Dell’opera e di altre cose del mondo.
testo di Serena Fineschi
da Contro l’arte fighetta, Christian Caliandro
Museo Novecento Firenze, 20/06/2023
Chi ha detto che l’opera debba raccontare qualcosa.
L’opera racconta sé stessa e non può fare nient’altro che questo. Non perché non voglia ma perché non può, non ne avrebbe la forza. Non avrebbe mai la forza della realtà delle cose. Tutti coloro che credono di produrre opere che raccontino qualcosa non sono artisti ma semplici osservatori della realtà. E la realtà, nonché la storia come sua declinazione, per sua natura intrinseca, racconta sé stessa tramandata dagli uomini che ne veicolano gli accadimenti.
L’opera non ha racconto, si prende gioco di noi, avendo origine dalla momentanea assenza di senso. Mi imbatto di continuo in artisti che bramano il racconto delle loro opere, senza chiedersi se l’opera stessa vorrebbe essere raccontata. Sono così presuntuosi da non chiederle il permesso, tanto ingenui da ignorare la perdita di ogni autorità su di essa.
Non v’è alcuna necessità di raccontare l’opera, se essa stessa vale come tale. Sarà nello sguardo degli altri che prenderà forma e conforto. Una contemplazione che non esaurisce la lettura certo, ma un conforto che l’artista non sarà mai in grado di dare con l’ausilio della sua parola perché questa, rischierebbe di apparire come un alibi per un’opera manchevole. Si tratta di un conforto scomodo sul quale è necessario interrogarsi. L’opera che non bara, l’opera unica, mai progettata, tantomeno pensata (perché il pensiero non include il fare artistico, o meglio, non include l’atto creativo) ci costringe a sintomi di scomodità.
Tratto da “Persona” di Ingmar Bergman, 1966
Che sia chiaro a voi, piccoli pseudo-artisti che usate l’opera come mezzo e come fine per il raggiungimento della vostra fama individuale, per il successo personale data la scarsità delle vostre idee; sappiate che l’opera ha in sé quello che nessuno di noi potrà mai possedere: l’eternità.
Personalmente, non posso fare altro che guardare e che il mio sguardo mi salvi da questo peso. Perché è nello sguardo dell’artista la visione di un mondo che anticipa il mondo e che ribalta la prospettiva, affinché tutto questo possa donarci una riflessione inconsueta d’immaginazione immaginata.
Mentre ci troviamo coinvolti e avvolti dall’eccellenza esistenziale, privati della facoltà del dubbio, solo l’errore e la concessione di sbagliare può determinare il nostro stare in vita. Fallire magnificamente, affinché il tentativo sia lo stadio che detiene la prova dell’opera.
Rimanere morti nel mondo dei morti. Morti nel mondo dei vivi.
Lo dico a voi, spavaldi modaioli, le cui opere “funzionano” come un elettrodomestico.
L’arte vive e si alimenta nell’inciampo, nell’attimo in cui il sentire annulla il pensare e ogni opera non è altro che il risultato di una serie di tentativi incerti e prossimità di fallimenti. L’opera esiste davanti ai nostri occhi e nulla ci chiede, soltanto di essere aggiunta in bilico tra le cose esistenti del mondo. Per pretendere questa volontà, l’opera deve creare nello sguardo degli altri nuove improvvise visioni e ribaltamenti di prospettiva. Non esistono attese, parole confortevoli o scritti dal tenore intellettuale; esiste un’orgia, un rapporto a tre in cui l’opera sublima il suo volere e tradisce le aspettative di colui che l’ha creata. L’artista non può nulla, non ha più alcun potere e soprattutto, nessun diritto di proprietà. L’opera si manifesta nella sua interezza solo dopo lo sguardo del fruitore e nulla è più doloroso di un’occhiata fugace o più magnificente di un lento e intenso sguardo incrociato.
A. Hitchcock, frame da Gli Uccelli, 1963
Così, l’artista porta il peso di questo sentire il mondo come un’antenna che riceve segnali continui e persistenti, il fardello di questo vedere oltre le cose stesse. Un potere che porta alla disfatta e non alla fama e alla notorietà.
E in un giorno qualunque, in un momento in assenza di pensiero sopraggiunge la visione improvvisa e folgorante oppure quella lenta e dolorosa, affinché l’artista con la sua opera e il suo cercare, aggiunga qualcosa alle cose già esistenti del mondo per poi perderla nel momento stesso in cui tenta di definirla (essendo l’opera mai finita per suo stesso volere), donandola allo sguardo di un pezzo di mondo e abdicarne per sempre il possesso.
Scrivevo queste parole il 18 aprile del 2017 nel mezzo di una notte alcolica e piovosa nel mio studio di Bruxelles. Consapevole dei deliri contenuti in questo scritto ma colmi di autentico abbandono, mi trovo ad esserne ancora attratta. Essere e non sembrare di essere. Ancora condivisibile.
In questo mondo che avanza troppo velocemente per le mie abitudini e che dimentica con altrettanta rapidità in un vortice di amnesia quotidiana, trovo di estremo interesse condividere il passato come fossi l’oggi.
Robert Wiene, frame da ll gabinetto del Dottor Caligari, 1920
“Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento.
Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. Nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth... e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro”.
Serena Fineschi 2023
Ed. Castelvecchi, collana Fuoriuscita