome degli
animali coperti (un cavallo, due pappagalli, un coyote, una lepre, due cervi e due
daini) ed a porle in relazione con analoghe figure della storia dell’arte; a me sembra
però che la forza di quelle che più che figure potremmo chiamare controfigure,
risieda principalmente non tanto nel loro porsi come simboli di una verità nascosta
(che sarebbe dunque possibile portare alla luce) quanto nell’enigmaticità della loro
stessa copertura, che non può essere tolta poiché non nasconde altro che il suo
stesso enigma di superficie, una sorta di perturbante estraneità familiare. La seconda
stanza dell’esposizione appare, se possibile, ancora più vuota della precedente: qui,
l’intervento si limita, al poco appariscente rivestimento delle pareti con una carta,
ricavata da una foto scattata dall’artista: un muro di quartiere su cui qualcuno ha
giocato a tennis; ancora una volta il quasi-niente-da-vedere (le evanescenti tracce
della pallina) ci permette di aver molto-da-pensare: prima di tutto al rapporto che
si instaura tra le polverose tracce serigrafate sulla carta da parati e le precedenti
bianche coperture, rapporto che introduce ad un’idea di presenza che lungi dal
caratterizzarsi come vittoria definitiva sull’assenza sembra piuttosto costituirne il
rovescio, la seconda faccia.
Accennando in direzione di ciò che appare nella sua stessa sparizione, di ciò che,
per sua natura, sfugge all’alternativa di ogni schematica opposizione binaria,
velatura/copertura
e
traccia, richiamano così la nostra attenzione, in maniera insistente e
discreta, sulle paradossali modalità del rendersi presente della stessa opera di Eva Marisaldi.
Helene Appel, Red Cloth, 2023; Sand and stones, 2018 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Tramite una spoliazione che non si lega ad alcun intento iconoclasta: il
ritrarsi
dell’immagine diviene, qui,
immagine di un ritrarsi che disfa sul nascere, ogni tradizionale
idea di esposizione.
Edmond Jabès ha scritto: “c’è il bianco che precede l’avvenimento e il bianco che lo
segue”,
Il corso tace, si propone di rendere visibile quel bianco.
Votata ad una radicale anaeconomicità, come la tela di Penelope, l’opera di Marisaldi
si fa dunque “impotenza a rivelare” per divenire “rivelazione di ciò che la rivelazione
distrugge”. (Blanchot).
Qualcosa di non troppo dissimile si verifica, in alcuni casi, anche nel campo del sonoro,
e in quello dell’animazione che generalmente scaturiscono dalla consulenza tecnica
e creativa di Enrico Serotti
8, musicista, compagno di vita e storico collaboratore
dell’artista, come nel caso della macchina musicale, realizzata per la mostra
Democratic psychedelia 9 che -riassume Marisaldi- “compone brevi brani musicali che
non si ripetono mai, insieme a segni generati dalla ‘geometria sacra’. Suoni -precisa
l’artista- impossibili da memorizzare” e che le interessano come contraltare e “come
lato oscuro di tutte queste memorie esterne di cui noi ci avvaliamo ogni giorno”.
In
Andature III la collaborazione con Serotti si estrinseca nella realizzazione di
Mistery
Box, 2018-23, una scatola sonora delle dimensioni di un “ghetto blaster”, capace di
improvvisare brevi frasi e sonorità che richiamano strumenti etnici mediorientali e
di tanto in tanto, il rumore del trotto di cavalli, ma anche nel video
Linee, sorta di
omaggio a Fausto Melotti, scultore di grande sensibilità musicale. Qui, nel boccascena
di un piccolo teatro di tessuto sei rocchetti di filo di cotone paiono danzare
freneticamente mentre vengono srotolati da mani invisibili al fine di registrare il
suono prodotto dal loro movimento sul pavimento. E, infine, nella straordinaria
animazione luminosa e ambientale di
Tic Clac (2021) una lanterna, costituita da tre
cubi di cartone sovrapposti e intagliati con silhouette a forma di pipistrello (led,
sonoro e programmazione) la cui installazione, nel luogo più appartato della cripta
del museo Marini, richiama, tramite un gioco d’ombre semoventi, la fuoriuscita di un
nugolo di pipistrelli da una grotta.
Eva Marisaldi, Tic Clac, 2021, (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Che siano di grande o minuscolo formato i soggetti dei quadri di Helene Appel
eludono ostinatamente la contestualizzazione, sono -come ha scritto Cecilia Canziani-
“nature morte per un solo soggetto alla volta” o anche minuziosi ‘ritratti’ di oggetti
solitari che occupano quasi totalmente la superficie della tela. In questi dipinti non c’è
infatti materialmente spazio per alcuna ri-contestualizzazione: siamo di fronte a ciò
che, sulla scorta di Deleuze, potremmo definire una radicale de-territorializzazione.
Diversamente dalla fotografia, che si offre sempre come ritaglio e prelievo da
uno spazio più vasto, la pittura si propone, generalmente, come una costruzione/composizione. Se per il pittore si tratta di riempire progressivamente una tela vuota
per il fotografo si tratta sempre -perlomeno in prima battuta- di selezionare, ritagliare
e prelevare una porzione da uno spazio pieno e continuo. Proprio perciò lo spazio
fotografico implica, per costituzione, un
fuoricampo. Potremmo anche riassumere la
questione, dicendo che lo spazio pittorico è generalmente
centripeto mentre quello
fotografico è tendenzialmente
centrifugo. Nelle sue opere Appel sembra assumere
e condurre fino ad un punto di non-ritorno la funzione di ritaglio consustanziale alla
fotografia ma, in esse, niente lascia intuire il contesto generale da cui un determinato
oggetto è ‘prelevato’. Il concetto di
fuoricampo risulta così interdetto, posto fuori
gioco. La visione dell’artista allora si avvicina ed allo stesso tempo si distanzia da
quella fotografica, non solo per lo stile minuziosamente realistico nella restituzione
dei soggetti ma anche per il suo utilizzo dello spazio della tela.
Niente vieterebbe infatti ad Appel, pur mantenendo il rapporto 1:1 (a grandezza
naturale) che caratterizza i soggetti dei suoi quadri rispetto agli originali, di dipingere i
ricorrenti strofinacci da cucina -che gli permettono un rimando smarcato e smarcante
alla pittura astratta modernista- in un campo più largo, ma appare evidente che
così verrebbe a perdersi quella dimensione metapittorica e ‘metafisica’ che che
caratterizza la sua visione. Ciò che l’artista dipinge è, infatti, non solo l’oggetto ma ciò
che potremmo definire il suo primo piano assoluto. Un primo piano che, pur non
sezionandolo in parti, lo isola nella sua straniante assolutezza. Un isolamento che
emerge in maniera evidente nella meticolosa restituzione di grandi tronchi di alberi
scontornati proposti nella mostra
Outside.
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Eva Marisaldi, Tic Clac, 2021, Helene Appel, Red Cloth, 2023; Sand and stones, 2018 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Appel dipinge, dunque, contemporaneamente, una figura e la sua radicale
decontestualizzazione. È per questo che, estremizzando, potremmo addirittura
avvicinare le sue opere a paradossali
ready-made pittorici.
Orfano del suo contesto, il primo piano assurge allo statuto di protagonista unico di
un’opera che, per di più, si uniforma alle dimensioni reali del suo referente. Se, infatti,
il soggetto prescelto dall’artista è un lembo di spiaggia o un dettaglio del bagnasciuga
come
Seashore, 2016, o la serie
Sand, 2018, le sue dimensioni possono raggiungere
i 200×450 cm; se invece è un taglio di carne, come
Brisket del 2017, o una busta
di una lettera, come in
Grey Envelope, 2023, queste si riducono drasticamente sino
26x16 centimetri per la prima o 16x11 la seconda. Quando invece siamo di fronte
ad un oggetto in frantumi come nel caso della serie
Shards, 2016-2023, le dimensioni
dell’opera risultano più libere e indeterminate, ma anche in quel caso non c’è spazio
per una ulteriore contestualizzazione. Il fondo resta sempre quello neutro e astratto
della tela grezza. Non sapremo mai dove è avvenuta la frantumazione del vetro di
Shards, come non sappiamo se l’asciughino di
Pillow case, 2014 o
Red Cloth, 2023,
riposino sul piano di un tavolo, o su quello di un acquaio…
Spesso, come in
Sink, 2016, minuti frammenti che galleggiano sull’acqua sporca di una
rigovernatura, che sembra aver intasato un lavello o in quello dei tombini stradali
Gully, 2021,
11 si ha la sensazione, che l’artista ritragga i suoi oggetti da una prospettiva
zenitale molto ravvicinata, un punto di vista che priva l’immagine naturalistica del
suo contesto. L’accento cade così primariamente, sulla vanificazione delle coordinate
spaziali: una volta abolito l’ambito di riferimento che fornisce allo spettatore un
orientamento all’interno dell’immagine, diventa inessenziale persino stabilire, l’alto e
il basso di una tela nel suo collocamento a parete: una bistecca può infatti, fatte salve
le disposizioni dell’artista, essere esposta indifferentemente sia in verticale che in
orizzontale. Sopprimendo nello spazio rappresentato ogni indicatore che consente
di creare un effetto di congruenza con lo spazio topologico di chi guarda, Appel
autonomizza e libera lo stesso spazio di rappresentazione. È per questa ragione che
tali dipinti producono una straordinaria sensazione di indecidibilità. Il taglio praticato
dall’artista seziona non soltanto una porzione di spazio ma trasforma radicalmente
la spazialità preliminare dell’opera facendola divenire atopica.
In
Ipotesi di una descrizione Italo Calvino stabilisce una relazione tra disegno e scrittura:
“scrivere è visualizzare con le parole, trasporre sulla carta bianca ciò che si è visto;
così come visualizzare è disegnare con l’occhio della mente”.
12 Lo scrittore avverte
però, inoltre, che non basta aguzzare lo sguardo per vedere. “[...] ogni volta che ho
provato a descrivere un paesaggio, il metodo da seguire nella descrizione diventa
altrettanto importante che il paesaggio descritto”: è quanto ci mostrano, mutatis
mutandis, i quadri di Appel che ‘descrivono’ l’oggetto in una modalità che si colloca tra
la visione del
Palomar di Calvino e la scrittura del
nouveau roman. Attraverso la scelta
dell’inquadratura e la dimensione dell’immagine Helene Appel trasforma il totale
in dettaglio e viceversa. Ci offre, così, di volta in volta, tramite ciò che potremmo
definire un
décadrage, una soluzione e, contemporaneamente, una dissoluzione
dell’immagine. Nel suo caso, diversamente dall’iperrealismo o dal fotorealismo, non
si tratta tanto di mettere a punto la pittura sulla fotografia invece che sul referente
di quest’ultima, quanto di assumere la potenziale deterritorializzazione implicita nella
spazialità della fotografia e di riterritorializzarla in ambito pittorico.
Eva Marisaldi, Studio #1, Studio#2 (Somarino Somarini), Danze, 2023 e/and Vegetare, 1994-2023 (veduta dell’installazione) Foto di Serge Domengie
Pur attraverso strategie diverse e persino opposte, le nozioni di “autore”, “opera”,
“discorso” appaiono, sia in Marisaldi che in Appel, parzialmente decentrate e
indebolite dall’assunzione di un tono neutro che tende a sospendere la struttura
attributiva del linguaggio e dello stile attraverso la messa in campo di una soggettività
di carattere assolutamente a-personale. In un caso (Appel) tutto si gioca all’interno
di una pratica pittorica che lungi da proporre uno stile e un
ductus personalizzati
sembra apparentemente risolversi nella minuziosa restituzione dell’esistente, mentre
nell’altro (Marisaldi) la messa in atto di negazioni che affermandosi cancellano la loro
stessa negatività, pare sospendere al proprio interno, attraverso un continuo
detour,
ogni rassicurante fuga catartica verso un fine.
Potremmo anche dire che, nella loro ‘apertura’, le opere di Marisaldi custodiscono
un vuoto che permette e persino richiede il coinvolgimento e il contributo dello
spettatore mentre quelle di Appel aprono ad una pluralità di interpretazioni proprio
a partire dalla ‘chiusura’ dell’opera.
I pur diversi lavori delle due artiste ci pongono così di fronte ad una sospensione del
senso che ci induce a sottoporre ad una esplicita curvatura le nostre stesse modalità
di ricezione, tramite un gioco paradossale che, mentre sembra negare la possibilità
stessa dell’opera, ce ne restituisce la potenzialità, secondo una nuova, differente misura.
Eva Marisaldi, Narciso, 2022 (particolare). Foto di Serge Domengie
Note
1 - “Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui cose di cui non ammiriamo affatto gli originali” B. Pascal.
2 - Giulio Ciavoliello, in Flash Art.
3 - Ragazza materiale, Galleria Raucci / Santamaria, Napoli, 1993.
4 - Pensiamo a lavori precedenti come Scatole nere,1993: rullini impressionati esposti in una teca ancora
da sviluppare, a Ragazza materiale, 1993, una mostra che destabilizza lo stesso concetto di esposizione, o alla
serie di disegni realizzati a candeggina Omissioni,1998, proposti nel contesto della mostra Democratic psychedelia,
“una serie di disegni fatti /…/ sottraendo il colore”. “Quando ho iniziato a pensare a questo lavoro -precisa l’artista-
avevo un problema, non volevo usare le fotografie di un intervento che avevo fatto in una casa di riposo,
con gli ospiti. Però allo stesso tempo volevo documentare questa cosa, e quindi l’ho ridisegnata. /…/ ho usato la
candeggina però, che addirittura sottrae il colore, ‘mangia’ come fanno certe malattie – la lettura della realtà”; in
Marco Scotti, conversazione con Eva Marisaldi in Secondi tempi, CSAC Parma, 2021, All Around Art editore, p.22.
5 - Villa Albergati a Zola.
6 - A proposito del video l’artista ha dichiarato: “Steadygirl nasce dalla suggestione di aver visto un operatore
con la telecamera (steady) da solo su un palcoscenico al lavoro. Desideravo imitare quel movimento
morbido, così, col corpo. L’uomo era tutto vestito di nero, sembrava un servo di scena e non ho potuto non
pensare alla condizione di servitù volontaria e/o inconsapevole. Per fare questa operazione mi serviva un luogo
che fosse abbastanza scenografico, spettacolare e per vie traverse sono giunta ad un palazzo in cui esistono ben
tre scale di servizio, che tornavano molto utili, costruite perché le persone non si incontrassero.”
7 - Sergio Risaliti, presentazione della mostra “Il corso tace”, Iconoscope / FRAC Languedoc Roussignol, Francia, 1995;
8 - “Enrico suona con i Confusional Quartet e collabora con il poeta Enzo Minarelli. Ems. Ci presentò
Roberto Daolio e presto iniziammo a collaborare a San Marino per un progetto chiamato Via crucis nel tunnel
della ferrovia. Si trattava di un progetto di Marco Bertoni ed Enrico Serotti sulla musica delle tradizioni orali
sarda, araba e andalusa che coinvolgeva quattordici artisti. In seguito, dopo altre collaborazioni di servizio, finimmo
intrecciati. Le collaborazioni aumentarono: video, animazioni, idee. Viviamo ancora insieme” (Eva Marisaldi).
9 - Galleria Massimo Minini, Brescia, 2012.
10 - Vedendo acquerelli su lino come Maple, 2019 o 0ak (esposti in occasione della mostra Outside presso
CCA Andratx Gallery, Maiorca, Spagna, 2019), risulta difficile non andare con il pensiero ai cosiddetti chantournés (dal francese chantourner, “intagliare”). I cui primi esempi ci vengono offerti da Cornelis Norbertus Gijsbrechts, e
sono l’esito di una provocatoria autoriflessione e presa di coscienza di sé della pittura.
11 - In qualche occorrenza, come nella mostra Representation, esposti a pavimento invece che a parete.
12 - “Ogni descrizione consiste nel passare da un punto all’altro della forma di una cosa collegandoli
insieme, tessendo una rete di collegamenti tali da non far svanire l’unitarietà della cosa descritta, mettendo al
contempo in risalto gli aspetti che ne caratterizzano la singolarità”.
Andature III, 2023, Museo Marino Marini, Firenze. Foto di Serge Domengie
ANDATURE III
Helene Appel / Eva Marisaldi
a cura di Marcella Cangioli e Antonella Nicola
Museo Marino Marini 5.10 - 24.12.2023
@ 2024 Artext