Cosa resta della bellezza
Tra Arte e Psicoanalisi
di Valentina Galeotti
Roma, 22 aprile 2023 (1)
Cosa resta della bellezza? Di quale bellezza si parla? Una domanda che si tenterà di bordare a partire dalla lettura del testo del filosofo Federico Leoni “Immagine scatola”.
L’attuale arte contemporanea nella sua profonda complessità si sta avviando verso una forma “espansa” come direbbe Perniola ossia variegata, polifonica, multidirezionale e la maggiore misura di queste direzioni non risulta figurativa ossia appare sempre meno la presenza della pittura, del quadro, dell’opera a vantaggio di oggetti fluidi, evanescenti, sul bordo del divertissement proprie dell’epoca attuale.
Dal primo dopoguerra in poi l’arte e la cultura occidentale hanno subito un cambiamento epocale.
Lo stesso Freud nelle opere come Disagio della civiltà (1919) e Al di là del principio di piacere (1920), ripreso da Lacan nella tesi, tra le tante, della Evaporazione del padre, bene intercettò, per dirla con Pasolini, la posizione del soggetto posto di fronte allo sgretolamento di un ideale di fiducia, di coesione, di potenza in cui il popolo si era sino a quel momento identificato, seguito, ad oggi, da un altro ideale ossia quello del consumo e del mercato.
Nell’ambito della filosofia Adorno ha espresso nel testo Teoria estetica il concetto di “fine dell’ovvietà dell’arte”, in altre parole fine di quella dimensione auratica, alta, eterna che sino ad allora aveva caratterizzato le produzioni artistiche, concetto ripreso da Benjamin, quando sostiene che si, l’aurea del genio e dell’opera romantica è tramontata, ma a rimanere è un altro tipo di aurea ossia quella del mercato e dell’oggetto, del cosiddetto rinnovamento dell’umanità che egli definisce “cattivo nuovo”.
A governo del “fare artistico” vi sono le leggi del mercato che immettono questo in un ciclo continuo dello scambio, quindi più che la perdita dell’aurea a causa del fatto che con la fotografia un oggetto si può riprodurre, sembra esserne l’elemento dello scambio la causa, ossia, ogni oggetto può essere scambiabile direbbe Marx.
Negli anni ‘50 il centro della prospettiva di Piero Della Francesca era improvvisamente crollato, le poetiche si confusero e gli artisti si trovarono tra lo smarrimento e la profonda necessità di espressione.
Tre le macro fratture rispetto all’arte mimetica, decorativa, naturalistica, rappresentata dall’estetica crociana in cui l’arte modificò le sue regole formali ne potrei individuare tra tutte tre.
La prima è reperibile nell’opera
le Demoiselles D’Avignon di Picasso dove le regole prospettiche e formali vennero sovvertite con soggetti dai tratti non regolari, che guardano l’osservatore, sorte da contaminazioni dell’artista con l’Africa e l’Indonesia per un esito così rivoluzionario da avere solcato una precisa sovversione tra un prima e un dopo.
Un secondo strappo potrebbe essere reperibile nell’avvento dell’arte oltreoceano e il dialogo/scontro con questa. Pollock, negli anni 50 e 60 ne fu il massimo esponente. A seguire tra i protagonisti il gruppo della Transavanguardia verso gli Stati Uniti, cosi Kounellis, Pistoletto, Burri, Boccioni e altri esponenti della Scuola romana del tempo come Schifano, Festa, Angeli, Severini e i pittori del nord Italia come Balla, Depero, Prampolini, Dottori promotori del Manifesto del Futurismo e Vedova, Morlotti con altri artisti dell’informale.
Nell’Occidente americano da New York all’europea Parigi la comparsa della street art e dei grandi muri, il movimento fu radiale, costante, in quegli anni fiorirono Manifesti, partiti d’azione, l’arte era prolifica, re-azionaria e non prevedibile nel suo evolversi.
Un terzo riferimento è reperibile ad opera di Duchamp, il maestro dei
ready made, padre del movimento Dada, colui che introduce oggetti trovati,
oggetti staccati (2) come direbbe Jacques Alain Miller, oggetti che nulla avevano di quella solennità auratica degli anni precedenti, che potevano spaziare da un pettine, a una scatola, a un orinatoio.
Tanta era la loro
cosità da essere eretti su un piedistallo. Come direbbe Lacan alla Dignità della cosa. Come direbbe Kiefer un passaggio per l’artista dalla necessità soggettiva alla necessità oggettiva, dal soggetto all’oggetto che diviene dotato di un suo statuto autonomo.
Anselm Liefer, Lilith’s Töchter, 1998
Elevare l’oggetto alla Dignità della cosa significherà che questo oggetto non avrà più un senso per l’artista, si svuoterà di senso, sarà una Cosa appunto, separata da sé, non comprensibile a sé, non prossima.
Cosa ne nascerà da questa commistione? Cosa resta di questo? A questo punto emerge un nodo fondamentale con la clinica psicoanalitica e il senso che questo resto assume nell’esperienza dell’analisi.
Nell’analisi, durante e al termine della seduta, si producono resti nel senso che il lavoro dell’interpretazione dell’analista, le sottolineature che “tagliano” la circolarità dell’ermeneutica di senso, fanno sì che qualcosa cada, qualcosa funga da residuo,
da resto (3) per dirla con Freud.
In aggiunta al reperimento di questo resto Freud attribuisce ad esso un ulteriore statuto ossia resto, ma di godimento per il soggetto, un resto di
fissazione libidica (4) che, per dirla con Lacan, cade fuori dalla catena significante ed è resistente ad ogni forma di interpretazione dell’analista.
Esso può essere un suono, una parte del corpo, una parola, il seno della propria madre, le mani, oggetti su cui la libido del soggetto si è originariamente fissata e che il soggetto cercherà nell’altro.
Lacan lo articolerà nella forma dell’oggetto (a) ossia un oggetto residuale, ridotto all’osso appunto come gli oggetti duchampiani sopra elencati o come gli oggetti in meno di Pistoletto, pezzi staccati, resti di un lavoro, ciò che in analisi chiameremmo il sintomo.
Ebbene il resto della bellezza di cui oggi si parla sarà quel tipo di arte che si occupa di composizioni, assemblaggi, oggetti trovati, oggetti che rumoreggiano affetti da un attacco di panico, led che si accendono ad intermittenza. In questo caso l’arte sembra addentrarsi in un cono più oscuro, estremamente attuale, spietato e inquietante. “Un panorama di una modernità sconcertante”. (5)
Che statuto hanno questi pezzi, questi frammenti?
La prima è l’associazione tra l’opera di Meier, artista citato nel libro, e un articolo di Didi-Hubermann tratto dal suo libro come le lucciole dove l’autore evocando l’immagine pasoliniana del 1975 della scomparsa di questi splendidi animali, articulo mortis riferito alla morte dell’innocenza e la dominanza di un fascismo luminoso e imperante, si pose la domanda: ma sono davvero morte le lucciole?
Questa domanda non sembra così dissimile da quella presente nel titolo del testo. Cosa resta ora che l’innocenza è perduta, che ad imperare vi è il discorso dei consumi, dei fari seduttivi del mercato?
La lettura di Federico Leoni sembra prendere posizione nel dire, si è cambiato, ma non morto, trasformato. Ossia nell’arte, specchio precursore del soggetto odierno, le lucciole ci sono, qualcosa resta, ad essere morto è il collettivo, il legame, ogni soggetto è luminoso, pulsatile, istantaneo, ma non collegato con l’altro. Non c’è rapporto, c’è uno sciame. Uno sciame informatico.
Ritorna l’esame del tempo odierno come tempo privo di distanza, annegato nella prossimità, nella telepatia, nel sentire comune e condiviso dei social, nelle vite costruite sull’asse immaginario che da analisti incontriamo nelle nostre stanze di analisi.
Come fare i conti con questo?
Non sembriamo essere nel campo delle opere di Boltansky, pregne di significazione, accuratamente accostate nella loro successione significante, ancorate a luoghi precisi, inquadrati in uno spazio-tempo ben delineato, nei lavori di Boltanski, centrati nel tempo dell’Olocausto.
A. Kiefer, Markische heide (1974)
Nel caso di Cornell cosi come di Echigo, gli oggetti, cito Leoni, non hanno inquadramento teleologico, non hanno inizio nè fine.
Ancora più avanti, dall’Immagine scatola:
“Non c’è uno spazio vuoto tra la materia e la forma, ci sono solo dei pieni assoluti singolari, delle materie forme che comunicano in perfetta estraneità e immediatezza con altre materie-forme. Come una pelle di leopardo di cui ci sono solo le macchie, senza pelle”.
Joseph Cornell, Planet Set, Tête Etoilée, Giuditta Pasta (dédicace) 1950
L’opera di Meier, dei led raffiguranti lucciole la cui accensione è guidata a distanza ne è un chiaro esempio, cosi come l’assemblaggio di pezzi di Joseph Cornell, siamo al cospetto di pezzi staccati, non comunicanti, che nella loro non colleganza costituiscono un’opera.
Di quale statuto sono questi oggetti?
Da clinica, l’assonanza con la psicoanalisi si impone: quando osserviamo il nastro di Cornell, l’uccello, la biglia evochiamo nuovamente l’oggetto,
l’oggetto a, oggetto sintomo che verrà elevato a Sinthomo?
Penso a mia paziente, Giada, gravemente abusata e percossa da bambina, perseguitata sin da molto piccola da incubi con ombre, presenze minacciose che la strattonano e la picchiano, durante la sua analisi “impara a farci” con queste ombre spettrali che diventeranno disegni, poi tempere, e poi bozzetti per scenografie teatrali gotiche, il suo attuale lavoro.
Il
terrorizzata, dal quale ogni volta verrà prodotto un respiro spezzato, gutturale e senza senso, diventerà il suo marchio, il frammento isolato del suo fantasma, staccato, l’osso della sua analisi, soggetto ad una torsione, in questo caso generativa, poiché sublimata con l’attività simbolico immaginaria del disegno.
Il pezzo, il significante, l’osso non muta cosi come non mutano gli oggetti che Cornell raccoglie, che come dice luminosamente Leoni, null’altro sono che immagine-scatola, immagine-cosa, immagine-zero, immagine-miniatura, immagine di nulla.
Come nell’analisi, solo quando dopo il lungo lavoro dell’associazione libera, che dura anni, scandita dalle interpretazioni e dai tagli di seduta si arriva all’essenziale, all’estrema riduzione, all’immagine zero appunto, al sinthomo per dirla con Lacan.
In termini di estetica, in questo caso lacaniana, è la lettera la protagonista di queste opere.
Si tratta di una poetica del tardo Lacan, estetica del tratto, della pulsazione, dell’inconscio faglia e del sinthomo appunto.
Christian Boltanski, Personnes, Monumenta 2010
Gli artisti che Leoni ha individuato sono artisti che celebrano il segno ridotto e indipendente. Che non si tratti della stessa procedura che Rodin effettua sui calchi?
Rodin era una grande produttore di frattaglie. Dal grande numero di calchi che era solito produrre ne isolava e separava dei residui, frattaglie appunto per produrre dei nuovi ibridi, eterogenei tra loro e assemblati.
Un esempio tra tutti i celebri calchi dei piedi.
Qui appare evidente di come non sia un semplice dettaglio di piede, la caviglia non è tagliata in modo netto come nelle statue classiche e poggia sul lato impossibile sulla base, appare dunque come un tutto organico, funziona autonomamente, reca in sè la condizione del proprio caos dice Didi Hubermann .
L’analisi non consiste forse nel produrre continui scarti, trucioli, frammenti continui e incessanti?
Tutte le volte che l’analizzante si stende sul lettino nel momento in cui inizia a parlare produce scarti, isola, inanella, si separa dalle maglie dei significanti che lo hanno guidato, gli stessi che lo imbrigliano nel sintomo: “bravo”, “campione”, “imbranato”, “stupido”.
L’azione del significante è sul corpo. L’artista nulla fa altro che fare buon uso di questa cosa, di questo osso, renderlo oggettivo appunto, fino all’assunto che il sintomo, cosi come l’opera, è inaggirabile.
Un ultimo punto che nel libro di leoni emerge: il bricoleur.
Se si ipotizzasse che l’attività del bricoleur, della composizione, non vada proprio in direzione del superamento di questa epoca del nuovo, del cattivo infinito, della ricerca spasmodica dell’oggetto di consumo? Che questo recupero, non recupero nel senso di sostenibile, ecologico ecc, ma recupero nel senso si memoria di oggetti passati non sia un tentativo di sopravvivenza a questo nuovo che impera?
Che l’attività del bricoleur non sia propria un atto di tenacia, di resistenza, per dire di qualcosa che urla di non essere gettato ma di essere composto?
“L’opera della composizione è un esercizio di memoria” dice Leoni, “salvo che la memoria non è mai la nostra, siamo noi semmai a ritrovarci presi in una memoria non nostra, a ritrovarci presi nella memoria dei materiali o in quella memoria che i materiali sono e in cui i materiali si risolvono”.
Trovo difficile non trovare analogie con la posizione di Kiefer il quale sostiene:
“Utilizzo solo dei materiali che mi dicono qualcosa. Non credo che l’Idea si trovi ovunque, l’idea nel senso di spirito è già insita nel materiale. Per esempio il piombo è la materia della melanconia, del fiele nero.
Una volta, in una vecchia casa ho visto un tubo di scarico di piombo, e quella materia, il piombo, mi ha letteralmente affascinato. Solo dopo sono venuto a sapere che aveva tutte quelle connotazioni”.
In altre parole la memoria assume un valore straordinario ma non nel senso di memoria biografica in questo caso, bensì memoria del materiale, della materia, che in qualche modo viene fatta rivivere con un diverso utilizzo.
Ritorniamo al titolo: Cosa resta della bellezza?
Ecco sulla scorta del libro di Federico Leoni credo che una simile arte, non prossima, non della vicinanza, non del divertissement possa essere una via possibile per far sì che questo resto si riveli, nel suo stesso perire tutte le volte, fecondo.
Note
1. Estratto da intervento tenutosi a Roma presso Fondazione Sidival Fila organizzato da Ali roma, Associazione lacaniana italiana, sezione Roma.
2. Jacques Alain Miller, Pezzi staccati, 2006, Astrolabio
3. Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile, Bollati Boringhieri, 1977.
4. Da testo Analisi terminabile e interminabile, 1977, pag.
5. Federico Leoni, Immagine scatola, Castelvecchi, Roma, 2022.
6. George Didi-Hubermann, L’immagine per contatto, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 153.
7. Anselm Kiefer, paesaggi celesti, Il saggiatore, Milano, 2022, pag. 123.
Valentina Galeotti è psicoterapeuta ad orientamento lacaniano, Responsabile Centro Jonas Roma, Presidente Società Romana di Psicoanalisi, si occupa da anni della relazione tra la psicoanalisi e l’arte, pratica la psicoanalisi a Roma.
Autrice dei testi: La verità della bellezza, Quodlibet, 2021. Dal taglio la luce. Passi di Alfredo Pirri, Castelvecchi, 2023.
Valentina Galeotti, La verità della bellezza. Tra Arte e Psicoanalisi
22 Aprile 2023. Convegno a cura dell'Associazione Lacaniana Internazionale.
V. Galeotti, La verità della bellezza. Colloquio sull’arte con Jacques Lacan, Quodilibet, Macerata 2021