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Carlo Guaita
Dialogo

 

Artext - In che modo ha influito la formazione scientifica sul tuo fare arte? La possibilità di considerare in modo sistemico il reale è un'indicazione al formare, a far emergere la centralità dell'esperienza - tra etica ed estetica, ma nell'arte?

Carlo Guaita - Sono passate moltissime cose, all'inizio in una forma abbastanza inconsapevole, piano piano nel tempo fino ad arrivare ad oggi in una forma sempre più consapevole e di mia volontà, perché è indubbio che la mia formazione ha molto influito; il linguaggio della Scienza mi interessa, non tanto in modo diretto, come un pensiero a cui in qualche modo voglio far riferimento, da un punto di vista di weltanschauung, di filosofia, di rapporto con il mondo, prima ancora che da un punto di vista artistico, ma perché mi piace, mi serve quasi per parlare di qualcosa attraverso un'altra cosa. Per esempio, parlare del paesaggio facendolo attraverso un linguaggio che in fondo non è il modo canonico che ha l'arte di parlare del paesaggio. Ed io mi sono reso conto che questo modo, che questa specie di sovrapposizione di linguaggi è diventato, nell'ultimo periodo della mia ricerca, molto centrale. Per questo, i miei studi scientifici che inizialmente stavano sotto traccia, piano piano, volente o nolente sono emersi, ora a tal punto, che continuamente vi attingo.

A - In un lavoro ‘Atlante delle Stelle’ sembri già impegnato in questo tema apertamente concettuale tra pittura e struttura, tra il campo delle infinite possibilità mentali e la definizione di uno spazio.

CG - In quello “Star Atlas” c'è proprio un una sorta di iconologia e iconografia della scienza che mi attrae, anche una certa storia della scienza alle sue origini, che spesso cito con dei testi. Alle sue origini in un certo senso, la grande rivoluzione scientifica è l'inizio della Modernità, il nuovo mondo aperto, il nuovo mondo moderno, aperto al pensiero razionale e scientifico... e siccome ho molto lavorato sull’idea del moderno, sia come problematica di fondo dell'arte di oggi, sia come iconografia, allora recuperare queste citazioni sempre secondo quella specie di doppio registro di sovrapposizione di linguaggi, mi è utile per parlare di questi argomenti.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Senza titolo (Fisica del mondo), 2017.

A - In che modo si materializzano idea e forma nel tuo lavoro? Negli anni ottanta nei testi di Rosalind Krauss si parlava di autonomia attraverso la "griglia", strumento sintetico del sapere, forma di conoscenza - lo spazio di un nuovo inizio, prima che tema d'arte.

CG - Conosco il testo di Rosalind Krauss, lei affermava che la “griglia” è una sorta di forma ultima, autoreferenziale, senza riferimenti ad altro, tipica di una certa Modernità, anche molto americana, aggiungerei. Ed in un certo senso io ho fatto delle griglie, inizialmente consapevole di questo, e le utilizzavo in un modo quasi iconologico. Cioè erano una forma che creavo secondo una invenzione di forma ma anche un riferimento a una sorta di simbolo, di icona, che era decisamente voluto e che era una specie di adesione a qualcosa. Ora ritornando a quello che dicevamo prima, sostanzialmente le due cose poi coincidevano, io non so dove iniziava una e finisse l'altra; c’erano dimensioni, peso, materiali e però poi c'era anche questa adesione, questa partecipazione e rimessa in discussione che in quel dato momento era una presa di posizione. Infatti in quell'epoca la griglia per me era da un lato affermativa, dichiarativa, quindi ferma e stabile, dall'altro lato era anche critica, in crisi e quindi si raddoppiava, si moltiplicava, sì decontestualizzava, perdeva equilibrio, fermezza, centralità, come stava accadendo con la Modernità. Poi... cosa è successo, queste due cose, sono due cose che sono andate sempre di pari passo, da una parte questa sorta di riferimento a questa specie di ordine mentale razionalizzante che è la modernità, che impone la sua griglia sul mondo e la razionalizza. Dall'altra parte la mia origine scientifica, geologica che era il contatto, il legame con la terra e la terrestrità, in un certo senso, le due cose sono sempre andate di pari passo sino a rovesciarsi l'una nell'altra. La griglia da ordine è diventata disordine e la terrestrità da disordine, da informe è diventata ordinante e formante; due elementi indissolubili e inseparabili.

A - Quindi la "griglia" modernista è per te come un multiplo, qualcosa che moltiplica, che doppia, in un sistema di riproduzioni senza originale, tratta di una genealogia.

CG - Ho fatto una specie di decostruzione della griglia. Da questa sono arrivato al paesaggio, suo generatore; la griglia vista come la cosa più anti-mimetica che l'arte abbia fatto e il paesaggio come la mimesi per eccellenza. Queste due cose si sono ricongiunte in questa sorta di percorso all’indietro, e sono rimaste sospese e presenti entrambe, coesistenti. Dove nasce, che rapporto c'è con la generazione della forma? Questo, alla fin fine mi ha tenuto sempre in una ricerca, sono sempre stato e continuo ad essere in ricerca.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Geology, Cosmology 2018.

A - La tua esperienza 'pittorica' 'muove da un metodo del fare? Una processualità che si verifica e con ciò mostra la tecnica, ma non come strumento separato, ma traccia.

CG - Questa questione della processualità è stata ed è sempre molto importante, ma non vorrei in un certo senso rimanere vittima. C'è stato un momento in cui ne ero molto consapevole e ne parlavo molto e la sentivo molto, cioè in un certo senso non avendo una sorta “figura”, e non avendo nemmeno un desiderio ideologico di negazione della figura, cercavo una sostanzialità e quindi che le opere, nello specifico le pitture, mostrassero qualcosa che fosse un fantasma di figura, che si auto-genera piuttosto che venire generata da me, e quindi il processo serviva a generale queste figure, forme che non erano né ordinate, né disordinate e che non erano apparentemente fatte da me, ma erano generate dal processo stesso, come “necessarie”.

A - Così è forse sorprendere il reale nel suo stesso farsi traccia..

CG - Cercare una traccia, assolutamente... la traccia è appunto quello che resta di un qualche cosa, senza quel qualche cosa. C'è questo gioco tra presenza e assenza, per cui il processo è cercato e assecondato per poter poi ottenere qualche cosa che è la traccia, la sua stessa traccia. Il processo può solo lasciare una traccia, non può arrivare a raggiungere una forma.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Senza titolo (Pieghe), 2018.

A - Il tuo è un pensiero ontologico ( "Logos", il pensiero aurorale dei greci) legato strettamente ad un'età del 'minimale'? Che da una sospensione del giudizio, prende inizio la produzione di senso.

CG - Credo che la produzione di senso, rispondendo alla tua domanda in modo semplice, sia un insieme di cose. Io credo alla partecipazione profonda, usando una parola un po' impegnativa, dell’Essere. Penso che l’artista elabori complesse argomentazioni, linguaggi, forme e stia dentro questa necessità di elaborarli di articolarli, di lavorarci con la propria consapevolezza, ma sempre ritengo che l'arte abbia un legame con l'Essere, è quella la cosa che ai miei occhi conta per l'arte. Ora bisogna intendersi, questo Essere non si deve palesare o pensarlo tale… ecco io vado allo studio e mostro l'essere…invece è la partecipazione profonda a tutto questo e la dedizione e il tempo della tua vita e anche il modo che poni nei confronti di queste elaborazioni, che accompagna e mostra e sta dentro le cose.

A - Che relazione si instaura tra il titolo e l'opera, si tratta di mostrare o dimostrare un'origirarietà quale soggetto del tuo lavoro, Il linguaggio?

CG - Le mie opere sono sempre “senza titolo” per aderire, come con la griglia, al silenzio narrativo modernista, ma, allo stesso tempo, tra parentesi, aggiungo un titolo che le indica come gruppo o famiglia, che, invece, aggiunge e racconta, lasciando aperta la contraddizione.

A - Come è mutato il ruolo dell'artista nei tuoi anni. Ritieni che la figura storica dell'artista possa cambiare? Se nascessi come artista adesso...

CG - Tu mi fai questa domanda che può avere due sensi, il primo senso potrebbe essere quello di dire…-secondo te una personalità come la tua oggi che cosa d'istinto andrebbe a utilizzare facendo l'artista? - oppure il secondo senso della domanda potrebbe essere... -se tu rinascessi oggi con una sorta di memoria di quello che è stato, che scelta faresti?- Nel primo caso avrei molta curiosità di sapere il tipo di scelte che potrei fare. Certe volte quando cerco di essere indulgente nei confronti di gesti di generazioni più giovani, che non mi piacciono, mi dico... -ricordati di come anche tu avevi messo in atto dei gesti d’istinto senza grande consapevolezza-… e quindi sarei curioso di sapere che cosa farei.. Nell'altro caso, direi che cercherei di fondare con ancora più determinazione quella sorta di essere fuori da un certo sistema di cose, perché credo che sia l'unica e più profonda necessità, non moralistica, ma proprio per quella urgenza di senso che ritengo necessario per l'arte. Il senso oggi si può cercare solo o nella sua totale assenza e quindi tu passi nel mondo, oppure in una sorta di assurda solitudine che però è complessa è complicata da praticare.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Senza titolo (Collassi, Theatre), 2018.


A - All'io nebuloso dell'autore, è ovviamente necessario operare un ferreo controllo di coerenza teorica, affinché l'apertura del significante si realizzi sino in fondo, a spese a volte dello stesso artista - artista o demiurgo che crea dall'esistente - Puoi parlare dell'Enciclopedia, lavoro che ti impegna da diverso tempo, dove persegui, come artista un disinvestimento della soggettività dalla scena della pittura, così da svanire nell'opera stessa.

CG - Ho capito quello che vuoi dire, ed è molto preciso. Mi verrebbe di dire decisamente demiurgo. Però non vorrei usare questa parola che è sovraccarica, perché poi piuttosto che allentare un po' l'egocentrismo questa parola in qualche modo lo gonfia ancora di più. Tu hai detto che sono pieni di ego soprattutto i calcolatori di mondo e i manipolatori di mondo e invece penso che anche i demiurghi siano pieni di ego, alla fine, sono modi. Però indubbiamente la parola mi è piaciuta, e il suggerimento è la manipolazione della materia, il rapporto con l'aspetto sensibile delle cose, credo che l'arte abbia interessato la filosofia sino dall'antichità perché l'arte era quella sorta di anello di giunzione tra l'aspetto speculativo e l'aspetto fisico, concreto, corporeo. E’ questa cosa che l'ha resa sempre particolare nell'esperienza umana; io ancora ci credo e penso che non bisogna esaltarsi né nell’una parte né nell'altra. Non mi piacciono quelli che si esaltano pensando che non ci sia nessuna consapevolezza, nessuna razionalità, né mi esaltano quelli che irridono a questo e sostengono che tutto deve essere pensato, elaborato, progettato e razionalizzato. Per me, nella mia prassi, nel mio modo di lavorare, il suggerimento dell'accidente, dal caso, dalla materia, dalla manipolazione della cose, è fondamentale, anche se c'è poi una sorta di campus, una sorta di topografia che è una topografia della mia consapevolezza che logicamente sceglie e si muove verso certe cose piuttosto che verso altre.

A - E del disinvestimento della soggettività?

CG - E' anche una un mio modo di essere e anche un mio gusto, ed una mia verità intellettuale. Quando entro in un museo, se sfoglio un libro, se vado a vedere cose... mi muovo sempre verso certune. Mi piace quell'arte che mette sempre nel suo intento l'utilizzo del minor mezzo possibile, in questo senso minimale, il raggiungimento di qualcosa con il minor dispiegamento di mezzi possibili. Questa è una cosa che a me piace, prima ancora che desiderare per chissà quale motivo di metterla in atto. E’ proprio una cosa che fa parte del mio modo di essere. E quindi diciamo che mi piace sia negli altri artisti, sia nell'altra arte e anche nella mia, mi piacciono le cose essenziali, dove c'è il massimo del risultato con il minimo del dispendio di apparato, di energia, di forma e mai spettacolo e teatralità fine a se stessa.

A - Dal 1990 hai intrapreso in proprio l'opera di editore con "Enciclopedia incerta" articolata in Opuscula, dove si ritrova aggiornato vocabolario e pensiero del Settecento illuminista di matrice francese.

CG - Questi libretti che pubblico sono diventati, nel tempo, da prolungamento ed estensione del mio lavoro a centro, succo, sostanza, da cui il lavoro si irradia.


Carlo GuaitaCarlo Guaita Senza titolo (Prosopopee, Creti), 2009.


A - La tua pittura "lungi dal coincidere con se stessa, si trova “ri-messa in gioco” scavalcando i cliché che ingabbiano forma, definizioni e contenuti di qualsivoglia gesto artistico. Da qui l’azzeramento, la rappresentazione della rappresentazione. Cosa accade attraverso il monocromo? Cosa passa dalla campitura del colore... rivelazioni, o sono forse trappole del pensiero o per i sensi?

CG - Non so se sono trappole dei sensi. Non saprei. Io penso che l'arte ha sempre rimesso in gioco, c'è sempre stato un rimettere in gioco, perché l'arte ha sempre ripetuto, soprattutto nell'arte moderna. L'arte moderna si è molto distillata, a torto o a ragione, anche questa è stata una sua conquista, ma anche la sua dannazione, sul concetto di nuovo. E quindi il nuovo è sempre stato perseguito, e il nuovo è diventato come una sorta di necessità assoluta. Non si deve cercare la mera apparenza del nuovo, la spettacolarità che porta ad un nuovo spettacolo, ma il nuovo in fondo è sempre un rimessa in gioco, una rielaborazione, un lavorare su qualche cosa che apparentemente è privo di possibilità, ma poi alla fine lavorandoci scaturisce una nuova possibilità.

A - I tuoi lavori 'pittorici' sottraendosi ad ogni identificazione precostituita, giungendo spesso sino alla soglia della scultura. Come avviene? si tratta di dare realtà ad una relazione interno/esterno, che prova la fissione causuale del tempo.

CG - Ho maturato nel tempo una prassi dove la decostruzione e la costruzione sono contemplate contemporaneamente. Per cui io faccio delle cose che sono nel momento in cui le faccio contemporaneamente in aggiunta e in toglimento, in costruzione e decostruzione e per fare questo lascio tante tracce, creo tracce. Poi ritorno su queste tracce e le rivedo e le rielaboro, e il percorso non è mai rettilineo, è un meccanismo circolare di avanzamento e ritorno indietro.Questo è possibile attraverso questa sorta di prassi che io ho messo in atto nel mio studio, che mi richiede di essere molto presente, essere molto in relazione con le cose, gli oggetti e le attività produttive, i processi eccetera, ed in questa relazione tra queste due cose, tra me e tutta questa specie di cosmologia di cose, metto in atto questo tipo di procedimento. Per cui attraverso la manipolazione le cose stesse forniscono suggerimenti e c'è un procedere di te e di tutte queste cose che avanzano, poi arretrano, poi si costruiscono poi si distruggono e alla fine a un certo momento si interrompono. Ma sostanzialmente è tutto l'insieme che va avanti e per questo si è aggiunto il termine Enciclopedismo, non tanto perché io voglia fare una sorta di organizzazione del sapere, ma perché alla fine c'è una cosmologia di cose, di segni che si che si tiene tutta insieme, ed ha bisogno di tenersi tutto insieme. E’ la difficoltà maggiore del mio lavoro, che io percepisco con il mio lavoro oggi.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Tutti i paesaggi 2017.

A - Nell'esercizio dei sensi è evidente la 'volontà di restituire l’opera alla possibilità dell’accadere senza bloccarla in un unico accadimento costituito'. Com'è "pensare" mentre si configura al vedere?

CG - Vedere e pensare si sovrappongono molto. In questa necessità non progettuale ma manipolativa, il vedere diventa pensiero. Tu vedi... devi essere in grado di vedere quello che ti suggerisce la traccia o qualche cosa che hai lasciato... A me succede spesso che io mi metto lì a fare una cosa e ho tutto quello che è il latere, tutto ciò che sta intorno a questa cosa. Alle volte mi succede che siccome il mio io e è tutto concentrato su quella cosa, i suggerimenti stanno venendo dal latere, da tutto ciò che è a latere; allora entra un meccanismo in cui questo rapporto tra la mia volontà di controllo e i suggerimenti da parte degli accidenti delle cose casuali, cerco di farlo mio, immedesimarlo. In fondo è un conflitto tra l’io che mette il suo ordine e le cose che dicono il loro.

A - Si tratta di un conflitto da dissipare, di una teoria della fisica, l'arte come entropia?

CG - Poi come tutti i conflitti, noi abbiamo sempre la spinta a risolverli, però è un conflitto che si mantiene sempre, che è costitutivo. Per cui non posso pensare di poter evitare il desiderio di risolverli perché è umano, è mio, è necessario, però non può essere risolto. Fa parte dell'arte o perlomeno fa parte della mia arte. Se lo risolvessi, questo conflitto, non farei più arte, o perlomeno non farei quell'arte che faccio e probabilmente farei un'altra cosa. Nella mia arte, l'arte così come la faccio mantiene aperto, mantiene continuamente aperto questo conflitto. E questo mantenerlo aperto è una cosa che non può né essere accettata né risolta, perché tutto ciò che ci tiene aperto è movimento. Ecco l'arte è movimento non è mai stasi. La forma è qualche cosa di statico, ma ciò che interessa a noi contemporanei, che abbiamo una lunga tradizione anche moderna... è il movimento nella forma, il fatto che la forma superi la sua staticità.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Paesaggio in sua assenza 2018.

A - La tua prassi speculativa, come pratica sovversiva dell'arte tratta la specificità fisicità del supporto come un medium -

CG - Questa è una cosa che mi fa piacere che tu abbia notato perché effettivamente cerco sempre un corpo, un corpo della cosa. La cosa ha sempre un corpo anche quando faccio delle manipolazioni fotografiche, allora si potrebbe dire... in questo caso non sta trattando una materia, sta trattando una fotografia e quindi diventa più una questione linguistica, semiotica e d'immagine, no! anche in quel caso cerco sempre nelle cose che poi si moltiplicano e germinano e vengono fuori, una corporeità. Per me questa corporeità è fondamentale. Allora ogni cosa diventa nella sua sostanza Medium, il corpo diventa Medium, quindi la corporeità, la tattilità, il peso, l'estensione, la saturazione, che è una cosa che mi piace molto, il concetto di saturazione, che è poi quello del nero. Il nero non lo vedo come una assenza, ma la vedo come un eccesso di presenza per cui tutti i neri che utilizzo sono sempre diversi, hanno una loro pelle, un loro corpo, una loro profondità.

A - Spesso nel tuo lavoro compare il nero che 'emerge, viene verso di noi', 'fonte di una combinatoria infinita, di una differenza ripetuta'. Potresti dire di questo termine fondativo e speculativo, e della sua densità che ha una sua intensa forza d'emanazione.

CG - Il nero ha già tutti i timbri e i toni, non è necessario distrarsi con il colore. Il nero è un’assenza per saturazione, non per toglimento e mancanza.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Senza titolo (Residui) 2018.

A - In Carlo Guaita 'invece è l’immagine della totalità a costituire l’oggetto inarrivabile del suo interesse'?

CG - Si, ho un interesse verso quest'idea filosofica del tutto, è un tema che mi è caro; sono attratto da quest'idea di universalità del mondo; la cosmologia, ma anche la stessa geologia, la stessa geografia, sono tutte parti di un unico sapere, per questo alle volte faccio riferimento alle origini del pensiero scientifico, che pensava di raccogliere il tutto. E la filosofia aveva quest'idea di spiegare il mondo, di vedere il mondo, di conoscere il mondo nella sua interezza. Questa mia passione è rimasta non perché io pensi o voglia che sia possibile però questo senso del tutto mi ha sempre affascinato, mi ha sempre attratto e sta sottotraccia alle cose che faccio.

A - Cosa c'è alla fine dell' Enciclopedia?

CG - Alla fine dell'enciclopedia c'è l'enciclopedia stessa; il lavoro non finisce mai, è infinito, più cerchi una forma unitaria, più sei costretto a tenere insieme una moltitudine di frammenti, più desideri di chiudere, più apri; e la cosa sta tutta tra questi opposti.

Carlo GuaitaCarlo Guaita, Senza titolo (Ray) 2018.



 

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