Canto n. 1 (Progetto per un film), 2008 Plexiglas, smalto acrilico, acciaio, resina epossidica, impianto elettrico per luce artificiale, lampa-da elettrica 500 wt
Caro Alfredo,
in questo primi mesi estivi, nonostante il caldo eccezionale, sei sempre molto impegnato e, tra un viaggio e l'altro, stai lavorando a tre mostre che apriranno a breve in Toscana. Si tratta di tre progetti autonomi per tre luoghi diversi che trovano però una radice comune nel tuo profondo interesse per il rapporto tra arte e architettura. Le tante sfaccettature del tuo lavoro, naturalmente, non sono riassumibili in (poche) parole, ma mi sembra che la continua attenzione allo spazio, alle superfici, al colore, alla luce - e alle loro possibili risonanze - ti portino sempre, con modalità ogni volta diverse, a "costruire luoghi".
Alfredo Pirri : Costruire luoghi, o meglio comporre luoghi, è il fine stesso dell’arte. Ogni opera è un luogo, spaziale, emozionale, temporale… Penso non esista un’opera piatta, anche il quadro è un luogo, anzi è il luogo per eccellenza perché apre spazi e fondali nuovi proprio dove sembrerebbe esserci solo una superficie stesa davanti a noi come un lenzuolo messo al sole che però a differenza d’esso non asciuga mai. Alla domanda che capita d’ascoltare: Quando consideri finito un lavoro? La risposta migliore è: Mai, ovvero quando è asciutto e una vera opera non è mai asciutta.
Arabella Natalin : Probabilmente questo è uno dei motivi per cui spesso le tue opere hanno “molteplici vite”, o forse meglio dire, si accrescono e si trasformano nel tempo... A Pietrasanta, nella personale che inaugurerai ad Agosto, presenti alcuni lavori su carta realizzati in periodi diversi che vanno a riconfigurarsi dialogando tra loro e con lo spazio ospitante. Puoi dirci come nasce questa mostra e come intendi questo "luogo"?
AP: A Pietrasanta, la carta sarà un supporto a volte difficile da riconoscere. Le tre pareti principali della galleria saranno impegnate con lavori in cui questa materia trasmuta la sua natura pur restando predominante in tutti i lavori. La sua qualità di prendere forma attraverso le pieghe creando ombre colorate (come nelle opere che hanno per titolo proprio la parola pieghe), oppure di ospitare il colore come fosse una materia vetrosa, scivolosa e trasparente (come nei grandi acquerelli dal titolo Acque), o sarà assunta come materiale preesistente ma irriconoscibile per via del lavoro pittorico e quasi illuminotecnico (come nell’opera intitolata Croce) in cui il senso della composizione è assunto direttamente da quello della materia d’origine, ovvero delle scatole di cartone che evocano già di per sé il senso di un misterioso nascondere e rivelare. Lo spazio sarà quindi avvolto, e avvolgente, da fenomeni di differente tipo che insieme porteranno chi guarda a porsi domande sulla propria posizione dentro lo spazio ma non per via di trucchi percettivi, del tutto assenti nelle opere, ma per la loro dimensione narrante.
AN: A partire da un supporto bidimensionale, hai realizzato degli "spazi di luce" che vivono in un'atmosfera sospesa, atemporale, in continuo slittamento tra diverse dimensioni fisiche. Nella loro difformità, cronologica e di formato, Acque, Croce e Pieghe danno vita a un insieme armonico e coerente che tratta la superficie pittorica come elemento prettamente spaziale, una "rappresentazione" di significati che evoca, per sottrazione, elementi e immagini. Ma, come tutte le opere, sono anche oggetti fisici e questi, in specifico, sono oggetti realizzati in occasioni diverse. Ci vuoi dire qualcosa della loro genesi e del loro processo di realizzazione?
AP: Io non faccio differenza fra stati fisici e immaginifici. Credo che l’immaginazione sia più libera d’aprirsi se intrappolata dentro una dimensione reale che n’accudisca il desiderio e lo educhi a ricercare il modo e la forma migliore perché questo diventi un erotismo maturo. Le opere in mostra sono da immaginarsi come capitoli di uno stesso romanzo che ha come soggetto il tentativo di raccontare qualcosa di concreto, o addirittura quotidiano, attraverso un linguaggio non propriamente narrativo. L’acqua scivola su grandi superfici che messe una accanto con l’altra fanno quasi un muro di pioggia congelato in una posizione come fosse il fotogramma di una storia più grande e di un evento maggiore. La luce si nasconde come in una tana dentro fogli di carta per acquerello di formato standard dove non è dipinto nulla d’evidente se non l’evidenza stessa di un fenomeno in transito che non si sa se è già accaduto lasciandoci un’ombra oppure se sta per formarsi. Ci sono poi due scatole di cartone di cui una è aperta fino a diventare una superficie, l’altra invece è appena schiusa: quella appena aperta è sovrapposta all’altra diventata ormai piana dando forma a una celebrazione luminosa. La scatola in aggetto indica con le sue braccia aperte a forma di croce i quattro lati cardinali che originano da un luogo chiuso e illuminato in maniera palese da un lato l’unico dipinto che irradia col proprio colore l’interno come fosse un cuore che pulsa.
AN: Hai spesso sottolineato il tuo essere pittore e anche come le discipline artistiche, nonostante le mode, debbano restare distinte. Mi sembra però che queste possano trovare un punto d'incontro proprio nella tua concezione dell'architettura "intesa come spazio ma anche luogo di relazioni 'archetipali' ". Me ne parleresti ancora?
AP: L’architettura è la prima forma di conoscenza dello spazio, sia inteso come luogo chiuso che in relazione con quello aperto o addirittura infinito, basti pensare al tumulo come una delle prime esperienze che mette in contatto la terra col cielo; allora tutto è architettura perché tutto accade nello spazio come principio d’ogni esperienza visiva o sensibile. Ma se è vero che tutto è architettura è altrettanto vero che questo tutto va composto attraverso pratiche singole e distinte affinché il tutto si trasformi realmente in architettura, ovvero in architrave che regge il cielo ancorandolo alla terra. In tal senso la pittura è l’atto che ne delinea e prevede ogni possibile strategia forse progettandone le fondamenta e allo stesso tempo proiettandosi in alto come una luce rivolta verso il cielo.
All’orizzonte, 2004 Vernici acriliche su plexiglas, cartone museale, legno e silicone (installazione composta da 6 elementi, misure variabili)
AN: Un elemento costante del tuo lavoro è senza dubbio un uso peculiare della luce. Tutte le tue opere ne sono "portatrici", ma vorrei prendere come caso esemplare La Gabbia d'oro, progettata per la Chiesa del Giglio di Palermo, dove hai ideato un omaggio alla pittura e alla luce. La luce che si nebulizza crea uno spazio vibrante che è tanto fisico quanto impalpabile. A cosa sei più interessato, a un contrasto, alla sovrapposizione o a una loro integrazione? Parleresti di un accostamento di sensibile e sovrasensibile?
AP: Bella l’immagine di una luce nebulizzata! Le rende quello che le manca per renderla reale ai nostri sensi, purtroppo incapaci di cogliere in maniera chiara qualcosa di tanto piccolo da sembrarci inesistente. E’ solo una questione di scala, di dimensioni, di come riusciamo a sentire vero tutto quanto è troppo piccolo o troppo grande. La Gabbia d’oro a Palermo muove proprio dalla necessità di mettere in contatto piccolo e grande. Realizzare un’opera monumentale dentro cui qualcuno si possa chiudere volontariamente e dentro uno spazio doppiamente racchiuso (una gabbia metallica dentro una vecchia chiesa in muratura) che ha quindi intorno, come pareti, uno strato trasparente di disegni realizzati in rete metallica che galleggiano in un volume in muratura. Un sistema di trasparenze e di luce proiettata contemporaneamente verso l’esterno e l’interno che noi non abbiamo mai la possibilità di sperimentare, a differenza dell’usignolo che racchiuso in gabbia canta la sua melodia che noi ci illudiamo di catturare e immaginiamo composta apposta per noi.
AN: Nella Gabbia hai messo però in campo anche un altro aspetto importante creando uno spazio solitario che si rinforza con la condivisione, uno spazio dell'immaginazione dove ognuno di noi può incontrare l'altro.
Come vedi il rapporto tra collettività e creatività individuale?
AP: Questo è un aspetto importante di quel lavoro e del mio lavoro in generale: come coniugare aspetto individuale, o addirittura solitario, dell’operare artistico (quindi dell’opera d’arte) col suo carattere spontaneamente collettivo. Con quel lavoro ho immaginato che qualcuno (pittore, poeta, musicista…) decidesse di chiudersi dentro una mia opera avendo intorno una comunità che si prendesse cura della sua solitudine, la favorisse, la nutrisse, avendone in cambio e dono qualcosa come risarcimento, un’immagine, una parola, un gesto … Un insieme composto... Non è quindi solo un’opera ma la forma immaginata di un vivere possibile grazie al quale si riconosce il valore positivo e sacro della solitudine non vissuta come espulsione dal sociale ma condizione magari occasionale ma costruttiva. Niente a che vedere con l’eremita che si taglia fuori da ogni forma collettiva, solo il tentativo di ripristinare una forma dello stare che normalmente è accomunata all’esclusione. Anche, però, un’opera vuota e semplicemente da guardare, come tutte le opere pittoriche. Un’opera che alluda semplicemente a questo stato d’animo senza necessariamente farsene rifugio concreto. Non è forse l’arte una domanda aperta e costante su questo modo di stare?
AN : Questo rapporto tra la collettività e la creatività individuale è presente, assieme ad altri elementi, anche in Passi, le tue celebri installazioni specchianti, e in autunno realizzerai un lavoro di questo tipo anche nel cortile del Museo Novecento di Firenze...
AP: Si è vero. Questo ciclo di lavori è una sintesi di questo tema. Ogni spettatore è chiamato a mutare l’immagine prodotta dagli specchi rotti continuando a romperli col semplice starci sopra (e dentro) ma nel momento in cui partecipa a questo fatto accumula i suoi passi a quelli di tanti altri che stanno facendo lo stesso movimento e perdendo quindi d’identità ma sapendo che da qualche parte ci sono proprio i suoi, con le sue caratteristiche uniche e irripetibili. La cosa importante però non è la sola partecipazione ma l’immagine che si crea dell’architettura circostante che assume così la fattura di un affresco in mutamento continuo, un collage di frammenti ognuno dei quali mantiene memoria dell’intero edificio come dentro un caleidoscopio grandissimo che mette in relazione il frammento dell’immagine con noi stessi visti e vissuti come il frammento di una cosa più grande. Al lavoro del Museo Novecento si aggiunge una dimensione acustica, peraltro sempre esistente in questa serie ma qui maggiormente evidente, che è per me molto importante perché rende l’immagine maggiormente “sinfonica”, come fosse il risultato del suono di un’orchestra enorme e anche solitaria.
AN: Questo “caleidoscopio” mi sembra possa essere anche pensato come un percorso immaginativo che ricompone la nostra esperienza sottolineandone la frammentarietà e la sua continua riconfigurazione.
Cosa stai immaginando per la mostra che realizzerai a settembre nella Galleria fiorentina di Eduardo Secci? Cosa c'è “all'orizzonte”?
AP: A Firenze tutto quello che abbiamo detto sarà presentato con opere sia tridimensionali che a parete con un’attenzione particolare alla loro natura architettonica.
Arie, (I II) 2013 Vernici acriliche su piume conciate su plexiglas e cornice in acciaio verniciato