Andrea d’Amore
Il verme e il ragno
Prato, Villa Rospigliosi
Carla Carbone (ChorAsis)
UN CONVIVIO d’AMORE
Prato, Villa Rospigliosi
ore 12.30, ora di pranzo,
sabato 21 marzo 2024.
Giorno precedente alla inaugurazione del progetto espositivo di ChorAsis
Il verme e il ragno di Andrea d’Amore.
Il progetto, a cura di Matteo Binci e con la direzione artistica di ChorAsis, ha avuto luogo presso la Villa Rospigliosi di Prato sviluppandosi tra gli spazi della cucina agricola, del vicino campo con le sue piante commestibili, in alcuni degli ambienti operativi e rurali. Spazi che, trasformati in luoghi di esposizione artistica, hanno accolto l’azione performativa e partecipata messa in atto da Andrea d’Amore.
L’artista Andrea d’Amore ha disposto, in successione lungo i locali della rimessa, un percorso iniziatico a tappe. Qui attende i suoi ospiti. Essi prenderanno parte ad un banchetto conviviale.
- Primo ambiente, sala dell’uccellagione o dell’aperitivo, suoni di campanacci e battiti d’ali, una pianta di limoni alcune opere dell’artista alle pareti, presenti due mangiatoie sospese e un divisorio medico con distributori da cui servirsi (popcorn, diversi tipi di vini).
- Secondo ambiente, una panchina e di fronte la proiezione di un video.
- Terzo ambiente, su ognuna delle tre pareti un limone è stretto da tiranti di tensione. Al centro della stanza una lunga tavola imbandita.
La tavola è stata apparecchiata per una trentina di persone, amici dell’artista, giornalisti, curatori e appassionati, legati all’associazione culturale ChorAsis o appartenenti alla famiglia Rospigliosi.
Panche di legno intorno al lungo tavolo e su di esso nove pentole in terracotta offrono il caldo cibo cucinato da Andrea. Hanno anse con forme genitali maschili e femminili. Ha inizio il banchetto e i nove coperchi decorati sono dall’artista sollevati e affissi con ordine entro lo spazio bianco dipinto sull’antica parete, raccontano di miti e della propria storia genealogica familiare.
Sulla tavola morbidi doppi crani sono sculture in burro. Piatti di terracotta accolgono i commensali, ciascun piatto è unico e differente, calchi modellati dal volto dell’artista.
La tavola è priva di coltelli.
Su di essa:
Filoni tortili di pane da forno a legna,
- bifacciali teschi di burro con erbe spontanee, spezie e margherite,
- olio della casa,
- cinghiale agrumato,
- carciofi con fave e patate,
- polenta al timo,
- vino toscano,
- acqua aromatizzata con erbe,
- biscottini di frolla al limone,
- caffe e rum speziati.
ChorAsis ha osservato l’artista scegliere predisporre e allestire i luoghi dell’accoglienza, servire i suoi ospiti, lo ha visto operare in cucina durante alcune fasi di preparazione del pranzo. Ne evidenzia l’approccio al
medium materia cibo, un operare che oltrepassa il senso del gusto e il piacere del palato, che va al di là della presentazione visiva ed estetica. Quello di Andrea è piuttosto un approccio integrale, un’attitudine basata sulla ricerca del significato di ogni elemento, per viverne con cura i passaggi e assaporarne il ritmo rituale arcaico e sacro. Una partecipazione fisica ed emotiva centrata sulle connessioni nate per comprenderne le future relazioni, le tracce e le memorie di ciò che, da lui creato, potrà generare emergere nello scambio e nella condivisione collettiva. Un banchetto conviviale come atto di un’operazione sincera, volto a sviluppare il contatto, da visivo e gestuale alla spontanea apertura per denudare parti di sé, verso possibili naturali relazioni testate da riti antichi.
Andrea d’Amore, Il verme e il ragno (performance l’artista dispone i Coperchi nella posizione seguente), 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Artext
La prima cosa che colpisce dell'ambiente è un tavolo al suo centro. Un ritaglio di legno naturale tra le pareti non trattate e la porta a rimessa aperta. Pieno, illuminato dalla luce che entra dal lucernario. Diffusore a cui l'occhio dell'osservatore non può non tornare, attratto dalla pienezza corpuscolare dello spazio ancora non violato. Intorno sulle pareti, opere oggetti rittatti allo sguardo (un riquadro raggiungibile per via iconica a tenere luminoso il piano della materia e uno spazio vettoriale ispirato da tensori ad una forma suprema di realismo). Opere apparentemente disposte secondo l'ordine geometrico, le ascisse e le ordinate di un'ideale battaglia tra mondo e nevrosi, sottratti alla corrente indistinta del caos. Gli oggetti del tavolo conoscono un proprio ordine spaziale. Il tavolo risponde a una propria struttura. Ha una forma. Un nome. Si tratta di un Tavolo-Cosmo.
All'interno del Tavolo-Cosmo i vari elementi che lo compongono, non ci sono postazioni assegnate. Il loro esistere in tensione è evidente. Ognuno gravita intorno ad un centro, l'ospite in relazione costante di equivalenti, neanche tanto metaforici, di oggetti del cielo profondo come a volere suggerire un rispecchiamento, una doublure del nostro guardare, vedersi vedere - che raddoppierà lo spazio reale nello spazio rappresentato.
Nessuna rigida architettura qui, ma un continuo mutare di forma. Un Tavolo-Cosmo è un sistema-aperto mai uguale a se stesso negli equilibri interni che regolano il respiro e la parola. Mondi organici e inorganici, memorie, frammenti del quotidiano, linguaggio corpo e parola sonora (impossibile non notare quel 'Piacere Miceneo!' della maschera piatto) si inseguono ad una velocità orbitale diversa a seconda di braccia busti e gambe lungo cui si trovano ad esistere. Domani la loro posizione non sarà più la stessa. Domani i loro rapporti di equilibrio saranno mutati nel continuo variare prossimale, la loro distanza, da quel preciso luogo, la parete riquadrata e mondi alternativi da cui sembra partire e a cui sembra volgere ogni metamorfosi. Solo lui, ritaglio illuminato a differire rimarrà immobile. Magnete il tavolo, dei suoi simulacri, la sua forza risiede nel vuoto ieratico e pulsante che impronta da propria assenza.
Andrea d’Amore, Il verme e il ragno (performance commensali a tavola), 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Andrea Busto – direttore museo FICO Torino
Pelli slabbrate e svolte per essere contenitori desunti direttamente dall’autoritratto michelangiolesco del Giudizio Universale in forma di effige di san Bartolomeo: martire e artista al contempo. Intingere un tozzo di pane azzimo in quell’olio franto, fresco e profumato come in un boccone sacro e liturgico, risveglia una brutale e animalesca richiesta di caccia sanguinosa e aggressiva in cui il vino come sangue, la carne come ostia consacrata, il pane come corpo, si ritrovano e partecipano al banchetto sacro e sacrilego. Orecchie e labbra, palpebre e zigomi, bocche che affiorano alla superficie per ammiccare silenziose a te commensale che stai inghiottendo una parte dell’arte espressa nella creta molle e poi cotta e rappresa per essere volto dell’artista e di te stesso, effige perpetua di un autoritratto sociale in cui, come parti di un tutto, ci rispecchiamo e ci ritroviamo. Il senso uniformante del volto che si ripete, non eguale ma simile in tutte le stoviglie/coccio, include i commensali in un pasto cannibalico ove l’arte è, forse, dimenticata per un attimo per far assurgere a rito collettivo quello del nutrirsi come congiunzione spirituale e fisica di corpi e di menti impegnate nello stesso rito pagano e ancestrale.
Andrea d’Amore, part. Pentole, Visi, Cinghia di tensione + limone, 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Luca Sposato – critico d’arte e xilografo
UN GESTO DAD’A-MORE
Libiamo, libiamo ne' lieti calici, che la bellezza infiora
E la fuggevol, fuggevol ora s'inebriì a voluttà.
Avrei voluto tornare ancora, avrei voluto durasse di più.
Eppure, titubante all’invito, la promessa di un’esperienza sincera e vino di ottimo gusto bastarono ad abbattere le perplessità. In pochissimo tempo, dimenticai di essere all’interno di un’operazione artistica (performativa? Installativa? Troppo tardi per afferrarlo) e cominciai a godermi la matinée; la luce invitante bagnava gli spazi dell’eterna rimessa di Villa Rospigliosi, spazi che all’occorrenza prestano servizio ad esposizioni artistiche, ed io entrai togliendomi gli occhiali da sole, come in segno di riverenza.
Non sapevo cosa guardare.
Fin quando non fu proprio Andrea a togliermi dall’imbarazzo: mi mostrò cosa fare e mi invitò a copiarlo. Dunque presi un bicchiere e lo riempii del vino che mescevo da sculture attraenti e ripugnanti: fu allora che capii di essere caduto in una trappola.
Non scappai, anzi, volli a tutti i costi addentrarmi ancor di più nella tana del Coniglio Mannaro, esperire fino in fondo quella convivialità. Sì, perché la bontà dell’ospitalità e del cibo celano tutta la crudeltà dell’Effimero, di un piccolo viaggio onirico senza ritorno, senza possibilità di rivivere quell’esatta autenticità. E se le immagini non sono altro che simulacri, con quale certezza possiamo affermare di aver vissuto realmente quell’esperienza?
Quel che resta è condivisione, evocazione gnoseologica tra commensali di un evento che ha lasciato tracce inconsapevoli, piatti sporchi, tegami svuotati, briciole e macchie, ma pure sorrisi ed eloqui, così come pensieri viziosi e parole non dette. Tracce effimere, appunto, le dolci reliquie de’ convivi, direbbe Ariosto.
Non so se di quel banchetto fossi il verme o il ragno, ma quel che certo è che per un giorno, per un momento, mi son sentito parte di una metafora, senza cercarla, senza essere avvisato.
Andrea d’Amore, Cinghia di tensione + limone, 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Maria Pecchioli - artista
«Andai nei boschi perché desideravo vivere in modo autentico, per affrontare soltanto i
problemi essenziali della vita, per vedere se avrei imparato quanto essa aveva da
insegnare, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto». Thoreau - Walden
Come un inciampo nell’ordine comune delle cose, Il Verme e Il Ragno si dipana in una
trama organica eppur ingegneristica di opere, che conduce lo spettatore in un processo
che val bene definire iniziatico e lo invita a procedere nello spazio e nel tempo ricalcando
le orme dell’artista attraverso una consequenzialità di tappe; d’altronde, la prima opera che
ci accoglie e troneggia in alto, è la pittura "Olio su carta" che reinterpreta la carta "il carro"
numero VII dei tarocchi di Marsiglia: la tirata dei tarocchi rappresenta certamente una delle
più antiche forme di viaggio iniziatico, archetipico, orale e oracolare. Lo spettatore, (che in
questa messinscena potremmo meglio chiamare viandante) osserva dal basso verso l’alto
(come una Medievale pala d’altare) ed è, viceversa, osservato dal Carro che par voler
proteggere le opere sottostanti ed indicare una via, La Via, il percorso da intraprendere.
Questa esperienza (termine che nell’era della mercificazione esperienziale non rende
merito all’installazione performativa dell’opening) riflette il processo di erranza intrapreso
dall’artista non solo nella produzione delle opere ma nel processo di parcellizzazione del
sé in rapporto con la natura (inteso come stato di natura e in rapporto al parco di Villa
Rospigliosi) e in relazione alla genealogia degli antenati, una tensione verso la
ricomposizione di una personalità frammentata.
La prima sala "dell'aperitivo o dell'uccellagione" dialoga non solo nella nominazione con
un senso di attesa come foyer in cui intrattenersi prima dell’inizio del viaggio, compito
assolto alle installazioni atte alla somministrazione di cibo tipicamente da intrattenimento,
pop-corn e vino ti avvisano implicitamente che lo spettacolo , il viaggio sta per cominciare,
anzi di più che tu ne sei parte integrante, protagonista assoluto con le opere e l’autore.
Nella tappa successiva dunque il viandante si trova vis a vis con l’artista nel video “Un
Mondo senza nome” che lo mostra rapportarsi con una idea di selvaggezza (wildness) che
sembra speculare all’anima, allo spazio interiore, dentro e fuori si toccano e si somigliano e
questa corrispondenza è capace di spogliare entrambi del proprio nome (o nome
proprio).
Andrea d’Amore, Coperchi nella posizione seguente, terracotta dipinta, 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
D’Amore, come un verme si pone pelle a pelle con l’humus della foresta e al contempo
come ragno tesse reti ingegneristiche, crea strumenti, forze e leve per innescare un
processo di crescita e sopravvivenza. È una figura Herzoghiana (Kaspar Hauser) in continua
tensione fra amore/costruzione disperazione/dissoluzione. In questo senso, tornando ai
tarocchi, d’Amore ci appare come la carta senza numero, pura potenzialità, che principia il
percorso iniziatico, il Matto: monello curioso che fa della propria ingenuità (o disperazione)
un processo di immersione nel mondo in un gioco serio come la ricerca di sé. Non uso la
parola identità che potrebbe indurre a pensare ad una monolitica visione egotica,
completamente assente nella produzione presentata. Piuttosto le scene video che D’amore
ci presenta raccontano di una identità vibrante corpuscolare (e mi verrebbe da aggiungere
crepuscolare) che ritrova nell’erranza la sua unità e vocazione, nel fare e disfare nell’unirsi e
disunirsi ancora. Le azioni, gli sforzi, le ossessioni presenti nel video ci parlano di un Don
Quijote, esausto ma instancabile appeso ad una condizione quasi schizofrenica di
ricomposizione del sé, e noi partecipiamo con lui, frammenti della stessa materia, paladini
della stessa inquietudine di vita.
Di questa frammentazione identitaria ci parlano anche “Visi” maschere/piatto in terracotta,
calchi del volto dell’artista, una per ciascun convitato: nella successiva tappa del nostro
viaggio, infatti, siamo depositari di una celebrazione conviviale. La sala è percorsa da una
tavola imbandita, noi, i viandanti, siamo chiamati a celebrare un rito di trasformazione,
testimoni del percorso che l’artista ha compiuto e si manifesta nella ricostruzione di una
seppur personale quanto mai universale, simbologia mitologica delle relazioni, e su tutte
quelle familiari, biologiche, di vita e di morte.
Partecipi di questo baccanale accogliamo le opere in noi ci nutriamo simbolicamente della visione dell’artista e fisicamente del cibo da lui cucinato in 9 pentole con altrettanti tappi decorati con i simboli e gli eroi di questa mitologia parentale e comunque aderenti ad un
lessico visivo che appartiene al genere umano.
D’amore svela (ma forse è il caso di usare scoperchia - come di un sarcofago) le pietanze contenute nei paioli in ceramica torniti con genitali che suggeriscono l’idea taoista del principio maschile yin e femminile yang, e nel far questo restituisce al coperchio decorato,
il suo status di bassorilievo installandoli uno dopo l’altro alla parete. Anche qui si ritrova la
dialettica fra frammento e unità: ciascun coperchio se pur concluso nella sua unicità trova
nella relazione con gli altri una ulteriore e potente immagine. Nel disporre al muro i
bassorilievi Andrea crea una rete amplificata di connessioni e identitarie, la storia del
singolo accolta dalla storia del luogo diviene immagine universale e ad installazione
conclusa si ha l’impressione di aver davanti una esemplificazione delle stazioni della via
crucis a testimonianza dello sforzo trasformativo a cui l’artista si sottopone.
estendono le pareti di questa sala refettorio le due installazioni “Cinghia di tensione+
limone”, la cinghia arancio avvolge e preme sul corpo di un limone, senza intaccarne la
materia, par voler ricordare che l’esistenza è un impreciso equilibrio di forze e relazioni fra tecnica e natura.
Cosi procedendo col pasto si mette in moto una ulteriore trasformazione, affianchiamo l’artista nella creazione di una trama fatta di relazioni, parole di cui siamo tutt* protagonist* e intavoliamo (insceniamo) l’immagine archetipo della convivialità.
Ma la nostra fine, la fine della nostra esperienza del Verme e il Ragno segna l’inizio
dell’esperienza dei futuri avventori, percorrendo le tappe iniziatiche che abbiamo descritto
approderanno a questo banchetto già consumato, già vissuto, ma ancora in
trasformazione, che immagino risulterà ai sensi come un ritrovamento archeologico,
affresco tridimensionale di una accadimento che rimane vivo nel ricordo o
nell’immaginazione, così come nella memoria vive chi non è più, che sia una parte di noi, un mito, un sogno o un’illusione.
Andrea d’Amore, Un mondo senza nome, video (27m17sec), 2022, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Maria Paola Agnani – sommelier
Nell'universo della cucina, raramente ci si trova coinvolti in un'esperienza che trascende il semplice atto del cucinare per trasformarsi in una vera e propria operazione d'arte. Questo è esattamente ciò che ho vissuto collaborando con l’artista Andrea d'Amore nella creazione del suo progetto espositivo.
Ho preso parte con grande piacere all'opera di Andrea, partecipando fattivamente ad alcune fasi del progetto e alla sua costruzione. Un’esperienza che mi ha permesso di apprezzare e guardare con occhi nuovi ogni singolo aspetto della preparazione e della condivisione del cibo.
Provenendo dal mondo della ristorazione e della sommellerie, ho avuto modo di contribuire con le mie competenze culinarie. Per Andrea, ho scelto e disposto i vini e cercato erbe aromatiche per riempire le brocche di acqua profumata, ho preparato l'impasto per il pane e la frolla per i biscotti. Insieme poi, abbiamo cotto rustiche forme di pane nel forno a legna e realizzato delicati (sinuosi) biscotti di frolla. Ho visto trasformare ogni ingrediente e la sua lavorazione in un attento processo creativo per realizzare pezzi artistici unici nella semplicità e nel loro significato.
L'opera di Andrea d'Amore è riuscita a catturare la vera anima del cibo condiviso, elevandolo a qualcosa di più che semplice nutrimento. Ogni pane sfornato, ogni biscotto modellato, raccontava una storia di cura, attenzione e amore per i dettagli. È stato un processo che ha richiesto pazienza e dedizione, ma che ha restituito una profonda soddisfazione e senso di realizzazione. Ogni gesto, ogni sapore, ogni aroma è diventato parte di una narrazione più ampia, fatta di connessioni profonde e sincere. È stato allora che ho compreso la vera essenza dei gesti più comuni e primari delle nostre quotidianità. La parte più importante del progetto è stata infatti la riscoperta dei momenti quotidiani che condividiamo a tavola. La semplicità dei momenti di convivialità nei quali il cibo diventa un mezzo per creare legami, raccontare storie e condividere emozioni.
Bello è pensare e vedere come ogni pasto possa essere un'opera d'arte, occasione per celebrare la bellezza della condivisione dove anche nei gesti più semplici, si nasconde un potenziale artistico immenso, capace di connettere le persone e arricchire le nostre vite quotidiane.
Andrea d’Amore, part. bevarolo, Sala dell'aperitivo o dell'uccellagione, 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Lorenzo Cianchi – artista e poeta
La mostra di Andrea d'Amore si è aperta con un banchetto e non con un pranzo, non con delle persone invitate ma dei commensali. Questo primo atto performativo ha avuto come risultato non il tornare indietro con il tempo ma l'annullare la distinzione tra passato presente e futuro tipica dell'archetipo. E se di archetipo si deve parlare la mostra che ha presentato Andrea d'Amore è l'archetipo della forza modificatrice. Tutti gli elementi della mostra sono elementi che mostrano la potenza dell'atto umano, dal dipinto del carro al limone piegato per creare una trappola, dalla capanna imbrigliata e strattonata dall'artista fino al banchetto in cui il volto umano stravolto si riposava come un piatto. Il mondo archetipico e reale necessità di azioni che devono essere compiute principalmente per attivare ciò che stagna e mettere in circolo nuova energia. Per questo Andrea d'Amore in questa mostra sottolinea come l'atto artistico è atto di forza in purezza e lui lo pensa, se lo cala su di sé e lo compie. Poco importano gli attributi scolpiti sulle pentole, l'attivazione della forza trascende il genere e la forza che mette in scena Andrea D'Amore è il richiamo al necessario fuoco all'esistenza.
Andrea d’Amore, Tarocchi, Pania: mangiatoie bevarolo albero di limone+11 intrusi, Tappeto o Il mi serve naso, 2024, ph Claudio Seghi Rospigliosi
Rita Duina – ricercatrice e progettista culturale
Un Mondo Senza Nome è il titolo dell’opera video di Andrea d’Amore, presentata per la mostra Il verme e il ragno. In estrema sintesi, potremmo dire che l’opera ha come protagonista un uomo, interpretato da Andrea, e la sua storia di scoperta di sé e del mondo.
Questo mondo è già abitato da oggetti e strumenti che fanno parte della storia progettuale
dell’umanità; il nostro uomo, bambino-alieno, per tutta la durata del video è impegnato con
disarmante semplicità nella (ri)costruzione di senso di alcuni aspetti della vita che lo
spettatore sicuramente (ri)conoscerà, come la guerra o la caccia.
Seguiamo con un certo trasporto emotivo le peripezie di senso di quest'uomo solo: la sua
buffa goffaggine nel cacciare cervi bidimensionali, il suo compiacimento quando osserva e
mostra la protesi fallica che ha creato per sé, la tenerezza dell’incanto delle bolle di sapone
che soffia nel vento. Siamo quasi sempre in grado di cogliere quale senso il nostro eroe stia
ricostruendo. Mentre lo facciamo, adottiamo questo nuovo venuto al mondo e lo osserviamo,
come osserveremmo un bimbo durante la sua crescita, mentre impara cose che noi già
conosciamo.
Senza negare la poesia di questi momenti in cui la nostra genitorialità spettatrice è
sollecitata, credo che le immagini chiave dell’opera di Andrea siano quelle dove le possibilità
di costruzione di senso si moltiplicano per noi che lo osserviamo. Il tentativo,
apparentemente privo di linearità logica e ripetuto fino allo sfinimento dal protagonista, di
sradicare alberi e capanni legandovisi attraverso una corda annodata all’altezza della vita e
procedendo per strattoni non è mai comprensibile fino in fondo per lo spettatore. Questa
incapacità di chi osserva, fino a poco prima genitore, di costruire un dominio di senso che
giustifichi l’atto praticato in loop dal protagonista, opera finalmente il passaggio più
perturbante e vertiginoso: mette lo spettatore di fronte a un mondo senza nome.
Durante il pranzo che ha inaugurato la mostra e nelle settimane successive ho sentito
considerazioni diverse sull’opera video e tutte, in fondo, sembravano essere state innescate
proprio dai passaggi appena citati. Quella che sembra un'impasse del protagonista ha
ricordato a qualcuno una donchisciottesca fatica, a qualcuno una sofferenza inutile, a altri
un’immagine profondamente liberatoria dove scoprire interdipendenze col mondo e limiti
individuali con tutto il tempo e lo spazio di procedere per tentativi ed errori.
Qui è la generosità di Andrea, bambino-alieno, cuoco, artista, amico e compagno. Nelle sue
metamorfosi, quel che rimane certo è che ci sarà sempre spazio di partecipare e diventare
parte attiva di un’esperienza che è, infine, profondamente collettiva.
Andrea d’Amore, Il verme e il ragno (l’artista modella e scolpisce il burro), 2024, ph Carla Carbone
Andrea d'Amore
I campi di ricerca e di applicazione della pratica di Andrea d'Amore sono principalmente il convivium - inteso come dispositivo per la creazione di relazioni intorno alla preparazione e al consumo di cibo in un determinato spazio-tempo, dove ogni elemento, umano e non umano, gioca un ruolo relazionale nella realizzazione di una certa atmosfera - e il tracciamento speculativo nell'ambito della caccia e della raccolta, condotte iterativamente e con una postura empatica.
Ha partecipato a residenze artistiche tra cui Guilmi Art Project,(CH). Traffic Festival (PU). Archeologia Arborea (PG). Realizzato performance e installazioni per istituzioni nazionali come Video Sound Art Festival (BS), EX3 Center for Contemporary Art (FI), Centro Pecci (PO), Villa Romana (FI), Fabbrica del Vapore (MI) e internazionali, Deutsche Bank KunstHalle, Berlino, Art Basel, Miami, Mahalla Biennial Festival of Istanbul, Istituto Italiano di Cultura Città del Messico.
Nato a Livorno, vive tra Prato e la sua città natale. Laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Firenze, ha vissuto in diversi luoghi Vallemaio, Mondovì, Diego Suarez, New York, Barcellona, Berlino, Isola d’Elba, Sardegna. E’ fondatore del progetto Cuicuocua, gruppo di artisti dediti all’invenzione di oggetti inutili per necessità quotidiane, happening rituali, tour di vendita ambulante e jam session elettroniche.
ChorAsis. Lo spazio della visione Associazione culturale di sostegno agli artisti, produzione e promozione di progetti di arte contemporanea presso la settecentesca villa Rospigliosi di Prato (già villa Aldobrandini). Il progetto di ricerca ChorAsis intende riflettere sul significato della persistenza del passato nel presente, mettendo a disposizione degli artisti alcuni ambienti storici della villa e il suo parco-giardino. Gli artisti sono invitati a leggere liberamente il contemporaneo in un confronto tra natura storia architettura mediante creazione di opere e interventi site specific. Punto fondamentale per ChorAsis ristabilire il rapporto creativo fra opera, spazio e lo sguardo di chi osserva, evidenziando il processo creativo nelle sue diverse fasi, dalla genesi all’opera finita, agli incontri con il pubblico.
Andrea d’Amore
Il verme e il ragno
a cura di Matteo Binci
@ 2024 Artext