ANCHE GLI OCCHI HANNO COMINCIATO DA PICCOLI
(PENOMBRA di Daniela De Lorenzo)
testo di Alessando Sarri
Il problema è ciò che
ha luogo nella soluzione, ciò di cui la soluzione rappresenta un’attualizzazione, una
figura possibile.
Rocco Ronchi
Cornix cornici oculum non effodit
Macrobio
Quando si definisce l’acquisizione dell’abitudine attraverso la ripetizione dell’atto, si gira intorno ad un circolo. Se l’atto iniziale è imperfetto, non è certo ripetendolo che si potrà raggiungere la perfezione, e se ciò che si ripete è inizialmente perfetto, a quale pro ripeterlo.
Georges Canguilhem
Cosa fa il contorno mentre rimuove lo sfondo lasciandolo esattamente al suo posto, ma in maniera totalmente invertita? La linea fa qualcosa, permette qualcosa nonostante ed attraverso la contingenza che sopravviene collateralmente a suturare in sé ciò che di sé non può essere tolto? Se il contorno non può che rappresentare, cosa ne è di ciò che in esso si rivela e circoscrive nel momento fosforescente in cui la rappresentazione altro non diviene che il processo o il blocco di fato tra il limite e il suo atto? Un disegno altro non è che l’autotautologia individuata all’altezza del proprio esercizio determinato nel momento in cui si esperisce qualcosa che insiste in ogni dato senza essere dato? Cosa può un contorno? Il contorno traccerebbe una forma implicita che il contorno s’incaricherebbe di dissimulare nel momento in cui ne conserva l’irriducibilità inallogabile? Si potrebbe dire che il gesto, piuttosto che imporre una forma, limita, stabilizza e assegna una conclusione alla deformazione, lasciandola esattamente al suo posto e cioè nell’atto che non è qualcosa ma il qualcosa di un processo che
avanza – resta - mentre avanza - procede.? È la deformazione che il contorno persegue interrompendola nell’’orizzonte dispiegato che resta perciò sempre alla stessa distanza e precisamente, all’altezza che coincide con il suo stesso evento, al di là del principio del guardare? E se non si guarda, si vede? Si vede che non solo c’è qualcosa che guarda ma che c’è qualcosa che mostra, e cioè la sua intenzionalità totale che resta ben al di qua del lavoro d’uscita metonimica tracciando così,
contingenter, l’intuizione dei modi dell’unità assoluta nella eterogenesi dei tratti contratti? Si tratta di una sorta di mimetismo demetaforizzato o, meglio, simulacro senza referenza, che precede il cambiamento vicissitudinale della forma, sia per distinguersi che per confondersi con l’ambiente, divenendo,
in fieri, il primo piano inesperibilmente mostrato, dell’attuarsi virtuale di ciò che si attua, tra ciò che ha bisogno che non sia già e ciò che non sia ciò che non è affatto. L’individuazione, che ostacola la visione come oggetto/aggetto vero del contornare – la sua rimozione simultanea, subitanea? - è ciò che
avanzerebbe del tratto una volta che questo fosse irriducibilmente dispiegato nella funzione il cui esercizio l’afferra, in un progresso che è irriducibile alla cosa? Ciò che resta fuori quando tutto è
dato nel modo in cui il contorno s’individua,
condizionandosi sulla base delle diverse strutture e operazioni successive per le quali si riverbera in sé stesso e si sfasa in rapporto al suo
stato iniziale?
Daniela De Lorenzo, Penombra disegno su carta cotone 2024, Photo Ela Bialkowska
Nella periplo di disegni che Daniela De Lorenzo ha denominato (
nomen omen)
Penombra – sguardi di occhi di animali
colti, staccati sul vivo, a vita, troppo a vita - si rinviene tutto ciò che si t-r-accia mentre se ne
fa inesperire il tratto diferente di natura che li rende visibili non partecipandone, non esaurendo il reale preindividuale, ma
mantenendone il regime metastabile come trascinandone il processo in modo tale che il contorno costituentesi rechi con sé un certo carico aggregato di datità preindivuduale, rianimata da tutti i potenziali che l’ingenerano come presa di forma intensiva
a praesenti, non materiale ma energetica. La potenza del contorno non fornisce la condizione di possibilità del divenire, ma impone il limite di ciò che ha il potere d’agire perché sta agendo
sotto forma di ambivalenza – dalla forma all’informazione – di tensione e d’incompatibilità mediante un avvenimento e di un’operazione all’interno di un reale più
ambientato dell’individuazione che ne scaturisce, operazione in cui il contorno altro non
fa che riprendere incessantemente la sua ombra mediante una torsione su sé stesso; attraendo tutto a sé essendo esposto a tutto, il contorno è essenzialmente un
essere che ha problemi che risolve in ogni istante, dal tragitto alla traiettoria. L’atto in atto del contorno non diventa ciò che è già vero nel futuro inteso come tunica diacronica, non risulta concentrico ad un limite di interiorità che costituisce il dominio sostanziale dell’individuazione ma giace sul limite stesso dell’individuare come stato incoativo (quello cioè di iniziare ad essere nell’atto stesso del suo alterarsi), non conferendo realtà ad altre possibilità di evoluzione che non siano contenute nello stato già attuale del tratto in atto di un
passato che non passa che nel futuro assoluto di una
selezione processuale che non si manifesterà mai come tale. Infatti, la distribuzione di probabilità – in questo caso la
res extensa di ciò che diviene (del)
disegno-entelechia, secondo la penombra (ombra a malapena, la pena dell’ombra nel senso bergsoniano dello sforzo penoso del pensiero, essendo l’intuizione il pensiero secondo la durata, essa è anche il pensiero dell’imprevedibile, dell’originale, dovendo in ogni istante rompere con il proprio passato, esattamente come
fa (il) contorno) che fa ombra all’ombra stessa nel ciclo di disegni irriducibilmente omonimi di De Lorenzo - riflette, in maniera inversamente proporzionale, la
nostra ignoranza su ciò che è reale, quantificando la mancanza di conoscenza di quelle caratteristiche reali che attestano la dimensionalità dell’essere che s’individua permanentemente come non-identità del contorno in rapporto a sé stesso come residuo di niente, non-essere intensivo che non è affatto essere del privativo raffigurato come serie di posizioni intese come aumento quantitativo in relazione ad altro, ma variazione qualitativa di una eterogeneità pura come essere-diverso-in-sé-da-sé.
Daniela De Lorenzo, Penombra disegno su carta cotone 2024, Photo Ela Bialkowska
Per utilizzare un topos stoico, a proposito di ciò che si traccia, si potrebbe parlare di
cofatalità, una muraglia di fato fatta contorno che ribatte l’impossibilità di esperire un qualcosa di traslabile proprio attraverso ciò che lo rende visibile come impedimento che preesiste alla sua formalizzazione che nondimeno non può non incarnare che il sintomo traumatico di ciò che non accade mai perché sempre già accaduto senza mai darsi che in una sorta di contraccolpo o contrazione morfogenetica. Nessun movimento: tutto è già mosso, anzi rimosso, attraverso ciò che non sarà mai trovato al suo posto, intendendo tale mancanza topologica come processo di una durata-datità in atto in cui il darsi del contorno non avviene per composizione se non per l’allucinazione retrospettiva che antecede le operazioni di formazione alla causalità che incede sinteticamente e perciò
musivamente, confondendo così l’atto con lo spazio percorso. Nei contorni lisci di questi occhi morti alla visione di questi sguardi animali
desegnati da De Lorenzo, si tocca con mano, troppo a mano, l’adagio leibniziano del tutto cospira,
sympnoia panta, cofatalità di una positività indisponibile e irriducibile, senza scarti o sintesi; il reale in atto a metà fra il potenziale e il reale, fra l’idea di evento e l’evento reale, fra il che e il che cosa di un
atto qualsiasi come operazione operazionale. Un reale puro, un tracciamento puro da pensarsi più come dimensione processuale che come fatto trascorso o segmento presente-passato, un reale assoluto in cui il contorno non è uno sfondo in cui esiste l’essere ma l’essere che consiste, o meglio, insiste, nella dimensione senza prospettivismo dell’atto in atto, nel modo di risoluzione di un inziale incompatibilità di potenziali; l’operazione stessa nel corso del suo compimento attuoso,
en grisaille, il divenire dell’essere in essere, ciò per cui l’essere diviene essendo, in quanto essere, accadere di ciò che accade .Ora, come non ravvisare quel preindividuale co-spirante che precede, c-ostruendosi in
actu exercito, ogni tratto, costituendosi come primo tratto solo a partire dall’individuazione del contorno che, come collisione sovrapposta di limiti, sdoppia l’essere e lo sfasa in rapporto a sé stesso in un azione a distanza, non permettendogli di vedere, seppur non attraverso un accecamento o un’impotenza privativa, mancante di qualcosa di cui si tratterebbe di allestire ed eleborare la
fata morgana, il lutto, il ritardo sempre troppo presto/troppo tardi illegittimamente tradotto e rapportato ad una grandezza che fraziona e immobilizza.
Daniela De Lorenzo, Penombra disegno su carta cotone 2024, Photo Ela Bialkowska
L’occhio morto alla visione è tutto da mostrare; esso, come la prospettiva rovesciata dell’icona orientale, non cessa di avanzare all’indietro, togliendo tempo al tempo, fino ad ostruire la visione in una positivizzazione irriducibile, pura iconostasi senza scarti o sintesi induttive o deduttive che siano, medietà assoluta di ciò che
suc-cede alla visione nella misura in cui si
mostra la mostruosa spontaneità
dell’innocenza di chi non è in condizione di scegliere. In questi disegni morti o, come dicevamo,
desegni scotomizzati in atto di De Lorenzo, si ravvisa, esattamente, alla lettera, lo stesso intento e specularmente lo stesso scorcio sia come sguardo
post mortem, dell’occhio defunto alla vista, di Marion Crane, dopo aver subito lo stupro autoptico all’interno della camera oscura della doccia (come una sorta di
mise en abyme dello
sviluppo dell’immagine dal negativo al positivo) in Psycho di Hitchcock, sia come sguardo
pre mortem, molecolarmente vitreo, meduseo ed aggettante, ad un tempo, dei cavalli in
Lancelot du Lac e dell’asino in
Au Hasard Balthazar di Bresson, sia come sguardo pre vitam di Keaton, sguardo-saccade oligofrenico e retroverso che scivola, unto di sapone, attraverso la propria inesausta messa a fuoco
sincronico- palindromica,
transitivamente intransitiva, come accade nell’ automatismo assoluto della
coincidentia oppositorum della macchina da
presa ubiquitaria e desultoria nella
Région Centrale di Snow, vero e proprio
alter ego invertito delle
saccadi tanatosiche, in penombra, di De Lorenzo. Il chiuso qualitativo –
horror pleni mancante di nulla, perfezione, capolavoro scrive Hugo,” la cui bestialità risulta composta di cenere” – intransitivo, di questa visione s-cambiata, dissimulata in sguardo si fa
larve etérnelle, ocello ottuso e anasemico, gorgo vibrazionale che rende conto(rno) del reale del tempo nel tempo; reale acefalo, linea senza spessore contro cui si tenta allestire lo schermo bianco, la carta moschicida attraverso cui riattivare la feritoia, la corre-la-zione prospettico-fenomenica io-mondo, alla base - alla debita distanza - dell’identificazione proiettiva, sguardo (in camera) vestibolare costituito a partire dalla staticità transitiva dell’oggetto-mira come propria immagine riflessa, il permanere omologo e sinonimico di ciò che il soggetto riconosce di se stesso nell’oggetto.
Daniela De Lorenzo, Penombra disegno su carta cotone 2024, Photo Ela Bialkowska
Quando si è nel blocco del divenire atto del contorno ( la tracciatura dell’atto nell’orizzonte della traccia predicativa di un’atopica, aposizionale bordatura di uno processo di crescita della cosa che cresce, sempre fuori luogo dal luogo di sé quale realtà estesa), le cose sono presenti realmente come pura differenza di natura, e per questo l’orlo risulta irriducibile alla mera denotazione dello sguardo-oggetto; l’occhio si ribatte mostrando ciò che non può che mostrare senza far vedere, occhio che non assimila ma che incorpora la sua inesausta
t-r-oponomastica in una gigantomachia d’individuazioni prototipiche: non più la tirannia dialettica del viso-organo ma il punto di
vi-s-ta opaco, articolazione intrinseca, modificazione
pseudopodale, di un occhio-testa che non descrive nulla e che sa di non essere tutto e che, proprio per questo, non pretende di dare corpo scopico a ciò che è traducibile in visione, per poi suturare e saturare lo scarto nella forma del puro immaginario. “La cornacchia non attacca l’occhio di un'altra cornacchia”, scriveva Macrobio: condizione di impossibile neutralità di una struttura reticolare amplificante, reazione a catena in seguito a cui il segno né rigetta qualcosa né l’afferma, non aspettando o incarnando nulla, senza passare, senza divenire o estinguersi che in una
quodditas incomparabile che preserva in qualche modo la propulsione, l’atto di passare alla sua concretizzazione in cui tutti i potenziali – del contorno - risultano
finalmente attualizzati, avendo raggiunto il non poter non come
infimo livello energetico che non può più,
all’ombra di ogni penombra, trasformarsi se non come sincope,
aprés-coup di un grafo di fondo neotenico, una sorta di grafo browniano che non cessa mai di non poter non accadere sempre già accaduto
dans le pénombre che produce la coerenza necessaria di tutto il proprio accadere nella propria
p-resa pl-eon-astica, diplopica, come già del non ancora individuantesi per divergenza, per esclusione, proprio nel momento in cui giunge ad estrinsecarsi in una estensione. Il grande contorno di Penombra di De Lorenzo, sulla scorta della grande salute di Nietzsche, rischia resistendo il più a lungo possibile, mimando ciò che accade effettivamente, doppiando l’effettuazione con una contro-effettuazione, surfusione come differenza di natura in un atto in atto che non si confonde più con lo spazio che gli serve da spazio e con il presente attuale che traccia; l’ora dell’evento – il suo segreto aperto, ” dal ‘pane’ del significato alla ‘rosa’ del senso” (Ronchi) - termina prima che l’evento finisca già da sempre s-contornato di simultaneità protoplasmatiche di presenti di passato, di presenti di presente, di presenti di futuro che interrompono ogni divenire,
all’ombra di ogni penombra.
Alessandro Sarri