Su invito di Susanne Pfeffer, Anne Imhof ha realizzato per il Padiglione Tedesco alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia un lavoro titolato “Faust”. Nell’adattamento sculturale agli spazi e alla situazione, la nuova opera, concepita insieme al consueto team di performer, si moltiplica in nuove composizioni. “Faust” consiste da un lato in una messa in scena di oltre cinque ore, dall’altro in uno scenario fisso, che permane per tutti i sette mesi. Esso è costituito da una dinamica performativa, un’installazione sculturale, una riduzione pittorica e una precisa coreografia degli angoli di visuale e dei movimenti che comprende l’intero padiglione. “Faust” diventa così una presenza assoluta, la cui essenza si trasmette all’osservatore in modo immediato e istantaneo: uno spazio, una casa, un padiglione, un’istituzione, uno stato. Il pavimento e le pareti in vetro penetrano lo spazio in maniera fluida, cristallina e dura, come avviene nei centri del potere e del denaro. Confini spaziali che tuttavia rivelano ogni cosa rendendola visibile e controllabile.
Anne Imhof e Susanne Pfeffer
In conversazione
SUSANNE PFEFFER : Tu non solo lavori a livello di performance, ma fai in modo che il padiglione diventi un’installazione; oltre a mostrare qualcosa, i dipinti e gli oggetti scultorei fanno sentire composizioni di suoni. Per me l’attualità del tuo lavoro risiede anche in quel tuo modo sempre nuovo di formattare e sovrapporre piani formali e figurativi così diversi. Com’è venuto a crearsi tutto ciò, ti sei mossa a poco a poco passando da un medium all’altro scegliendo poi nuovi mezzi oppure hai sempre lavorato parallelamente con media differenti?
ANNE IMHOF : Durante i miei esordi a Francoforte, all’età di poco più di vent’anni, facevo tanta musica e suonavo in una band. Ho cominciato a disegnare e dipingere quand’ero molto giovane. Ho sempre desiderato diventare un’artista. Ma naturalmente ogni medaglia ha il suo rovescio e la socializzazione individuale è molto diversa. Dunque in che modo s’impara a vedere le immagini, a leggerle e ritenerle importanti per se stessi? Ho iniziato a comprenderlo dal momento in cui ho cominciato a condividere le immagini con altri. Per me è stato importante tirarmi indietro e guardare dalla prospettiva del fruitore. La prima volta è avvenuto quando ho cominciato alla scuola d’arte Städel e qualcuno ha visto i disegni e i lavori pittorici con cui avevo cominciato molto tempo prima, a dieci o undici anni.
Anne Imhof, Faust 2017. 57. La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva
SP : I tuoi esordi musicali hanno forse influenzato la decisione di lavorare con corpi e con performer?
AI : È stata davvero una possibilità di aprirmi verso qualcosa. Fare un pezzo performativo è stato quasi uno sviluppo ulteriore di questa situazione e anche un combinare la mia musica con i miei disegni. Aprire il concerto in maniera formale e presentarlo come una sorta di quadro, questo per me funzionava, anche perché potevo fare degli errori e sperimentare molto. Da allora, un aspetto importante del mio lavoro è che le casualità giocano un ruolo fondamentale nella genesi delle immagini. Credo ci siano dei parallelismi molto forti tra il mio modo di concepire un lavoro che, alla fine, viene presentato come una performance e tra il mio modo di costruire un’immagine bidimensionale. Sono le stesse riflessioni a livello di prospettiva, a livello di gesto; a svolgere un ruolo sono gli stessi simbolismi, il portamento del corpo, la struttura, perfino il colore.
SP Anche nelle prove contano soprattutto il processo, lo scoprire insieme e l’improvvisazione.
In un’intervista di Hans Ulrich Obrist hai raccontato che la tua prima opera ha avuto luogo in una via di Francoforte, la Münchener Straße. Fino a che punto questo tuo primo pezzo era inscenato o volutamente predisposto?
AI : Hans Ulrich Obrist mi aveva chiesto del mio primo lavoro e io ho riflettuto chiedendomi quando, per la prima volta, avevo pensato di aver fatto arte. Allora mi è venuta in mente quella serata nel quartiere della stazione di Francoforte. Avevo organizzato un incontro di pugilato in un locale preso in affitto, un tabledance bar, al di fuori del consueto orario di apertura. Non sapevo bene cosa avrei fatto in realtà. Ho invitato i pugili, ho invitato gli spettatori e ho ingaggiato una band. Quest’ultima avrebbe dovuto suonare durante l’incontro. Fino a quando la band suonava, quelli dovevano combattere e, fino a quando combattevano, la band doveva suonare. Non c’era dunque via d’uscita.
SP : E per quanto tempo hanno lottato?
AI : Non me lo ricordo esattamente, è passato un bel po’ di tempo, era prima degli studi, ma c’erano nasi sanguinanti. Mi sono anche un po’ spaventata, c’era molto rosso dappertutto, nel bar e sui nasi. A posteriori ho capito che era un modo di creare un’immagine. Mi interessava la boxe, il suo colore. A quel tempo avevo un sacco da boxe appeso nel mio appartamento e volevo diventare una pugile.
SP : Hai un rapporto molto particolare con i fruitori, perché loro stessi sono parte dell’evento e possono decidere da sé se andarsene dopo cinque minuti o restare per sei ore. Il fatto che questo momento non sia prestabilito lo vedo come un atteggiamento del tutto consapevole da parte tua, un atteggiamento che lascia molta libertà. Hai elaborato questa scelta netta di un inizio e una fine quale differenziazione da altre performance o, infondo, essa deriva dal primo pezzo al tabledance bar?
AI : No, fin dall’inizio volevo che i pezzi avessero un inizio e una fine, che fosse limitato il tempo in cui qualcosa ha luogo e in cui gli incontri hanno luogo, volevo che un’opera non fosse definita da un qualche orario d’apertura. Parallelamente c’è la durata dell’esposizione che, come un pezzo, ha una sua temporalità. Non vorrei che l’opera sembrasse esserci per sempre, perché non c’è per sempre. Non è però pensata come un lavoro teatrale, bensì come un quadro che, per l’appunto, dura solo qualche ora. Io do finitezza al tutto.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : All’interno della performance ci sono degli sviluppi chiaramente coreografici e dei movimenti provati nei dettagli, perfino nella gestualità delle dita. D’altra parte lavori molto con l’individualità delle singole persone che improvvisano muovendosi entro queste strutture prestabilite. Come si è sviluppata per te questa modalità di collaborazione?
AI : Durante i preparativi ci sono processi che si svolgono insieme e altri in cui sono da sola nello studio. Con il mio team lavoro a una forma che nasce attraverso l’improvvisazione. Ciò vale sia per un lavoro a un pezzo nuovo sia per la produzione nello studio. Le persone con cui collaboro per i miei pezzi sono piene di talento e ci mettono qualcosa di proprio nel lavoro. Per i pezzi vi è certo un regolare canovaccio, sul quale mi accordo con loro, ma al momento dell’esecuzione spesso viene cambiato, ignorato o infranto. Come una legge. E poi si aggiunge un’altra componente, i fruitori, anche ad essi gli sviluppi devono reagire.
SP : Una volta hai raccontato che già nelle prime prove – quando parlate di come si sviluppa il pezzo, dei movimenti e di ciò che può essere il movimento – lavori non solo con le parole, ma anche con i disegni, cosicché il piano iconico è, ancora una volta, decisivo per il processo.
AI : Cerchiamo di trovare un linguaggio con cui poter comunicare intorno all’opera. Il disegno è il medium con cui meglio so articolarmi. Ma naturalmente parliamo anche tanto, discutiamo e sperimentiamo; a volte ci sono però delle pose, per esempio l’inclinazione del capo, che riesco a rendere meglio disegnandole anziché facendole vedere. I miei dipinti e i disegni si fondano su scelte compositive molto simili a quelle delle performance. Lavorare con delle linee, collocare delle figure in uno spazio bi- o tridimensionale. Ci sono quindi processi paragonabili, ma resta comunque importante che, da una parte, ci sia la pittura o il disegno e, dall’altra, un pezzo. E poi le figure sono persone che magari, da un momento all’altro, vogliono qualcosa di diverso rispetto a quello che voglio io.
SP : Una particolarità delle tue opere è costituita dai diversi contesti da cui provengono gli interpreti: per alcuni, l’arte figurativa, per altri, la musica, per altri ancora, la filosofia, per qualcuno poi, la danza o la performance. E sebbene tu non venga dal mondo della danza, nei pezzi più recenti ci sono sempre più movimenti che ricordano appunto quelli della danza.
AI : C’è anche una giurista. La riflessione comune su determinate cose, nonostante tutti provengano da diversi ambiti di interesse, è una grande parte del lavoro. Quello che cerco sempre di favorire è, da un lato, l’elemento figurale, il lavoro concreto sui corpi nel tempo e nello spazio in cui ci troviamo; dall’altro, l’astrazione di movimenti molto comuni o tratti da contesti comuni. I movimenti si ripetono fino a quando lo spostamento di significato non diviene evidente e non si può più dire quale fosse veramente. Come, a volte, anche in pittura utilizzo un colore fino a quando non so più come sia, fino a quando non ricordo più il rosso che ho appena fatto.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : Una volta hai raccontato che osservi quotidianamente come cambiano i movimenti delle persone. Hai narrato una scena d’addio in cui un uomo voleva mostrare il dito medio alla sua ragazza mentre scendeva dal treno, ma era talmente ubriaco che il gesto si è, per così dire, capovolto. Questo rovesciamento di un gesto è un momento che si ripete nel tuo lavoro. È al contempo un momento d’astrazione quello che stai cercando?
AI : Sì, prima osservo e poi comincio a far scomparire quel semplicissimo gesto che tutti conoscono, in modo da renderne complesso il significato. La figura scivola via e poi ritorna sempre. Questo momento si presenta molto spesso ed è particolarmente interessante il fatto che veniamo da ambiti così differenti e poi collaboriamo – Josh Johnson, per esempio, è un ballerino, mentre Franziska Aigner viene dall’ambito della filosofia – i segni vengono dunque interpretati in modo diverso e tutti hanno competenze differenti.
SP : Sebbene l’attuale idea di scultura sia molto lontana dal tuo lavoro, anche la componente scultorea occupa uno spazio importante. Tu parli di props, ovvero di oggetti o readymade che vengono poi utilizzati dagli interpreti delle performance. A volte, però, questi sono disfunzionali e divengono oggetti scultorei nello spazio. Forse che lo stesso processo d’astrazione si svolge fra questa disponibilità di un oggetto come articolo d’uso comune, nel suo branding e nelle sue proprietà formali?
AI : Nella maggior parte dei casi è la superficie ad essere determinante, soprattutto il colore. Questa era spesso la base da cui partivo per scegliere gli oggetti nei pezzi d’un tempo, per esempio, mi chiedevo quali barattoli si consumano oppure dove e per quanto tempo fanno la loro comparsa, dove vanno a finire. Fino a che punto si può controllare tutto ciò, fino a che punto ciascun individuo può controllarlo, come influenza il quadro generale?
SP : Che cosa significa per te l’assunzione di liquidi che così spesso è presente nei tuoi pezzi?
AI : Prima di tutto, credo che abbia un carattere simbolico e, secondariamente, si propaga e scorre, ciò era piuttosto evidente soprattutto al museo del Hamburger Bahnhof a Berlino, perché i liquidi si erano propagati così tanto da scorrere lungo le pareti. Naturalmente, ciò ha a che fare anche con il colore e, in generale, con la configurazione visiva dello spazio.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : Al Hamburger Bahnhof c’era la scena impressionante in cui Eliza Douglas veniva portata sulle spalle da Josh Johnson e condotta attraverso lo spazio spruzzando una linea sulla parete. Per me era molto forte questa presa di possesso dello spazio, questo modo di appropriarsi dello spazio e affermare il proprio spazio.
AI : Ho cominciato a collocare e cogliere la figura nello spazio. Ho anche immaginato cosa potrebbe accadere all’edificio in un lontano futuro. In sostanza, ho fatto delle riflessioni chiedendomi come qualcuno che conosce questo spazio si muove e come appare in esso, e che aspetto ha chi pure conosce questo spazio, ma ci viene per un altro motivo rispetto a quello di chi lo vede. La prima volta che sono stata al Padiglione, esso mi sembrava molto grande. Vista da fuori, la sua architettura mi ha sopraffatta in un modo completamente non proporzionato al resto del mio corpo. Non appena si entra, fa anche un po’ l’effetto di una chiesa. Vedo la navata centrale e quelle laterali, i cui vani delle porte non hanno alcun senso per me, poiché non consentono di vedere nello spazio successivo, ma in realtà fanno sì che soprattutto il corpo appaia più piccolo. Quando sono andata via da Venezia, lo spazio è tornato ad essere più piccolo nella mia immaginazione. E come per uno strano effetto fisarmonica, ridiventava più grande quando ci tornavo la volta dopo. Un’idea era poi quella di consentire ai corpi di porsi in una relazione.
SP : Qual è stato il tuo modo di procedere volendo sfruttare uno spazio non tanto semplice come quello del Padiglione Tedesco?
AI : Ho cominciato a collocare e cogliere la figura nello spazio. Ho anche immaginato cosa potrebbe accadere all’edificio in un lontano futuro. In sostanza, ho fatto delle riflessioni chiedendomi come qualcuno che conosce questo spazio si muove e come appare in esso, e che aspetto ha chi pure conosce questo spazio, ma ci viene per un altro motivo rispetto a quello di chi lo vede. La prima volta che sono stata al Padiglione, esso mi sembrava molto grande. Vista da fuori, la sua architettura mi ha sopraffatta in un modo completamente non proporzionato al resto del mio corpo. Non appena si entra, fa anche un po’ l’effetto di una chiesa. Vedo la navata centrale e quelle laterali, i cui vani delle porte non hanno alcun senso per me, poiché non consentono di vedere nello spazio successivo, ma in realtà fanno sì che soprattutto il corpo appaia più piccolo. Quando sono andata via da Venezia, lo spazio è tornato ad essere più piccolo nella mia immaginazione. E come per uno strano effetto fisarmonica, ridiventava più grande quando ci tornavo la volta dopo. Un’idea era poi quella di consentire ai corpi di porsi in una relazione con lo spazio che fosse umana. E volevo che lo spazio restasse trasparente, che non ci fosse alcun rivestimento né mascheramento che celasse lo spazio e la sua storia.
SP : Perché hai deciso di lavorare con lo spazio del Padiglione e non contro di esso?
AI : Per dare sufficiente importanza alle opere che, alla fine, vi si vedranno, di modo che esse possano tener testa allo spazio, senza però farlo diventare motivo conduttore del mio lavoro. La durezza dell’edificio è per me una sfida, ma anche un’occasione. Perché anche se seguo un po’ lo spazio, per sottolinearne l’architettura, il mio lavoro comunque si contrappone ad esso. Il mio non nascondere l´architettura ma lasciarla invece cosí com´è, è un commento intenzionale. Nell’architettura risiede una brutalità a cui posso rispondere.
SP : Al momento lavoriamo all’inserimento di un pavimento in vetro nel Padiglione, grazie al quale si avrà uno spostamento delle proporzioni fra corpo e spazio. Che ruolo ha il vetro, per te, come materiale?
AI : La materialità del vetro è dura, ma trasparente. Tutto ciò che resta dietro di esso resta visibile. Con il pavimento posso introdurre una superficie, un piano, senza che qualcosa scompaia dietro di esso. Il vetro può separare le cose e rendere ripercorribile questo processo. Inoltre, attraverso l’utilizzo di questo materiale si pongono in relazione due architetture legate al potere. Dovunque si tratti di soldi e potere, per esempio negli edifici delle banche, il vetro è il materiale dominante, il nudo vetro nelle diverse esecuzioni. La cosa che piú mi interessava del pavimento, era che i corpi di tutti quelli che sarebbero entrati nel padiglione sarebbero stati sollevati da terra. Possiamo, così, avvicinarci all’edificio in maniera diversa. D’altra parte il corpo acquista un peso che può anche diventare pericoloso perché, se cade, cade sul vetro. Nonostante la durezza e la stabilità del materiale, anche se il pavimento potrebbe reggere più di 600 persone, per me il vetro evoca pure fragilità e liquidità.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : Francis Bacon mostrava i suoi quadri dietro al vetro. Egli intendeva ridurre la componente pittorica e rafforzare il rapporto tra figura e spazio. Apparentemente, un’analoga riduzione del rapporto fra linea e figura, nei modi in cui compare anche nel tuo lavoro.
AI : Questo lo posso capire molto bene. E anche il fatto che in un certo modo il vetro ti permette di concentrare la tua attenzione nello spazio in cui ti trovi e, allo stesso tempo, riflette indietro la tua immagine.
SP : A Venezia lo spazio esterno del Padiglione diverrà anch’esso parte del lavoro. Tu non riduci l’area espositiva allo spazio interno, bensì concepisci l’intero edificio come un corpo che osservi e che utilizzi, sia internamente che esternamente.
AI : Per me è stato importante pensare all’accesso del Padiglione. Nei Giardini ogni padiglione ha un suo ambito e una sua nazione. Ma dove finisce questo ambito se si concepisce l’edificio come un corpo, dove finisce quest’ultimo e dove comincia il corpo dell’Altro? Qual è il suo aspetto e fino a che punto si può vedere la sua pelle, dunque i suoi confini? Ecco allora che le colonne del Padiglione suscitano il mio interesse, divengono un elemento centrale. Nella sua grandezza, il portico rappresenta uno spazio intermedio.
SP : Sentirti parlare del rapporto fra corpo e pelle come confine mi ricorda l’importanza che ha svolto, per esempio, l’ombelico in Angst (Paura), allora inteso come punto d’unione o come taglio.
AI : E soprattutto come simbolo di origine. In questo contesto ho attribuito all´esibizione dell´ombelico e alla sua relativa rasatura una grande importanza, sia nel pezzo, che nel dipinto. La rasatura dell’ombelico era quasi un momento operativo per immaginarsi la sua separazione. D’altro canto, dipingere sulla superficie della pelle era come una carezza. Gli stessi pensieri li associo anche alla superficie della tela e alla sua materialità.
SP : In fondo, la rasatura è di per sé una bizzarra tecnica culturale. E nel tuo lavoro è stato interessante vedere che i performer si siano spesso rasati anche le piante dei piedi o altri punti dove i peli non crescono, al fine di rendere tale gesto un rituale svuotato del suo significato.
AI : Per me aveva a che fare anche con un modo perverso di lavarsi. Anche dopo la masturbazione, di solito, ci si lava il palmo delle mani. E la sua relativa rasatura derivava per l´appunto da quest’idea.
SP : La masturbazione ha di certo un ruolo importante nel tuo lavoro a Venezia. Qui un´immagine che cerchi di riprendere, è sia il portamento fisico del cane che l´immagine degli stessi cani. Com’è nata l’idea di lavorare con i cani?
AI : Trovavo valido il nesso fra cane e abnegazione. Così come pensare al cane e all’uomo insieme, in fase di trasformazione.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : Questo puó essere interpretato sotto diversi punti di vista: il cane può essere inteso come addomesticamento del Padiglione, nel senso che quest’ultimo diviene luogo domestico. Viceversa, il cane può esprimere anche l’addomesticamento di sé stesso o può essere concepito nella funzione di guardiano.
AI : I cani sono anche un vezzo, uno status symbol e una proprietà. A me interessa proprio questa ambivalenza. E anche l’impressione di qualcosa di abbandonato, qualcosa che è già passato ma che comunque va ancora gestito, fatto camminare. Pure nel senso di decadere e cadere. Avere dei cani dove non ci sono persone, e quindi il cane quale surrogato dell’assenza di un corpo umano. I cani semplicemente ci sono. Allo stesso tempo ho immaginato cosa avverrebbe se i loro movimenti si trasferissero nelle figure dello spazio e come sarebbe se qualcuno si muovesse a quattro zampe davanti a qualcun’altro. Volevo poi che lo spazio fosse aperto ma non completamente accessibile, anche se si può vedere tutto.
SP : Come per i piani del pavimento in vetro, anche la recinzione che costruiremo davanti al Padiglione rappresenta sempre una separazione, e qui in misura ancor maggiore, un confine territoriale che al tempo stesso racchiude ed esclude. Nel tuo lavoro con gli interpreti della performance, fino a che punto cogli il rapporto fra potere e impotenza?
AI : È di questo che si tratta, sotto molti aspetti. In che misura dei movimenti semplicissimi – come chinare il capo oppure inginocchiarsi – sono legati a delle gerarchie? In che misura sono segno di dedizione agli altri, un segno per far sapere agli altri che li si comprende nella loro alterità? Questo viene presentato nello spazio sotto forma di quadro. La figura si fa ritratto.
SP : Intendi il ritratto nel senso di rappresentazione di un individuo o come quadro di una società?
AI :Intendo il ritratto più come una forma di osservazione e rappresentazione di un individuo, dunque la forma con cui la/lo colgo o ricordo. Nel mio lavoro spesso si tratta di fare un ritratto senza poter dare un nome a chi viene rappresentato o senza che qualcuno sia rimasto in posa. Ciò si basa spesso su immagini o fotografie che raccolgo, che ricordo e che non devo per forza andare a riguardare.
SP : Del tuo lavoro si è continuamente parlato usando il concetto di tableau vivant. Non mi pare però sia una descrizione azzeccata, poiché c’è la consapevolezza da parte dei performer che, nel momento in cui entrano in scena, sanno di diventare “quadro”. Spesso il tuo modo di procedere è cominciare con un’immagine, poi continuare con la performance, fotografarla, dipingerla sulla scorta delle fotografie creando diverse formazioni di figure che poi, a loro volta, influenzano la performance. Attraverso questa formattazione dell’immagine nascono costantemente singole rappresentazioni di un movimento svincolato dalla sua continuità. Come se l’evento si scomponesse in singole immagini già nel momento in cui lo si guarda.
AI :Per me un pezzo funziona come un dipinto. Questo “divenire quadro” è il vero e proprio lavoro. Come compongo un quadro generale e qual è il rapporto fra il tutto e le singole parti – che vengono a crearsi – come si sviluppano in direzione del tutto e come si possono formulare le immagini nei diversi medium?
SP : Si tratta dunque di una procedura di rinvenimento delle immagini?
AI :Sì, assolutamente. E la si può anche rappresentare e rendere manifesta. Ma nella mia pratica non fa molta differenza se alla fine sfocia in una performance oppure in un dipinto. Naturalmente, nel lavoro performativo c’è un processo collaborativo e dunque vi sono più menti che lavorano all’astrazione.
SP : Qual è il ruolo svolto dai fruitori quando sviluppi i movimenti fino all’astrazione, di modo che non possiamo più attribuirli ad alcun referente?
AI :A volte un movimento esiste soltanto per tirar fuori qualcos’altro. Così, la bocca aperta talvolta non è più una bocca, bensì un’apertura nera che si delinea in relazione con qualcos’altro di parallelo. Questi momenti hanno senso solamente partendo dalla prospettiva dei fruitori. Per tale ragione è così importante il posizionamento individuale nello spazio. Dunque, occupare una posizione e poi abbandonarla, cambiare direzione pensando a come cambia la visione di chi guarda. A Venezia, per la prima volta, questi movimenti si svolgeranno non solo in orizzontale, ma anche in verticale, come in un’arena, ma senza centro.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
SP : Occupandoti dello sguardo in un modo cosí meticoloso, risollevi una tematica classica della storia dell´arte.
AI : Mi appassiona particolarmente il rapporto di sguardi all’interno di un quadro, spesso del tutto indipendente rispetto allo sguardo del fruitore. E di conseguenza la realizzazione del gioco di sguardi fra le figure ritratte nel dipinto stesso.
SP : Insiema al collocamento, queste assi visive sono un momento decisivo nel tuo modo di lavorare alla suddivisione, alla conduzione dei corpi nello spazio. Negli ultimi anni la biopolitica ha sostanzialmente assunto un valore completamente nuovo e diverso nella nostra società. Lo vediamo da come sono cambiate le modalità di trattare il corpo, per esempio, da quali liquidi assumiamo ed espelliamo. Come credi si stiano trasformando i nostri corpi oggigiorno?
AI : Nei miei pezzi c’è un continuo conflitto tra la struttura data e le persone che vi agiscono. I corpi sono sempre anche il prodotto della situazione che li circonda, delle tecnologie e delle forme di potere che in essi s’imprimono. In quanto tali, sono adatti a fungere da materiale dimostrativo. Mi interessano soprattutto gli effetti di superficie e i relativi riflessi. Come si presenta un corpo e cosa significa mettersi a nudo, se non si vuole essere nudi, cosa significa oggi assumere una posizione e mostrarsi, come si viene guardati e come si risponde agli sguardi?
SP : Sono affascinata dalle modalità con cui gli spazi più differenti si spostano e si sovrappongono attraverso il suono, in senso figurato e, molto concretamente, architettonico. C’è lo spazio che gli interpreti descrivono con il loro corpo, lo spazio aggiunto dalla musica, lo spazio effettivo e poi, tra di essi, i vuoti con cui lavori.
AI : Al Hamburger c’era la nebbia che avevo scelto per configurare lo sfondo monocromo in bianco, facendo così sfumare l’architettura dell’edificio e aprire nuovi spazi temporanei. Era il tentativo di creare una superficie piana sulla quale molte cose accadevano parallelamente, senza riuscire ad avere una visione d’insieme da una prospettiva centrale. Quel che voglio dire è che la musica nel mio lavoro configura lo spazio in maniera analoga. Suoni e silenzi creano superfici o generano spazi nello spazio e in questi colloco delle figure. Le composizioni musicali per il Padiglione Tedesco le faccio insieme a Billy Bultheel ed Eliza Douglas. La musica è concepita in maniera più quieta rispetto ad Angst (Paura), che riprende le strutture operistiche e gioca con le aspettative suscitate da un concetto così ampio. E da quando c’è Eliza, nei pezzi è ritornato anche il canto, di cui prima mi occupavo soltanto io. Così, ora ci sono strutture di lied più classiche e le voci sono divenute più importanti.
SP : È difficile, quasi impossibile creare una buona acustica nel Padiglione Tedesco e sono davvero impressionata da come affrontate la cosa. Il lungo eco nello spazio non è per voi un problema da eliminare, vi chiedete piuttosto come superare le superfici e le distanze in uno spazio del genere. In tal modo, lavorate con lo spazio, non contro di esso. Ma qual è il vostro modo di procedere?
AI : A Venezia non solo abbiamo lavorato intorno allo spazio, ma anche, concretamente, dentro allo spazio; abbiamo effettivamente provato cosa succede quando vi si sussurra e quanto tiene la voce se si canta un tono e quanto tiene quando lo si grida. Che grida ci sono, le si sente dall’esterno oppure no? Il tema musicale su cui s’incentra il pezzo è come una melodia antichissima, insita in ogni cosa. Essa si ripresenta sempre nelle diverse composizioni, se ne fa un accenno, in modo che si possa ricordare, poi la si astrae nuovamente fino a renderla irriconoscibile.
SP : Ciascuno dei tuoi pezzi è diverso, proprio come ogni singola esecuzione che si sviluppa nell’interazione con i fruitori e che dunque dipende anche da essi.
AI : Nel momento in cui si aggiungono gli altri non si sa più esattamente chi in realtà configura cosa, né chi sceglie cosa. Chi conduce e chi segue? Tutti sono insieme in uno spazio ed è solamente per questa ragione che accade. Anche se il quadro sembra essere indipendente, la presenza del fruitore è un qualcosa che non possiamo mai provare prima. Un quadro non funziona senza colui che lo guarda.
Anne Imhof, Faust, 2017. Foto: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon
Anne Imhof. Faust