Artext - Da dove nasce la tua urgenza ad occuparti della memoria e di elaborarla attraverso i supporti quali oggetti d'affezione, tracce mnesiche della luce, della chimica organica?
Chiara Bettazzi - E' difficile teorizzare cose che in maniera pratica realizzi solo perché ti appartengono. Per questo credo che il termine urgenza sia adatto a descrivere un bisogno, che è poi ciò che sta alla base della mia quotidianità e del mio ricercare continuamente stimoli che riportino alla memoria qualcosa che credo sia disperso, il mio lavoro si fonda essenzialmente su questa necessità: recuperare e far emergere immagini che credevo perdute. I miei ricordi e le mie immagini persistono e si riattualizzano nel presente.
Da sempre, gli oggetti che ho accumulato e collezionato in studio, in parte li ho cercati nei mercatini, negozi di usato e vecchie case da svuotare, altri invece arrivano come per magia, mentre molti altri appartengono alla mia infanzia. Gli oggetti che trovo, è come se mi appartenessero già, perché vengono scelti nel momento esatto in cui la loro biografia si intreccia con la mia. In quel preciso momento si innesca un meccanismo che considero fondamentale alla creazione del lavoro, l'immagine assume un ruolo generativo per quello che accadrà più tardi. Fino a quel momento l'immagine vive in uno stato di dimenticanza, di sospensione e latenza. La visione acquista sempre più nitidezza nel momento in cui il lavoro comincia a prendere forma, liberandosi dalle regioni del pensiero e del sentimento per emergere dalla mia memoria e strutturarsi attraverso gli oggetti e le loro combinazioni, per mezzo di una relazione e di un rapporto empatico. Attraverso un attento studio gli oggetti vengono spesso accorpati o trasformati in altro, restituendo così una nuova sorprendente visione ai miei occhi, scegliendo vari media che in quel momento a seconda della necessità decido di usare.
Il mio spazio si può definire simile ad un inventario, in cui le varie collezioni che posseggo sono suddivise per tipologie e gruppi. Sulle cose sono depositate storie e narrazioni personali o di sconosciuti, spesso plasmate da una stratificazione temporale e dall'uso che se ne fa; sono il mezzo con il quale riesco a ricreare una mappatura interna di me stessa attraverso quelle che chiamo “verifiche incerte sull'ambiguità dell'essere”.
In tutti i miei lavori c'è una costante esplorazione del desiderio di classificare, riordinare e selezionare, legata profondamente all'aspirazione che un uomo ha verso il controllo e il dare ordine nella vita. Il mio desiderio di preservare e conservare passa attraverso l'idea della collezione, della trascrizione continua attraverso i miei scatti fotografici che registrano i vari spostamenti in studio.
A. - In questi anni sei impegnata anche nella definizione della realtà antropologica e spaziale circostante il tuo territorio.
In collaborazione con architetti e urbanisti hai preso ad analizzare i temi dell'Archeologia Industriale: i luoghi e le tecnologie dei processi produttivi, le tracce archeologiche generate da questi. Puoi raccontare di questa avventura e di un possibile collegamento tra l’arte e l’architettura che deriva da una rilettura critica e contemporanea di spazi industriali?
C.B. - La mia analisi di temi legati all'Archeologia Industriale ha la sua origine dal mio ambiente di lavoro, un ex edificio industriale dove ho allestito il mio studio e dove passo la maggior parte del mio tempo. Il mio spazio si trova all'interno di una vecchia corte industriale fatta rivivere attraverso l'apertura di diversi studi dedicati a vari ambiti della creatività.
Ho aperto il mio studio personale circa dieci anni fa, a quel tempo la corte era in parte abbandonata e in parte vi erano ancora alcune attività produttive al suo interno; ricordo una filatura, un fabbro, un meccanico e un maglificio.
È stato interessante osservare come attraverso alcuni eventi legati all'arte visiva, questi spazi si sono trasformati, destando la curiosità delle persone che vi si sono avvicinate. In anni passati a Prato questi edifici sono stati distrutti a favore di costruzioni di nuovi palazzi, spesso anonimi, pensati senza rispettare la peculiare estetica del territorio, quindi per me privi di sentimento, senza che fosse presente una reale richiesta di strutture ex novo.
Negli anni ho visto la città trasformarsi architettonicamente perdendo gradualmente le tracce storiche e identitarie. I macro contenitori che un tempo erano serviti alla produzione industriale continuano a racchiudere un vissuto sociale legato ai nostri ricordi e ai momenti di forte espansione economica, inventari del passato che contribuiscono a formare la nostra percezione e interpretazione di quella che è stata la storia tessile caratterizzante la nostra vita lavorativa.
Inizialmente non ero consapevole del perché avessi scelto un luogo industriale in cui allestire il mio studio e nel quale strutturare il mio lavoro, cercavo uno spazio in cui respirare un sapore originale.
Ma negli anni questa decisione è divenuta sempre più una scelta consapevole e chiara, fino ad arrivare ad una presa di posizione nei confronti della mancata tutela del patrimonio che possediamo.
Nel tempo, è nata la voglia di collaborare e di confrontarsi con architetti e urbanisti interessati come me a questi luoghi, e' nata la voglia di aprirsi alla città e andare oltre la corte industriale per cercare altre aree simili in attesa di riqualificazione ancora presenti a Prato. Sono sempre stata sedotta dallo stato di abbandono di questi spazi dimenticati ma dalla forte presenza. Sono convinta che siano luoghi che nascondono un grosso potenziale di riattivazione. Le vecchie fabbriche sono strutture perfette nella disposizione dei volumi e degli spazi, nella presenza voluta della luce naturale, nella stratificazione temporale che vi si deposita.
Sono spazi con un alto senso teatrale.
Lavorarci all''interno,rappresenta sempre una grande sfida, perché vuol dire essere a contatto con strutture che mostrano un' anima profonda.
L' inserimento di opere, o gli interventi site specific da parte di artisti, designer o architetti possono generare un fascino che trova la sua origine nel contrasto tra un edificio consumato dal passaggio distruttivo del tempo e la limpidezza e pulizia del nuovo. Dal contrasto che ne scaturisce si crea uno scarto che diviene lo stimolo perfetto per azionare qualcosa di diverso: idee, visioni, immagini per questi luoghi, che potrebbero riaprirsi a nuovi usi, laboratori, studi, set fotografici. Credo che siano strutture che il territorio ci offre in maniera spontanea, sta a noi decidere di preservarli e riattivarli.
A. - Il tuo studio SC17 è in realtà una ex fabbrica, dove negli anni hai sperimentato il tuo lavoro d'arte e ospitato in determinati periodi e con serate dedicate i lavori di alcuni artisti a te vicini. Come nascono e si dispiegano questi progetti in linguaggi e poetiche capaci di misurarsi con il panorama artistico contemporaneo?
C.B. - La naturale ampiezza del mio spazio si è sempre piacevolmente prestata ad una apertura verso altri progetti. E' sempre stato interessante per me innestare al suo interno qualcosa di estraneo, per aggiungere un ulteriore stimolo alla mia pratica artistica che vive di un rapporto empatico stabilito con il luogo necessitando al contempo di contaminazioni dall'esterno.
Negli anni ho invitato artisti, performer, musicisti a lavorare all'interno, sia in occasione del Contemporanea Festival con il quale ho collaborato per quattro anni, sia per aperture condivise insieme ad altri spazi indipendenti. Un grande stimolo è stata anche la condivisione dello spazio per circa un anno con l'Associazione Nub Project Space, un interessante progetto dedicato all'uso del suono nell'ambito dell'arte e della performance contemporanea; Le contaminazioni e le collaborazioni mi hanno portato nel Settembre 2014 ad invitare in residenza una giovane artista francese, Emma Grosbois, una fotografa che ho invitato in studio da me in una condivisione di spazio. Da questa esperienza è nato un progetto condiviso che ha portato alla realizzazione di un lavoro a quattro mani, un'istallazione, una documentazione del periodo di lavoro, presentata in occasione dell'edizione del 2014 del Contemporanea Festival e ha fatto nascere una bella amicizia che dura nel tempo.
Tutti gli artisti che ho scelto nel corso degli anni hanno sempre destato in me una certa curiosità. Ciò che mi piacerebbe che ancora accadesse in futuro è verificare attraverso l'incontro e la nascita di nuovi lavori condivisi, possibili affinità di luoghi interiori comuni.
Chiara Bettazzi Spostamenti Progressivi 2015, installazione video, Foto Chiara Bettazzi
A. - Il paesaggio urbano, l’architettura e le sue trasformazioni, sono diventati lo sfondo ideale della nuova mostra: TAI “Tuscan Art Industry 2015”.Come ti sei relazionata a questa autentica "impresa" restando contemporaneamente organizzatrice ed artista ospite in mostra?
C.B. - Considero la parte di progettazione e organizzazione dell'evento TAI connessa alla mia pratica artistica e quindi alla mia ricerca che da anni porto avanti. La mia formazione è passata attraverso l'esperienza che nel tempo ho maturato con il mio studio, considerandolo uno spazio aperto che negli anni ho fatto vivere anche per mezzo di contaminazioni con altri.
Ciò che profondamente muove la mia parte organizzativa deriva indissolubilmente dalla mia poetica. Da sempre il mio fare si compone di due aspetti; da un lato la pratica personale artistica e dall'altro la parte organizzativa che mi vede attiva all'interno dei progetti che ho creato e che hanno fatto nascere in me la voglia di condividere con altri la bellezza e l'uso di spazi a disposizione sul territorio. Intorno al progetto“TAI”hanno collaborato persone con le quali ho stabilito nel tempo una relazione e uno scambio da un punto di vista professionale e nuovi rapporti nati nell'ambito del progetto.
Ho quindi collaborato con esperti nella comunicazione,nella didattica e nella curatela.
TAI non è stato e non vuole essere solo una mostra, ma un'insieme di parti che formano un progetto più complesso.
La sua struttura è composta da una serie di approfondimenti tematici denominati Diari Urbani, nati dallo studio del territorio, allo scopo di creare un'archiviazione fotografica in progress e da eventi collaterali, svoltesi in concomitanza con le date di apertura e fruizione della mostra.
Tra gli eventi è stata organizzata la proiezione del film Giovanna di Gillo Pontecorvo, girato all'interno della Fabbrica La Romita, oggi demolita per far posto a un complesso residenziale, alcune visite archeoindustriali, percorsi didattici, presentazioni di carattere culturale e una performance sonora. Per questa prima edizione la curatela della mostra denominata“Apres Coup”è stata affidata a Saretto Cincinelli che ha curato la scelta degli artisti e l'allestimento dello spazio. Per realizzarlo è stata fondamentale creare un'interazione con professionisti che hanno reso completo il progetto in tutte le sue parti.
Après Coup - Dischiusure 2015, installation view. Foto Paolo Meoni
A. - L'archivio (in divenire) che sembra prospettarsi come argine di una dispersione temporale è esso stesso un insieme trasformabile. Come descriverlo, come utilizzarlo nella sua totalità in quanto noi stessi ne parliamo al suo interno, siamo dentro le sue regole, le sue possibilità?
C.B. - L'archivio è insito all'interno del mio lavoro; i miei oggetti, i miei lavori vengono raccolti in studio, le mie immagini, spesso anche il materiale di scarto, non viene quasi mai gettato ma conservato, pronto per essere usato o trasformato. L'Idea della conservazione e della memoria delle cose che ci circondano credo sia fondamentale per non perdere le tracce di una visione e di una trasformazione futura. Questo è indispensabile nel mio processo lavorativo in cui la creazione è sempre strettamente connessa a ciò che era in precedenza e a ciò che diviene un attimo dopo, in una specie di filo che unisce tutto il processo lavorativo in atto. L'archivio è la memoria fisica, è il luogo in cui catalogarla, sta a noi organizzarlo, disporlo e decidere cosa tenere e cosa invece eliminare, cosa evidenziare e cosa nascondere.
L'archivio è la struttura e l'ossatura su cui ho basato l'intero progetto TAI. Ho quindi iniziato a pensare a Diari Urbani come i diari del mio sguardo, la registrazione del mio modo di vedere le cose e la prosecuzione delle mie annotazioni che compongo in studio regolarmente e che raccolgono tutte le fasi del processo lavorativo e il rapporto tra me, gli oggetti e il mio spazio.
Ho iniziato partendo dallo studio di 16 fabbriche storiche che risalgano ai primi del '900, menzionate all'interno di un catalogo degli anni '80 di Alberto Breschi, la Città Abbandonata, in cui venivano descritte e fotografate. Percorrendone le tracce ho compreso come il tempo e l'uomo avessero cambiato queste strutture e ho registrato questo cambiamento fotografando con l' identica angolazione questi luoghi, mettendo poi a confronto le due immagini ,presente e passato. Da qui parte il mio archivio fotografico di strutture abbandonate ubicate non solo a Prato ma anche in Val di Bisenzio, un inventario dello stato attuale degli edifici, creato allo scopo di far si che ne rimanga memoria, non solo attraverso un approccio documentaristico che racconti lo stato in cui si trovano attualmente questi locali abbandonati, ma anche attraverso lo sviluppo di un successivo linguaggio artistico basato da un lato sulla trasformazione dello spazio e dall'altro sull'inserimento di oggetti, opere e interventi attraverso la ripulitura e l'allestimento di questi vecchi spazi. La formazione di un archivio è per me quindi fondamentale, affinchè si possa tramandare il racconto di un processo e un cambiamento costantemente in atto. In questa direzione va anche il progetto TAI, che credo possa servire a valorizzare il nostro patrimonio archeologico industriale per avvicinare a quelle che sono le nostre radici antropologiche, storiche, sociali e identitarie del nostro territorio.
A. - Che modalità di sopravvivenza stai adottando in questi anni di emergenza e di esistenza precaria per le condizioni economiche che invece governano le nostre vite?
C.B. - Credo essenzialmente che l'emergenza più grande che ho da sempre sia cercare di fare ciò che amo fare e quindi trovare ogni volta un modo per rendere questo possibile.
Penso sia fondamentale per me dedicare il tempo al mio lavoro, che si identifica con la mia passione, ponderando le difficoltà di fare questa professione in questo paese.
Questo mi ha sempre portato ad alcuni compromessi, ma credo che la libertà delle mio tempo sia la cosa più importante. La mia esigenza più grande è realizzare i miei progetti, senza i quali la mia quotidianità non avrebbe senso. Tutto quello che per me riguarda le modalità di sopravvivenza diventa casuale e connesso ai vari momenti che passo nella vita.
E' una sfida continua a cui cerco di far fronte ogni volta. Quando ho iniziato a costruire il progetto TAI ho attuato una riflessione anche in questo senso; mi sono resa conto che le interconnessioni create tra gli attori di questa operazione generavano una sinergia inedita di intenti, con lo scopo di recuperare e ridare vita a degli edifici ma anche di guardare al futuro sotto un'altra prospettiva.
Ipotizzando un nuovo percorso per queste strutture dismesse si genera infatti una nuova linfa con nuove opportunità lavorative per moderne figure professionali, che si confrontano con il tessuto sociale contemporaneo, facendo nascere così nuove risorse economiche.