Open Menu
Piotr PavlenskijPiotr Pavlenskij, Otdelenie (2014), Mosca, 2014 Courtesy dell'artista e di Pksana Shalygina.


Chiara Mu
Performance Art


 

Artext - Quali le motivazioni che ti hanno spinto a scrivere questo libro? La tua pratica di artista-performer, l'attività didattica alle Accademie di Belle Arti... Quali aspetti hai tracciato per la mappatura di questo medium che in diversa misura elabora un campo molto ampio e comprende svariate prassi?

Chiara Mu - Non mi sento di aver “scritto” il libro: l’ho curato, ho scelto dei testi adeguati a ciò che desideravo fosse più noto riguardo questo medium, ma in definitiva è stato scritto da tutti quegli autori (critici ed artisti) che hanno autorizzato me e Paolo Martore a tradurre i loro testi. Utilizzando e studiando la performance art come pratica artistica da anni, mi sono trovata nella posizione di insegnare agli studenti di accademia cosa questo mezzo fosse, senza disporre di molte delle fonti a cui io stessa ho attinto nel mio percorso formativo avvenuto in Inghilterra, quando ho perseguito il mio master in Fine Art a Chelsea College di Londra (2006 e 2008/09).

Nello specifico, ho avvertito la mancanza di testi che permettessero agli studenti di comprenderne il dibattito che, fuori dai nostri confini nazionali, ancora attiva percorsi di ragionamento sulla performance art: l’opera è l’evento (il qui ed ora in cui avviene l’azione) o ciò che ne portiamo con noi una volta che questa è compiuta? La documentazione è l’opera? Quali forme la performance deve assumere per poter partecipare al sistema di mercato? Una volta già compiuta, va rimessa in atto affinchè venga esperita costantemente o vale invece la narrazione che l’ha determinata e come questa si propaga nella storia dell’arte?

Ritengo fondamentale che si possa riflettere su questo medium comprendendone l’ontologia, ovvero la sua condizione d’esistenza, ponendosi queste ed altre domande e riflettendo sulle modalità della sua attuazione.

A. - Quale opinione sulla Performance art?

C.M. - Dal mio punto di vista la performance ha a che fare con l’esporsi, con il tentativo di aprire il proprio spazio, tempo e corpo all’altro nella ricerca di un punto di contatto, che sia uno sguardo, una presa di posizione, un’agire inconsulto o uno sparire. Chi fa performance - e non teatro – accetta il rischio di aprire il proprio lavoro, l’atto intuito/immaginato che va compiuto, alla partecipazione dell’altro da sé, in virtù della sua presenza e della messa in gioco che questa comporta. Essere presenti è in questo caso un atto politico necessario, in cui l’applauso – azione spontanea che afferma la differenza dei ruoli ed una sancita inviolabile separazione dall’altro – naturalmente non si verifica se chi agisce e chi fruisce sono presenti insieme nel voler offrire ed accogliere cosa accade, nel permettere una creazione di senso a partire dall’interazione possibile, qualsiasi forma essa possa prendere. Nel ragionare ed esperire la distanza e la vicinanza che intercorrono tra artista e fruitore dell’opera, si realizza l’emancipazione di cui parla Ranciere, a sua volta citato da Claire Bishop nel testo presente nel libro. L’emancipazione dello spettatore (ma io direi di entrambi) si determina nell’accedere alla capacità critica che ognuno dispone quando interpreta un avvenimento, di qualsiasi natura esso sia. Dal punto di vista del fruitore si tratta quindi di un pensarsi distanti ma vicini a ciò che succede, utilizzando cosa accade – e dunque appropriandosi dell’opera – come elemento utile per interpretare l’esistente in base alla propria traduzione di ciò che si è vissuto, spesso anche molto lontana dalle intenzioni di chi ha creato l’opera. Anche dal punto di vista dell’artista l’emancipazione occorre quando si partecipa di un’interazione che, per quanto pensata e strategicamente posta in essere, non ha modo di essere compresa se non nel suo accadere, spesso cambiando e riconfigurando lo scopo del lavoro in forme e significati non previsti.

A. - Che cos'è che ha guidato la scelta dei tuoi testi... le relazioni accademiche, i contesti critici che hai trovato, gli artisti con cui hai lavorato? Quale l'intento (narrativo), a lavorare esclusivamente con le fonti?

C.M. - L’intento di questa antologia è chiaramente quello di permettere una lettura diretta delle parole di artisti e critici senza altre voci interpretative accluse, compresa la mia. Non mi interessa fornire una chiave di lettura della performance ma offrirne molteplici, non ho una visione unificata né unificante di questo medium, come potrebbe aspirare ad averla uno storico dell’arte. Da questo punto di vista rivendico di aver costruito questo testo con un approccio fortemente analitico che proviene dall’essere artista: ho scelto i testi che pongono le stesse domande che mi pongo – come sono certa fanno tanti altri artisti – nel concepire e produrre performance, le medesime domande che chiedo ai miei studenti quando iniziano a confrontarsi con questo medium. Ritengo infatti che non ci si possa definire artisti se non si comprende che posto si vuole occupare all’interno della storia dell’arte con il proprio lavoro, quindi bisogna essere in grado di esercitare un pensiero critico sul proprio agire, ragionando sulle finalità e sulle modalità esistenti e comprendendo cosa farne di queste.

A. - In che termini condizionali la "Performance" si pone diversamente dal teatro sperimentale o da un'esibizione?

C.M. - La performance art si può definire come un atto effimero, che esiste in un dato tempo e spazio e che comprende un agire, partecipativo o meno, messo in opera da uno o più corpi, alla presenza di uno o più testimoni, che siano presenti o presenti in differita grazie all’uso dei media. Questa definizione, volutamente asettica, non sembra spiegare le differenze con il teatro sperimentale perché non può restituirne l’intenzione dell’artista né il suo svolgersi, non il senso che attiene al contesto in cui l’opera avviene nè come questo possa cambiare in base alle reazioni suscitate in chi è presente. Guillermo Gomez-Pena, artista messicano tradotto nel libro, analizza bene le diversità con il teatro, citando tra le altre la non necessità di provare, di rispondere ad un copione o partitura fisica, il non dover esibire talenti né rappresentare personaggi ma essere se stessi perché ciò che viene messo in atto corrisponde ad un’urgenza comunicativa ed artistica propria. Non si tratta di intrattenimento né di spontaneismi senza intezionalità, ma di usare il tempo, lo spazio ed il corpo per affermare una condizione di esistenza dal vivo, uno statament, che fa della propria immanenza un atto unico, il principio di una narrazione concettuale che viene propagata al di là del proprio compimento, al di là dell’esistenza di quel corpo, di quel tempo e di quello spazio.

A. - Puoi parlare "dell'idea di intendere il corpo come spazio di lavoro" attraverso una performance e sulla capacità di controllo sulla produzione e riproduzione del proprio linguaggio?

C.M. - Il corpo dell’artista che produce performance è necessariamente prima di tutto spazio: spazio di lavoro, di azione ed interpretazione di tutto ciò che sceglie di farci per esprimere cosa intende comunicare agli altri. Il libro ne porta alcuni esempi, tra cui quello di Ulay che racconta come la gestione delle proprie sensazioni corporee sia stato un elemento fondamentale per affrontare la realizzazione di tutte le sue opere e addirittura del cancro che lo ha colpito di recente; Pyotr Pavlensky racconta come il suo corpo sia diventato lo spazio di coercizione ma anche di denuncia del potere imposto dalle autorità russe nel punire le sue azioni “disubbidienti” contro lo stato; Andrea Fraser spiega nel dettaglio come attraverso l’uso del suo corpo – nella famosa opera Unitled (2003) in cui ha progettato e attuato un rapporto sessuale con un collezionista – abbia affermato la sua visione femminista nel gestire e controllare dinamiche di potere che afferiscono alle differenze di genere, quelle stesse che nel sistema dell’arte implicano la seduzione intellettuale, la compravendita ed il profitto fatto sul corpo delle donne artiste. Di questo lavoro Fraser detiene l’assoluto controllo di diffusione e utilizzo della documentazione, volendo appositamente mandare il messaggio che nonostante lei abbia scelto di usare tutto il suo corpo, con questo atto non lo ha reificato, non lo ha tradotto in oggetto da fruire e far muovere secondo le leggi di mercato che spostano le opere a seconda di meccanismi speculativi del collezionismo.



 

Performance art
Traiettorie ed esperienze internazionali
a cura di Chiara Mu; Paolo Martore
Castelvecchi editore
Site : Chiara Mu
@ 2018 Artext

Share