Anish Kapoor
Untrue Unreal
Anish Kapoor in conversazione con Arturo Galansino
Arturo Galansino - Il tuo rapporto con l’Italia ha una storia lunga e intensa, che ha visto la realizzazione di importanti progetti
in diverse città, tra cui Napoli, Roma, Milano e Venezia. Ora Firenze ospita questa mostra così significativa.
Puoi descrivere il tuo legame con il nostro Paese?
Anish Kapoor - Come hai detto, ho un lungo e intenso rapporto con l’Italia. In questo Paese percepisco un forte legame tra
vita quotidiana e cultura, proprio come quello con cui sono cresciuto in India.
L’altro giorno stavo passeggiando a Venezia e ho notato un’immagine della Madonna sul fianco di una chiesa.
Mi è venuto in mente che i paesi protestanti dove ho trascorso buona parte della mia vita hanno bandito il
femminile e trasformato la società in una gerarchia maschile. Il cattolicesimo italiano si aggrappa invece al
femminile come presenza psichica. Questo concetto mi tocca profondamente.
AG - In passato hai lavorato in contesti storici fortemente caratterizzati, come i giardini di Versailles, Houghton
Hall e Palazzo Manfrin, quest’ultimo scelto anche come sede della tua fondazione veneziana. Tuttavia, è la
prima volta che ti confronti con Firenze e con un edificio del primo Rinascimento come Palazzo Strozzi,
noto per il suo rigore, la simmetria e l’essenzialità. Considerato il tuo rapporto profondo con l’architettura,
in che modo questo edificio, simbolo della cultura umanistica, ti ha ispirato nella scelta delle opere da
esporre? E poi, come interagisce con Palazzo Strozzi e la tua storia,
Void Pavilion VII, la nuova installazione
creata per il cortile, il cui esterno richiama la struttura delle facciate del palazzo?
AK - Palazzo Strozzi è, come dici, simmetrico. La successione degli ambienti è strutturata e rigorosa. Fare una
mostra in queste sale non è facile. Troppo ordine distrugge il modo in cui l’opera può interagire con lo
spettatore. È stato quindi necessario interrompere l’ordine delle sale, collocando i lavori in maniera da creare
percorsi alternativi attraverso l’edificio.
Void Pavilion VII è una struttura formale che fa rima con il palazzo. È un piccolo edificio realizzato per
contenere il vuoto o l’oscurità, per dare spazio al non formato o al nascosto. Un luogo per l’
unheimlich: forse
in questo senso l’opposto di ciò che intendevano i costruttori di Palazzo Strozzi.
Anish Kapoor, Void Pavilion VII 2023, Veduta della mostra Cortile di Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
AG - Esplori spesso i temi del dualismo e dell’opposizione, come ad esempio interno ed esterno, concavo e
convesso, ordine e caos, naturale e artificiale. Pensi che nel tuo lavoro possa esserci un’idea di sintesi di
questi contrasti o addirittura il loro superamento?
AK - Viviamo in un universo di opposti: giorno e notte, maschile e femminile, positivo e negativo, vita e morte.
Anche il nostro universo psichico, come sappiamo, è fatto di opposti.
La mia avventura nell’oggetto mi ha portato alla convinzione che tutti gli oggetti risiedano in una dicotomia materiale/immateriale.
AG - La tua pratica artistica tende spesso alla ricerca della perfezione formale, puntando alla scomparsa della
“mano dell’artista” e alla sublimazione della componente materiale e trasformando le opere in oggetti
eterni, quasi senza tempo, appartenenti a un’epoca pre-culturale e pre-antropologica. Allo stesso tempo,
ci sono tecniche e materiali utilizzati nel tuo lavoro che fanno parte della tradizione artistica, come
evidenziano i saggi contenuti nel catalogo. Qual è stata la sfida nel portare certe caratteristiche e
peculiarità verso nuovi orizzonti espressivi? E com’è l’interazione con i nuovi materiali, alcuni
assolutamente all’avanguardia, che contraddistinguono la tua produzione più recente?
AK - Marcel Duchamp ha proposto l’
objet trouvé. Io propongo una condizione precedente: l’oggetto non fatto,
autoprodotto, automanifesto. Prima del pensiero, prima della cultura. Una complessa finzione dell’oggetto:
il fatto non fatto.
Fai riferimento al materiale più nero dell’universo, ovvero a un materiale tecnologico più nero di un buco nero, in grado di assorbire il 99,9 per cento della luce.
Il
Quadrato nero di Malevič è, come diceva lui stesso, un oggetto quadridimensionale, con tre dimensioni note e una ignota.
Le due grandi invenzioni del Rinascimento sono la prospettiva, così come la conosciamo, e la piega, ovvero il
tessuto ripiegato nella pittura del primo periodo rinascimentale: il corpo e l’essere.
Se applicato su una piega, questo materiale nero la rende invisibile. La porta oltre l’essere.
Come Malevič, trasporta l’oggetto nella quarta dimensione.
Un trucco, un’illusione, una finzione. Sì, ma tutta l’arte è finzione. Come sappiamo, gli artisti fanno proposte mitologiche, non semplici oggetti.
Portare un oggetto al di là dell’essere è un’ambizione elevata, ma è questo il mio obiettivo.
Anish Kapoor, Svayambhu 2007, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
AG -
Untrue Unreal è il titolo che hai scelto per la mostra a Palazzo Strozzi, invitandoci a esplorare un mondo
dove i confini tra vero e falso, realtà e finzione, si dissolvono, aprendo le porte per la dimensione
dell’impossibile. Questi temi sono da tempo fondanti e ricorrenti nel suo lavoro. In questa occasione e in
questo particolare momento storico assumono dimensioni e significati nuovi e differenti rispetto al
passato?
AK - Sì, in questo momento di crescita dell’ultranazionalismo a livello mondiale, la finzione politica si spaccia per
reale ed è cieca nei confronti della storia. Il gioco reale/non reale e vero/non vero è un topos del nostro
tempo. Qui in Italia e nel mondo. Oserei dire che abbiamo perso il contatto con la realtà umana e con i nostri
compagni, compresi i cento milioni che vagano per il pianeta come rifugiati. Tutto questo nel cieco
indottrinamento degli ultranazionalisti. Untrue Unreal, non vero e non reale, oggi.
Il ruolo degli artisti, secondo me, è quello di guardare all’ignoto o al semisconosciuto. Non ho nulla da dire.
La mia verità è confidare in ciò che non conosco o conosco solo in parte. In questo, il non vero/non reale è una guida.
Anish Kapoor, Endless Column 1992, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
UNTRUE UNREAL
Arturo Galansino
«Sono interessato agli effetti che i luoghi hanno sulle opere»2, afferma Anish Kapoor, e ciò appare evidente
guardando ai suoi lavori che riescono a catalizzare l’energia di uno spazio, non solo connotando l’ambiente
che le ospita, ma anche mettendosi in relazione con il contesto e trasformandolo.
La mostra
Anish Kapoor. Untrue Unreal a Palazzo Strozzi rappresenta il primo confronto diretto tra l’artista e
un edificio-epitome della cultura rinascimentale e, per sottolineare convergenze e affinità tra la sua arte e il Rinascimento, sono inclusi in catalogo sei nuovi saggi di studiosi internazionali specializzati in questo periodo
storico: Diane Bodart, Francesca Borgo, Rachel Boyd, Dario Donetti, Tommaso Mozzati e Morgan Ng.
Come si evince dal saggio di Tommaso Mozzati la vasta selezione di sculture e installazioni, dall’inizio degli
anni Ottanta sino a oggi, presentate a Palazzo Strozzi si riempie di nuovi significati e suggestioni. Il
monumentale palazzo progettato per Filippo Strozzi alla fine del Quattrocento, infatti, costituisce un
«esercizio di rappresentazione», in cui – lo sottolinea Dario Donetti nel saggio in catalogo – il rivestimento
architettonico è ben distinto dai volumi che lo compongono, rendendo così particolarmente suggestivo il
dialogo tra un edificio simbolo dell’Umanesimo e del Rinascimento e l’arte di Kapoor, con il suo cimentarsi e
confrontarsi con i limiti di una struttura chiusa, con le riflessioni sui rapporti di scala, sulla liminalità, sui
concetti di membrana esterna e rivestimento. (3)
Il punto di partenza della mostra è il cortile, che l’artista ha voluto occupare con una nuova opera site specific,
Void Pavilion VII (2023), un grande monolite bianco nel quale si entra da un’apertura posta a est per trovare
tre “vuoti” oscurissimi che si aprono nelle pareti: un’opera che, come ribadisce l’artista nel dialogo che segue
questa introduzione, vuole destabilizzare le certezze e la visione razionale che sono alla base del progetto di
Palazzo Strozzi.
I visitatori che accedono al cubo kapooriano possono – “sprofondando” nei vuoti delle pareti – vivere un
momento meditativo sull’idea di spazio, prospettiva e tempo. Un’esperienza fisica e mentale, impossibile da
penetrare con la vista e che pare accogliere, in un mondo di ombre, l’inconscio. È l’oscurità in cui ritrovare se
stessi, l’Ouroboro junghiano, il serpente che si mangia la coda, l’abisso, che divora o si nutre di se stesso
formando un cerchio senza fine4. Il pozzo – di cui parla Morgan Ng nel suo saggio –, la vertigine fisica di
quanto sconosciuto, il timore della caduta, dell’essere risucchiati verso l’imperscrutabilità del passato e del
futuro, sono temi che ci riconducono alle dichiarazioni di Kapoor sulle proprie opere dedicate al vuoto, con
riferimenti sia al grembo materno che alla tomba: luoghi bui e scuri in cui potersi ritrovare, o perdere, anche
se – come sua prassi – l’artista non fornisce interpretazioni, ma lascia che siano gli spettatori a interrogarsi
sulla propria interiorità e spiritualità.
Anish Kapoor, To Reflect an Intimate Part of the Red 1981, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Sono sempre stato attratto da un’idea di paura, da una sensazione di vertigine, di caduta, di tensione verso
l’interno [...]. È una visione dell’oscurità. La paura è un’oscurità dove l’occhio è incerto, la mano si volge nella
speranza di un contatto e solo l’immaginazione ha una possibilità di fuga. (5)
Il vuoto è in realtà uno stato interiore. Ha molto a che fare con la paura, in termini edipici, ma ancora di più
con l’oscurità. Non c’è niente di più nero del nero interiore. Nessun altro nero è paragonabile a quello. Sono
consapevole della presenza fenomenologica delle opere della serie Void, ma sono altrettanto consapevole del
fatto che l’esperienza fenomenologica da sola non è sufficiente. Mi ritrovo a tornare all’idea di narrazione
senza racconto, a ciò che permette di introdurre psicologia, paura, morte e amore nel modo più diretto
possibile. Questo vuoto non è qualcosa privo di importanza. È uno spazio potenziale, non un non-spazio. (6)
Nel passaggio alle stanze del Piano Nobile, caratterizzate dalla forte regolarità e dalla severa dualità
cromatica, le opere di Kapoor prendono possesso dello spazio, e l’artista è voluto intervenire proprio sulla
simmetria delle sale, come spiega egli stesso nell’intervista in catalogo. E questo intento lo si percepisce sin
dalla prima sala, dove l’ambiente viene aggredito da
Svayambhu (2007), con le sue dimensioni, il suo
movimento e il colore acceso e drammatico della sua materia malleabile.
Questo termine sanscrito definisce ciò che si genera autonomamente, che è “sorto da sé”, è il corrispettivo
delle immagini acheropite cristiane create senza l’intervento di una mano umana ma impresse
miracolosamente su un supporto. (7) Secondo Kapoor «La forma […] si è fatta da sé» (8) e in quest’opera è infatti
assente l’intervento dell’artista, qui sostituito dal motore – invisibile – che fa muovere il grande blocco
plasmabile attraverso una porta.
Svayambhu propone una riflessione dialettica tra vuoto e materia: il
monumentale blocco di cera rossa, che riproduce un vagone ferroviario stilizzato, si muove su rotaie
seguendo un percorso di quasi venti metri tra due sale di Palazzo Strozzi plasmando la materia di cui è
composto nel rapporto con l’architettura che attraversa. Nel corso del tragitto – con un movimento quasi
impercettibile – essendo il blocco più ampio del portale, lascia tracce del passaggio di un rosso carico, quasi
fiotti di sangue coagulato: metafore di nascita e richiami all’utero, ma che suscitano anche percezioni di
morte e violenza.
Anish Kapoor, Non-Object Black 2015, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
La cera ha una lunga tradizione nella storia fiorentina. Nel suo testo in catalogo Francesca Borgo ne ripercorre
l’uso sia come materia utilizzata per tecniche diverse, sia come medium artistico a sé stante, con riferimento
all’antica tradizione degli ex voto che raffiguravano parti del corpo o figure a grandezza naturale, come
quelle, eseguite dal “ceraiuolo” Orsino, volute da Lorenzo de’ Medici dopo essere sopravvissuto alla Congiura
dei Pazzi. (9) In una di esse il Magnifico appariva ferito alla gola e fasciato, come si era presentato alla finestra
di casa sua per testimoniare alla cittadinanza di essere vivo; un’immagine che, come la cera, evoca la
vulnerabilità ed effimerità della carne e l’aleatorietà della vita umana e che può essere anche avvicinata alle
opere di Kapoor in silicone – le troveremo più avanti – che ricordano interiora, corpi violati e sanguinanti.
In mostra
Svayambhu è messo in rapporto con
Endless Column (1992), che fa esplicito riferimento alla celebre
scultura
La colonne sans fin di Constantin Brâncuși, con cui l’artista rumeno ha voluto suggerire lo slancio
verso l’infinito, mentre Kapoor crea forme e meta-ambienti per interagire con lo spettatore sia fisicamente
che sensorialmente. (10)
C’è qualcosa di immanente nel mio lavoro, ma il cerchio si completa solo con lo spettatore. Esiste quindi una
netta differenza rispetto a quelle opere con soggetto definito, dove significato e contrappunto formano già
un cerchio completo. (11)
Il pigmento rosso vivo di
Endless Column si allarga e accumula alla base e sul soffitto per suggerire che la
colonna è penetrata dal basso e sfonda la sala volendo arrivare al cielo per oltrepassare i limiti dell’ambiente
ed esplorare il rapporto tra fisicità e trascendenza. Si crea così una sensazione di corporeità architettonica
eterea, metafora del legame tra terra e cosmo, un concetto che Kapoor ha ribadito con un poetico paragone
agli iceberg, la cui struttura e il cui significato si rivelano sempre solo parzialmente, considerando che le
porzioni occultate alla vista ne costituiscono la parte preponderante.
[Quando] si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno
all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta,
invisibile. E così mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile. Una parte [di esso] sporgeva nel
mondo, ma era il resto a essere veramente interessante. (12)
Se l’opera brancusiana, sebbene priva di riferimenti antropomorfi diretti, richiama il corpo femminile con il
suo ripetersi di forme romboidali, la colonna di Kapoor può alludere all’organo sessuale maschile, ma nel
contesto di Palazzo Strozzi è fondamentale il rispecchiamento nelle colonne in pietra del cortile [fig. 1] (e in
altre ugualmente disegnate da Giuliano da Sangallo): altrettanti «cilindri solidi» – come richiama ancora
Donetti –, che risaltano sulle pareti chiare.
Anish Kapoor, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Il pigmento di
Endless Column ha avuto un ruolo importante nei primi lavori, quale
To Reflect an Intimate
Part of the Red (1981), opera fondamentale nella carriera di Kapoor al suo affermarsi sulla scena
internazionale come una delle più originali voci nell’arte contemporanea: un suggestivo insieme di forme in
pigmento giallo o rosso, riferibili a elementi naturali, che emergono dal pavimento, fragili, quasi ultraterrene
ma potentemente presenti. Se la scala ridotta differenzia queste opere da altre successive, analogo è l’effetto
spaziale e architettonico, ricercato e ottenuto.
Nel corso della Biennale veneziana del 1990 il lavoro di Kapoor basato sui pigmenti venne interpretato
soprattutto sulla base delle sue origini e dei riferimenti alla cultura indiana, ma a questa catalogazione
l’artista, già in quella occasione, si era opposto con energia:
È una cosa che mi fa infuriare. Mi oppongo con forza al tentativo di guardare l’opera per la sua indianità o
attraverso la mia indianità. (13)
Da allora, la risposta a una simile chiave di lettura del suo lavoro è stata l’idea di “spirituale”, una dimensione
più ampia che coinvolge le variegate esperienze e i diversi riferimenti che sono alla base del pensiero, non
solo artistico, di Kapoor.
Il colore poi, che nella poetica di Kapoor non è solo materia e tonalità, ma anche fenomeno immersivo, con
un proprio volume insieme spaziale e illusorio, crea, come sottolinea Rachel Boyd in catalogo, un parallelismo
con l’uso dei pigmenti nella scultura non solo rinascimentale, ma dell’antichità in generale: un’acquisizione
relativamente nuova nell’ambito degli studi.
Al corpo seminale di opere nere kapooriane appartiene
Non-Object Black (2015). Vantablack, il materiale
altamente innovativo usato per quest’opera, è costituito da nanotubi di carbonio capaci di assorbire più del
99,9 per cento della luce visibile, così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto. Ne consegue la sparizione
della terza dimensione, cosa che consente a Kapoor di mettere in discussione l’idea stessa di oggetto fisico e
tangibile e di presentare forme che si dissolvono al passaggio dello sguardo. In questi lavori rivoluzionari
l’artista spinge i visitatori a interrogarsi sulla nozione stessa dell’essere, proponendo una riflessione non solo
sull’oggettualità ma anche sull’immaterialità che permea il nostro mondo.
In una recente conversazione con Giulio Paolini, citando le due più grandi innovazioni rinascimentali, che a
suo modo di vedere sono la prospettiva e la piega, Kapoor commenta:
Il motivo della piega nella pittura rinascimentale era un segno dell’essere, ma se c’è una piega in un tessuto
nero, non la distingui. Attraverso la cancellazione del contorno e del bordo ci viene offerta la possibilità di
superarlo. Beyond being, oltre l’essere. (14)
Utilizzando il rivoluzionario materiale Kapoor ha proseguito la sua ricerca di lunga data dedicata al “nonoggetto”,
che annulla ogni confine tra pittura e scultura, e “porta via” l’oggetto da se stesso, lo fa assorbire
dalla materia stessa da cui è costituito, chiedendo di confrontarci con la sua perdita per analizzare la nostra
complessa relazione con la realtà.
Anish Kapoor, A Blackish Fluid Excavation 2018, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Nell’arte di Kapoor, infatti, come ricorda il titolo della mostra, l’irreale (
unreal) si mescola con l’inverosimile
(
untrue), trasformando o negando la comune percezione della realtà. Veniamo dunque invitati a esplorare
un mondo in cui i confini tra vero e falso si dissolvono, aprendo le porte alla dimensione dell’impossibile.
Questa forte esperienza del non-oggetto continua in
Gathering Clouds (2014), forme concave monocrome
che assorbono lo spazio circostante in una oscurità meditativa. L’arte di Kapoor offre infatti un nuovo modo
di vedere e pensare a come viviamo la “realtà”, grazie al suo uso unico di forma e saturazione, in opere
permeate da una profonda connotazione psicologica.
A questi lavori di Kapoor dedicati all’indagine della percezione delle forme e degli spazi, al senso di
distorsione, a forme destabilizzanti ma unitarie, si affiancano in mostra opere su altri temi che costituiscono
comunque una parte fondamentale della sua ricerca: l’attenzione ossessiva per la carne, la materia organica,
il corpo e il sangue. Vengono così presentate drammatiche intimità sventrate e devastate, quali la grande
scultura in acciaio e resina
A Blackish Fluid Excavation (2018), che richiama un incavo uterino contorto, una
forma che attraversa lo spazio e i sensi dello spettatore.
Unendo la pittura al silicone, Kapoor crea lavori dotati di forme fluide che ci appaiono come masse organiche,
viscerali, che sembrano pulsare di vita propria. Le strutture si contorcono, si espandono e si contraggono,
evocando un senso di movimento e di trasformazione continua, ma anche di una forte sensualità tattile che
emerge dall’interazione tra le sensazioni di morbidezza e solidità, organicità e geometricità, alla base di opere
dai titoli evocativi come
First Milk (2015),
Tongue Memory (2016),
Today You Will Be in Paradise (2016),
Three
Days of Mourning (2016).
Già nel 2000 l’ar~sta ha parlato di una «fase del sangue», dominata dal rosso, colore che da sempre ha
caratterizzato i suoi lavori riuscendo a esprimere sia la vita che la morte. (15)
Come Kapoor ha dichiarato:
Uso molto il rosso. [...] È vero che nella cultura indiana il rosso è qualcosa di potente; è il colore della sposa;
si associa al matriarcale, che nella psicologia indiana è centrale. [...] Il rosso ha una scurezza molto forte.
Questo colore palese, aperto e visivamente invitante è associato anche a un mondo interiore oscuro. (16)
Sempre presenti poi nel lavoro di Kapoor la dualità, la contrapposizione, o fusione, tra elementi contrapposti:
terra/cielo, maschile/femminile, forma/informe, presenza/assenza, e anche il complesso rapporto tra le
culture che lo hanno plasmato, l’orientale e l’occidentale.
Alla nozione tradizionale di confini e alla dicotomia tra soggetto e oggetto, si collegano monumentali opere
specchianti come
Vertigo (2006) con i suoi riflessi invertiti,
Mirror (2018) e Newborn (2019), ispirato ancora
una volta alle sperimentazioni formali di Brâncuși: opere che, smaterializzando il concetto di scultura in
un’infinità di riflessi, si inseriscono nella lunga disputa sul
paragone tra le arti, come spiega Diane Bodart in
catalogo. L’illusione ottica è elemento centrale di queste opere che sembrano smentire le leggi della fisica:
grandi sculture che, infatti, riflettono e deformano lo spazio circostante e lo ingrandiscono, riducono e
moltiplicano, creando una sensazione di irrealtà e destabilizzazione, mentre attirano lo spettatore nello
spazio indefinito che emanano.
Anish Kapoor, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Le immagini vengono distorte, fino ad apparire capovolte e il visitatore avverte una sensazione di
straniamento che, oltre a coinvolgerlo sul piano sensoriale, può generare riflessioni sulla natura dell’essere.
Le opere specchianti, le opere dipinte, tutte avevano una specie di pelle. La pelle è una costante in tutto ciò
che ho affrontato con il mio lavoro da vent’anni a questa parte. È quello che separa una cosa dal suo
ambiente, ma è anche la superficie sulla quale o attraverso la quale leggiamo un oggetto e il confine dove il
bidimensionale incontra il tridimensionale. Affermazioni che possono sembrare ovvie, ma che a ben guardare
rivelano tutto un altro processo. Nella pelle c’è una sorta di irrealtà implicita che ritengo meravigliosa.17
Come conclusione del percorso espositivo l’opera
Angel (1990) esalta un’alchimia di materialità. Grandi
pietre di ardesia ricoperte da strati di intenso pigmento blu, sembrano solidificare l’aria, trasformando l’idea
stessa di purezza in elemento materiale. Invitando gli spettatori a immergersi nella loro illusoria profondità,
Kapoor evoca un senso di mistero che risponde all’ambizione di matrice esoterica di raggiungimento della
fusione degli opposti.
Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione. Si tratta di cambiare stato alla materia.
Questo non desiderando il suo passaggio da uno stato all’altro, ma attraverso uno strano processo di
manipolazione di cui non saprei (proprio) come parlare. Sono sicuro che se affermassi con insistenza che
queste forme sono uscite da una cava come blocchi blu di Prussia, mi credereste. (18)
Le opere di Kapoor trascendono infatti la loro materialità: pigmenti, pietra, acciaio riflettente, cera e silicone
vengono manipolati, scolpiti, levigati, saturati e trattati mettendo in discussione il confine tra plasticità e
immaterialità. Ma, come chiarito da Kapoor a Maurizio Cattelan che gli aveva chiesto da dove partisse e come
prendesse vita il suo lavoro: «Alchimia, lavoro e materiali» perché nell’opera la materia «è stata sottoposta
a una trasformazione alchemica. Il mix di psiche e materia è quella meraviglia che noi umani possiamo fare
e che abbiamo dimenticato di poter fare». (19)
Anish Kapoor, Today You Will Be in Paradise 2016, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Note
1 T. Mann, Joseph und seine Brüder, Berlin 1933, I, p. 1. «Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo
imperscrutabile?», in T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, trad. di B. Arzeni, Milano 2021, p. 23.
2 Anish Kapoor, catalogo della mostra (Château de Versailles, 9 giugno - 1° novembre 2015), a cura di A. Pacquement,
Paris 2015, p. 19.
3 Kapoor ha sottolineato ««la convenzione rinascimentale della pittura come finestra illusionistica o spazio al di là,
senza mai deviare dal suo impegno per un’opera interamente scultorea e fisicamente molto presente» (L. Forsha,
Introduction, in Anish Kapoor, catalogo della mostra (San Diego, Museum of Contemporary Art, 1 febbraio –-5 luglio,
1992), San Diego 1992, pp. 10-13: 10-11). Tra i riferimenti kapooriani all’arte rinascimentale appare illuminante
l’affermazione scaturita nel corso del recente incontro tra Kapoor e Giulio Paolini a Brescia: «Sa quali sono state le due
scoperte più importanti nel Rinascimento? Una la prospettiva, lo sappiamo. La seconda sono le pieghe degli abiti»
(https://www.exibart.com/arte-contemporanea/dialogo-tra-assoluti-anish-kapoor-e-giulio-paolini-in-mostra-allagalleria-
minini-di-brescia/).
4 T. McEvilley, Anish Kapoor. The Darkness Inside a Stone, in Sculpture in the Age of Doubt, New York 1999.
5 A Conversation. Homi Bhabha and Anish Kapoor, 1 June 1993, in Anish Kapoor. Stone, catalogo della mostra
(Istanbul, Sakip Sabanci Museum, 9 ottobre 2013 - 2 febbraio 2014), Istanbul 2013, pp. 317-327: 321, 323.
6 Mostly Hidden, an Interview with Marjorie Allthorpe-Guyton, in Anish Kapoor. British Pavilion, XLIV Venice Biennale
1990, catalogo della mostra, London 1990, pp. 43-51: 45.
7 Sul tema cfr. tra l’altro G. Wolf, Schleier und Spiegel. Traditionen des Christusbildes und die Bildkonzepte der
Renaissance, München 2002.
8 S. Poddar, Suspending Disbelief. Anish Kapoor’s Mental Sculpture, in Anish Kapoor. Memory, catalogo della mostra
(Berlino, Deutsche Guggenheim, 30 novembre 2008 - 1 febbraio 2009), a cura di S. Poddar, New York 2008, pp. 26-53:
34-41.
9 G. Vasari, Vita di Andrea del Verrocchio, in Le vite dei più celebri pittori, scultori e architetti, 1568, La Spezia 1988, vol.
1, pp. 327-332.
10 M. Codognato, The Meat and Flesh of the World, in Anish Kapoor, catalogo della mostra (Roma, Macro, Museo
d’arte contemporanea, 17 dicembre 2016 - 17 aprile 2017), a cura di M. Codognato, Imola 2017, pp. 10-21: 12.
11 Anish Kapoor in In ConversaWon with John Tulsa, BBC Radio 3, luglio 2003:
hlps://www.bbc.co.uk/programmes/p00ncbc1.
12 C. Higgins, A Life in Art. Anish Kapoor,in «The Guardian», 8 novembre 2008,
https://www.theguardian.com/artanddesign/2008/nov/08/anish-kapoor-interview.
13 Anish Kapoor, in «Audio Arts Magazine», 10, 4, lato A. Registrazione del 1990 alla Biennale di Venezia. Anish Kapoor
parla della sua installazione Void Field collocata nel padiglione inglese:
hlps://www.tate.org.uk/art/archive/items/tga-200414-7-3-1-35/audio-arts-volume-10-no-4/1. Citato in D. Milea,
Plasmare la percezione. Simbologie di materia, colore e vuoto nella scultura di Anish Kapoor, tesi di laurea magistrale,
Università di Pisa. Diparnmento di civiltà e forme del sapere, A.A. 2013-2014, p. 22.
14 https://www.exibart.com/arte-contemporanea/dialogo-tra-assoluti-anish-kapoor-e-giulio-paolini-in-mostra-allagalleria-
minini-di-brescia/.
15 G. Mercurio, D. Paparoni, La svolta della scultura, in Anish Kapoor. Dirty Corner, catalogo della mostra (Milano,
Rotonda della Besana, 31 maggio - 9 ottobre 2011), a cura di G. Mercurio e D. Paparoni, Milano 2011, pp. IX-XIII: XII.
16 Anish Kapoor in N. Baume, Mythologies in the Making. Anish Kapoor in Conversation with Nicholas Baume, Anish
Kapoor: Past, Present, Future, Boston-Cambridge 2008, pp. 64-65.
17 D. De Salvo, C. Balmond, Marsyas, London 2002, p. 64.
18 L. Forsha, Introduction, cit., pp. 10-13: 12.
19 Anish Kapoor: «Per me la disobbedienza è l’unica regola dell’arte». Maurizio Cattelan intervista Anish Kapoor, in
«Corriere della Sera», 23 giugno 2022, p. 25.
Anish Kapoor, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Un medium pittorico per la scultura: le superfici riflettenti
di Anish Kapoor
Diane H. Bodart
Le sculture specchianti di Anish Kapoor, ampliate alla scala urbana,
sfidano le proprietà fondamentali dei monumenti pubblici. Per le
dimensioni colossali nonché per la durezza e il peso dei materiali di
realizzazione, i monumenti pubblici sono in genere destinati a rimanere
saldamente ancorati al suolo, imponendo la loro visibile e costante
presenza come qualcosa di inamovibile e immutabile. Presunto vettore
di eternità, nel corso della storia hanno dato forma ad alcune delle
più importanti espressioni di potere, marcando la topografia cittadina
come enormi sigilli di dominio. Le gigantesche sculture riflettenti di
Kapoor, come il
Cloud Gate (2004, pp. 136-137) al Millennium Park
di Chicago (fig. 1)1 o la più recente opera ai piedi della cosiddetta
Jenga Tower (2023), il grattacielo di Herzog & de Meuron al 56 di
Leonard Street a New York (fig. 2), levitano leggere come grandi bolle
appena atterrate su una piazza o intrappolate da un edificio, capaci di
rispondere elasticamente alle asperità del terreno, ma sempre sul punto
di scoppiare e svanire. Con la loro forma sfuggente e mutevole mettono
in discussione la gravità materiale della scultura, mentre le qualità iperriflettenti
delle superfici in acciaio inossidabile, in cui si riverberano non
solo i profili fissi degli edifici, ma anche le condizioni meteorologiche
e di luce variabili e il quotidiano viavai urbano, interrompono
definitivamente il senso di persistenza immutabile.
Tra gli esperimenti inaugurali del primo Rinascimento italiano
nell’ambito della prospettiva, intesa come nuovo strumento per
misurare, dominare e rappresentare il mondo, è inclusa una tavoletta
dipinta dall’architetto Filippo Brunelleschi, raffigurante l’alzato
del battistero di Firenze visto dalla cattedrale. Nella tavola, la parte
superiore posta sopra l’orizzonte non era dipinta bensì ricoperta da una
foglia d’argento lucida2. Se osservata nella giusta posizione, riflessa
in uno specchio di fronte al battistero, l’immagine sulla tavoletta si
sovrapponeva perfettamente all’edificio reale, mentre il cielo si rifletteva
nella lamina argentea. Dimostrando le potenzialità del nuovo strumento
nel proiettare lo spazio architettonico tridimensionale su una superficie
piana, Brunelleschi ne riconosceva contemporaneamente i limiti: i
movimenti della natura, come la variazione della luce e il passaggio
delle nuvole, non potevano essere ridotti alla logica geometrica della
griglia prospettica. Gli oggetti specchianti che Kapoor colloca in
spazi urbani attivano in modo analogo la tensione tra permanente
e mutevole, superandola tuttavia simultaneamente. Infatti, sulla
superficie riflettente delle sculture, non solo il cielo ma anche l’aspetto
dello skyline cambia a seconda del tempo e dell’ora, includendo inoltre
il continuo andirivieni di persone che anima la città.
Le sculture dalle forme arrotondate funzionano esternamente
come uno specchio convesso a tutto tondo, con un effetto ottico di
distorsione e riduzione che permette alle superfici lucide di catturare il
riflesso dell’intero ambiente circostante. Pertanto, le sculture riflettenti
incorporano un’immagine condensata e in movimento della piazza
nel suo proprio centro e, metaforicamente, nel centro stesso della città.
Innescano, a scala urbana, quel processo di mise en abyme caratteristico
della ripetizione di un soggetto all’interno di un soggetto – come un
quadro all’interno di un quadro o una narrazione nella narrazione –
che rivela la struttura più ampia dell’insieme secondo la definizione
di André Gide3. Il monumento riflettente può fungere da occhio
imperscrutabile che registra il movimento di coloro che, anonimi e
inconsapevoli, animano il tessuto urbano. Quando però i passanti si
avvicinano e si trasformano in osservatori, lo stesso monumento diventa
uno specchio grazie al quale gli individui possono contemplare la loro
presenza all’interno del paesaggio urbano o, camminando sotto la
scultura e scrutandone la concavità, scoprire la loro immagine assorbita
nelle profondità autoriflettenti dell’oggetto misterioso. La superficie
vasta e inclusiva dei monumenti pubblici riflettenti di Kapoor rivela il
corpo politico ideale, costituito dalla comunità degli abitanti nel cuore
della città.
Parlando dell’importanza del colore nel suo lavoro, in particolare nelle
prime opere a pigmento, Kapoor si definisce
Un pittore che è uno scultore […] A mio modo di vedere, la
scultura ha sempre riguardato la presenza nel mondo: una sorta
di emanazione dal mondo stesso, fisica, qui. Quello che ho sempre
cercato di fare – quello che penso facciano anche i pittori –
è affrontare una presenza illusoria nel mondo, una presenza
che non è necessariamente qui. È la natura stessa della pittura. (4)
Questa affermazione può anche descrivere in modo significativo la
ricerca artistica di Kapoor nell’ambito delle sculture riflettenti, iniziata
a metà degli anni novanta con opere da interno come le serie
Turning
the World Upside Down (1995, p. 135) e
Turning the World Inside Out (1995, fig. 3)5.
In effetti, anche se non proprio un mezzo attinente alla
pittura, la superficie specchiata è metaforicamente altamente pittorica.
Nella cultura europea, il concetto di rappresentazione pittorica si è
basato per lungo tempo sulla metafora speculare6. Già Leon Battista
Alberti, nel suo
De pictura (1435), sosteneva che il mitologico Narciso
fosse l’inventore della pittura perché, così come egli abbracciava con
desiderio il suo riflesso nella fonte, la pittura è «simile abbracciare con
arte quella ivi superficie del fonte» (7). Leonardo preciserà in seguito che,
come uno specchio, la pittura «abbraccia e stringe in sé tutte le cose
visibili»8. Maestro e modello del pittore rinascimentale, lo specchio
incarnava la perfezione della sua arte.
Collocando la sua pratica all’intersezione tra scultura e pittura e
fondendo la dimensione fisica della prima con la qualità illusoria della
seconda, Kapoor ripropone i termini dell’antico dibattito comparativo
tra le due arti, comunemente noto come “paragone”, che infiammò
il discorso artistico durante il Rinascimento italiano9. Nel contesto
di questa disputa, la supremazia della scultura veniva rivendicata per
la verità della sua sostanza fisica, che poteva essere attestata non solo
con la visione dell’occhio ma anche con il tocco della mano, mentre la
preminenza della pittura si basava sulla sua capacità di rappresentare
l’intero mondo visibile, compresi la luce immateriale e i fenomeni
atmosferici come nuvole, folgori e riflessi. Le superfici riflettenti
sarebbero effettivamente diventate l’arma assoluta della pittura, sia negli
scritti dei letterati sia nelle opere dimostrative dei pittori. A questo
proposito, la narrazione fondamentale ha luogo nel primo Cinquecento
a Venezia, città dalle acque riflettenti e patria del colorito pittorico.
In risposta alla pretesa degli scultori di avere il privilegio esclusivo di
mostrare una figura a 360 gradi, il veneziano Giorgione realizzò un
dipinto con un soggetto circondato da superfici riflettenti – una fonte,
uno specchio e un elemento di armatura – che ne rivelavano ogni lato.
Quest’opera perduta assurse a paradigma della pittura nella cultura
artistica italiana del XVI secolo, come dimostrato dalla trasformazione
delle sue descrizioni letterarie: per Paolo Pino (
Dialogo di pittura, 1548)
il soggetto riflesso nella fonte era un san Giorgio frontale, eponimo
di Giorgione e quindi possibile autoritratto nascosto dell’artista; per
Giorgio Vasari (
Le vite, 1568) si trattava di un ignudo, allusione al
Narciso inventore della pittura; con Giovanni Paolo Lomazzo (
Idea
del tempio della pittura, 1590) la figura rivelava infine la sua vera identità,
quella di personificazione della «Pittura ignuda nella fonte» (10).
Se nel dipinto di Giorgione, concepito in contrapposizione alla
scultura, la figura era circondata dai suoi riflessi, nelle sculture di
Kapoor, create in unione con la pittura, l’ambiente circostante si
riflette simultaneamente all’interno dell’opera. Inserendo le qualità
illusionistiche della pittura nella tridimensionalità fisica della scultura
attraverso il mezzo della superficie specchiante, Kapoor sfuma i confini
tra le due arti. Il riflesso pittorico smaterializza la forma scultorea,
mentre le curve metalliche distorcono l’ottica del riflesso, moltiplicando
e modificando l’immagine riverberata. Lo statuto ambiguo di queste
opere, refrattarie a qualsiasi categorizzazione, è accresciuto dalle loro
qualità tecniche altamente sofisticate e innovative, che contribuiscono
al potere di fascinazione nei confronti dell’osservatore. Oltre che sulla
natura di simili creazioni, ci si interroga sulla loro struttura. “Cosa
sono?”, ma anche “Come sono realizzate?”. Le superfici specchianti
richiedono un’elevata padronanza tecnica, sia nella modellazione
materiale sia nella rappresentazione pittorica, motivo per cui sono
diventate il locus dell’invenzione e della perfezione virtuosistica fin dal
loro affinamento nel primo periodo moderno. Quando nelle Fiandre del
XV secolo il perfezionamento della tecnica di pittura a olio raggiunse
effetti di trasparenza e consistenza senza precedenti nell’opera di Jan van
Eyck e dei suoi seguaci, le superfici riflettenti come gli specchi convessi
divennero l’oggetto dimostrativo per le potenzialità del nuovo medium
pittorico. Scoprendo i dipinti di Van Eyck, gli umanisti italiani rimasero
stupiti dalle qualità illusionistiche dei riflessi che apparivano come in un
vero specchio11, mentre gli artisti cominciarono a scrutare la superficie
pittorica nel tentativo di carpire il segreto della nuova tecnica. La
superficie pulita e continua delle sculture riflettenti di Kapoor – un
assemblaggio di molteplici placche metalliche, dissimulato grazie a
una lucidatura estremamente raffinata – si presenta senza cuciture. Il
mistero della sua impeccabile fattura, che non reca traccia di intervento
umano, suscita “maraviglia”: quel senso di prodigiosa sorpresa che è
una delle chiavi del piacere estetico.
Anish Kapoor, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio
Note
1. Anish Kapoor. Past Present Future, catalogo della mostra (Boston, Institute of Contemporary Art,
30 maggio - 7 settembre 2008), a cura di N. Baume, Cambridge (MA) 2008.
2. H. Damisch, L’origine della prospettiva, trad. di A. Ferraro, Napoli 1992, pp. 75-174.
3. A. Gide, Diario. Vol. 1 / 1887-1925 [1893], a cura di P. Gelli, Piero, trad. di S. Arecco, Milano 2016;
L. Dällenbach, Il racconto speculare. Saggio sulla mise en abyme, trad. di B. Concolino Mancini, Parma 1994.
4. Je n’ai rien à dire. Entretien avec Anish Kapoor / I have nothing to say. Interviews with Anish Kapoor, a cura
di R. Leydier, Paris 2011, p. 15 (intervista di Douglas Maxwell, 1990).
5. Anish Kapoor. Turning the World Upside Down, catalogo della mostra (Londra, Serpentine Galleries,
Kensington Gardens, 28 settembre 2010 - 13 marzo 2011), London-Köln 2011.
6. V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro, trad. di B. Sforza, Milano 2013.
7. Leon Battista Alberti, De pictura, a cura di C. Grayson, Roma-Bari 1975, II, p. 26.
8. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, a cura di E. Camesasca, Vicenza 2000, I, p. 36.
9. Cfr. S. Hendler, La Guerre des arts. Le Paragone peinture-sculpture en Italie, XVe-XVIIe siècle, Roma
2013, con bibliografia precedente.
10. Cfr. D. Arasse, Les miroirs de la peinture, in L’imitation, aliénation ou source de liberté?, Paris 1984,
pp. 63-88.
Anish Kapoor, Angel 1990, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska Oknostudio