Domenico Quaranta
Informational Ghosts. Arte e (im)materialità dell’informazione
* “L’informazione è […] il formato in cui la ‘materia’ del mondo si rende disponibile a essere impiegata come strumento e perciò, all’interno della cosmologia della Tecnica, è il formato in cui il mondo effettivamente emerge. L’universo della Tecnica, come accumulo di ‘risorse a disposizione’, è un mosaico sconfinato di unità di informazione”. (Campagna 2021, 120-1)
In
Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà, il filosofo Federico Campagna si impegna ad analizzare i presupposti metafisici che definiscono implicitamente la nostra architettura della realtà e la forma cosmologica che definisce la nostra epoca storica. L’idea da cui parte Campagna è che esista una dissociazione tra ciò che chiamiamo “realtà” e il nostro “sistema di realtà”, ossia il modo in cui noi comprendiamo il mondo, e nel comprenderlo lo creiamo – perché una cosmologia è sempre anche una cosmogonia. “Realtà” è invece “il nome che assegniamo a uno stato nel quale la dimensione dell’essenza (
che cosa qualcosa sia) e la dimensione dell’esistenza (il fatto che essa
sia) sono inestricabilmente unite, senza però fondersi l’una nell’altra”. (151) Se la realtà è qualcosa di esterno e assoluto, un sistema di realtà è solo un “conglomerato contingente di assiomi metafisici, la cui modificazione rimane sempre aperta e disponibile”. (25-6)
Campagna chiama il nostro attuale sistema di realtà “Tecnica” e il suo possibile antidoto “Magia”. Come altri prima di lui, identifica nella Tecnica – termine forte che unisce scienza e tecnologia – una forma di controllo e riscrittura della realtà, di riduzione di qualsiasi cosa al ruolo di strumento: “un determinato modo di disporre il/del mondo, che lo svela in quanto ‘fondo di riserva permanente’, ovvero come accumulazione strumentale di ogni cosa”. (47) Il sistema di realtà della tecnica privilegia l’essenza sull’esistenza, il linguaggio sulle cose e nel fare questo trasforma le cose del mondo in “posizioni” in una serie, anziché intenderle come soggetti autonomi. In quanto tali, le cose del mondo diventano mere posizioni linguistiche, localizzabili, quantificabili, computabili, e traducibili in dati, unità di informazione.
Nell’affascinante elaborazione di Campagna, il sistema di realtà della Tecnica è il principale responsabile della crisi di realtà contemporanea, conseguenza inevitabile della inconciliabilità della Tecnica con la vita: “Mutato, fatto a pezzi e incatenato alla macina dell’informazione, un essere umano, come ogni altro esistente, non può che urlare di dolore” (124) o ridursi a una anedonia totale. Ai fini della nostra riflessione, le idee di Campagna sono interessanti perché presentano l’odierna società dell’informazione come lo stadio, forse terminale, di un lungo tragitto storico, e come l’incarnazione di una visione del mondo che ha radici profonde nel pensiero materialista e razionalista occidentale.
Questa visione, se da un lato priva progressivamente di fondamento la sfera spirituale – una delle principali vie di accesso alla concezione del vuoto e dell’immateriale – dando una spiegazione materialista a qualsiasi fenomeno e mistero; dall’altro ci ha fornito gli strumenti, metafisici e tecnici, per concepire il vuoto e l’immateriale nella loro unica forma possibile oggi, nel nostro attuale sistema di realtà: come zero matematico, come vuoto quantico, come flusso di informazioni e dati immateriali.
Rebecca Allen, Life Without Matter, 2018. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
La conquista dell’ubiquità
“Da vent’anni in qua né la materia, né lo spazio, né il tempo sono più ciò che sono sempre stati. C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino l’intera tecnica artistica, e che in tal modo influiscano sull’invenzione stessa, e da ultimo giungano forse a modificare il concetto stesso di Arte nella maniera più stupefacente”. (Valéry 1928)
C’è la Tecnica, anche se non ancora la tecnologia digitale, alla base delle prime speculazioni sulla smaterializzazione dell’arte e dell’informazione. Nel 1928 il poeta francese Paul Valéry pubblica un breve, straordinario testo intitolato “La conquista dell’ubiquità”. L’intervento è ispirato dalla trasmissione via radio della musica, ma si abbandona a considerazioni che riguardano tutte le arti, sostenendo che la loro materialità non può più essere concepita e trattata come prima dell’avvento dell’elettricità. La capacità immaginativa di Valéry non deve sorprendere. Come nota Walter Benjamin nel suo saggio sulla riproducibilità tecnica, poco prima di citarlo: “Nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il film sonoro”. (Benjamin 2000, 21) Se è vero, come dice Marshall McLuhan, che il contenuto di un medium è sempre un altro medium, Benjamin sembra dirci che oltre a contenere un medium già esistente, ogni nuovo medium contiene “virtualmente” anche le sue estensioni successive, che la scalabilità delle tecnologie ci consente di anticipare e immaginare. La radio, brevettata come un “miglioramento nella telegrafia” e divenuta realtà nel 1907, consente a Valéry di immaginare un mondo di comunicazioni
wireless, in cui “immagini visive e uditive” ci vengono servite come l’acqua o il gas: “Le opere acquisiranno una sorta di ubiquità. La loro presenza immediata o il loro ritorno in ogni momento obbediranno alla nostra chiamata. Non saranno più solo presenti di per sé, ma esisteranno ovunque si trovi qualcuno con un certo apparato”. E, come è noto, fotografia e cinema consentiranno a Walter Benjamin di immaginare un’epoca in cui all’evento unico si sostituisce “una serie quantitativa di eventi”, (Benjamin 2000, 23) allo spettatore unico una “ricezione collettiva simultanea”. (39)
Del resto, se la riproducibilità tecnica non ha ancora reso le opere d’arte visive concretamente ubique, è solo per i limiti imposti dalla materialità dei supporti: ma la loro trasmissibilità, la loro indifferenza al proprio sostrato materiale e al mantenimento di una posizione unica nello spazio e nel tempo (il qui e ora di Benjamin) è già riconoscibile in uno dei capisaldi postumi dell’arte contemporanea. Scrive all’inizio del secolo successivo l’artista Seth Price a proposito di
Fountain (1917) di Marcel Duchamp: “ben pochi videro l’originale di
Fountain nel 1917. Mai esposta in pubblico, quasi subito persa o distrutta, l’opera è stata in realtà creata più attraverso le manipolazioni dei media fatte da Duchamp [...] che attraverso il mito del dito creatore che la seleziona nello showroom [...] Nell’elegante modello di
Fountain, l’opera d’arte non occupa una sola posizione nello spazio e nel tempo; piuttosto è un palinsesto di gesti, presentazioni e posizioni”. (Price 2008)
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Maurizio Bolognini, Vera Molnar, John F. Simon, Jr e Lillian F. Schwartz
Software
“È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software [...] Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso”. (Calvino 1993, 12)
In quegli anni, la storia della computazione è ancora agli albori, e ha un’esistenza pressoché carbonara. Le prime macchine da calcolo programmabili, come la macchina analitica dell’inglese Charles Babbage, risalgono al XIX secolo, ma è solo durante la seconda guerra mondiale che le necessità di calcolo balistico e di decrittazione dei messaggi conducono alla progettazione dei primi computer digitali basati sul calcolo binario. Non è nelle macchine, ma in due saggi scritti negli anni Trenta e Quaranta che troviamo in nuce molti degli sviluppi futuri. Con
On Computable Numbers, nel 1937 il matematico inglese Alan Turing fonda la
computer science e introduce il modello teorico della macchina di Turing, una macchina di calcolo universale capace di eseguire qualsiasi tipologia di calcolo sia rappresentabile in forma di algoritmo. Nel saggio
As We May Think, pubblicato nel 1945, l’ingegnere americano Vannevar Bush descrive invece il memex, un dispositivo – progettato nel 1932 ma mai realizzato – di tipo elettro-ottico per l’archiviazione e la consultazione ipertestuale delle informazioni, “un supplemento intimo e ampliato della... memoria”. (Bush 1945)
(1)
A fronte di queste idee di leggerezza, i computer di quegli anni sono enormi macchine da calcolo (mainframe) che possono fare poco altro che macinare numeri e operazioni. L’UNIVAC 1, il primo computer non scientifico a destinazione commerciale, viene presentato negli Stati Uniti nel 1951 e adottato negli anni successivi da dipartimenti della difesa, compagnie assicurative ed energetiche per usi amministrativi e commerciali. Ha un’unità di memoria che archivia dati e operazioni su nastro magnetico, una tastiera e degli
switch per la loro immissione. È decisamente
hardware.
Il concetto di
software fa la sua comparsa in alcuni testi degli anni Cinquanta, per indicare i primi codici eseguibili in linguaggio macchina (e quindi in codice binario) che istruiscono il processore sulle operazioni da eseguire, causando un cambiamento di stato nel computer. Da quel momento in poi, il termine sarà usato per indicare qualsiasi mediatore linguistico – in qualsivoglia linguaggio di programmazione – tra l’umano, che immette o invoca le operazioni, e la macchina, che le esegue traducendo le unità minime di informazione (bit) in energia e restituisce il risultato sempre in forma di informazione.
Il termine bit (abbreviazione di
binary digit) viene introdotto nel 1948 dal matematico americano Claude E. Shannon in un testo seminale, intitolato
A Mathematical Theory of Communication, che pone le fondamenta della teoria dell’informazione. Shannon separa il messaggio dal suo significato (Campagna direbbe l’essenza dall’esistenza), introduce l’idea della misurabilità dell’informazione (attraverso la sua codifica dall’originale forma analogica e continua alla forma digitale e discreta) e della riducibilità di qualsiasi sistema di comunicazione a cinque elementi fondamentali (la fonte di informazione, il trasmettitore, il canale di trasmissione, il ricevente e la destinazione).
Il 1948 è un anno cruciale anche per altri due motivi. Con la pubblicazione di
Cybernetics, or Control and Communication in the Animal and the Machine, il matematico Norbert Wiener propone i fondamenti di un vasto programma di ricerca interdisciplinare, rivolto allo studio matematico unitario dei sistemi, sia naturali che artificiali. L’idea di fondo di Wiener è che, indipendentemente dalla sua natura meccanica, elettronica o biologica, “qualunque sistema interagisce con il proprio ambiente in base a tre principi: l’orientamento a un obiettivo (intenzionalità o teleologia); la trasmissione e circolazione dei messaggi (informazione); il controllo e riadattamento costante dei propri stati e comportamenti in funzione del raggiungimento dell’obiettivo a partire dalla retro-trasmissione dei messaggi (feedback, retroazione o casualità circolare)”. (Eugeni 2021, 178-9)
Sorprendentemente,
Cybernetics si rivelerà un caso editoriale, guadagnando a Wiener una straordinaria popolarità e portando la cibernetica a diventare una delle teorie più influenti del XX secolo. La teoria dei sistemi complessi lì elaborata verrà declinata in campi così diversi come la teoria politica, l’economia, l’ecologia e, come vedremo, l’estetica e l’arte.
Il terzo evento del 1948 è l’annuncio, dato dai Bell Telephone Labs, dell’invenzione del transistor a giunzione per opera del suo gruppo di ricerca sui materiali semiconduttori. Il minuscolo
sandwitch di placchette di germanio o silicio (che diventerà il materiale prediletto nei decenni seguenti) poteva fare tutto quello che facevano i tubi a vuoto nei grandi mainframe degli anni Cinquanta, e pose le basi per la rivoluzione dei microchip e della miniaturizzazione dell’elettronica. Nel 1965 Gordon Moore, uno dei fondatori di Intel, formulerà la legge di Moore, una legge empirica che – con qualche opportuna correzione di rotta – è rimasta valida fino a oggi. Secondo la legge originale, la complessità dei microprocessori (misurata di solito in numero di transistor per chip) e quindi la loro potenza di calcolo raddoppia periodicamente (con un periodo inizialmente fissato a 12 mesi, oggi assestatosi a 18).
Addie Wagenknecht, XXXX.XXX, 2014. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Non è questa la sede per fare una storia completa dell’informatica e delle idee che ne hanno fondato e accompagnato lo sviluppo. Ma se uniamo i puntini, scopriremo di avere, all’indomani della seconda guerra mondiale, una sintesi formidabile, e già compiuta, di filosofia e tecnologia. Da un lato, abbiamo un pensiero che corona superbamente un “sistema di realtà” già dominante nella cultura occidentale, che privilegia l’essenza sull’esistenza, che descrive in termini matematici le leggi astratte che soggiacciono a qualsiasi livello della realtà, dal cervello all’organismo, dai sistemi ecologici a quelli sociali a quelli comunicativi, che estrae dati indifferentemente dal vivente e dall’inorganico, che traduce la materia in informazione e poi interviene sull’informazione per manipolare la materia. Dall’altro, vediamo l’avvio di un processo di miniaturizzazione – e quindi, di progressiva sottrazione dalla sfera del visibile – del sostrato materiale a cui l’informazione è costretta ad ancorarsi. Questo processo porterà, nei decenni successivi, questo sostrato a farsi sempre più pervasivo e ubiquo, a nascondersi negli oggetti e nelle infrastrutture, nei fasci di fibre ottiche sottomarine, nei satelliti e nei fabbricati climatizzati lontani dalle zone residenziali e dietro nomi e metafore evocative di una realtà leggera, effimera, vaporosa e smaterializzata, come “web” o “cloud”.
In un secolo che ha visto, da un lato, la morte di Dio e la riduzione della spiritualità a un fatto privato, indifendibile in termini razionali; e che ha portato, dall’altro, scienza e tecnologia a colonizzare lo spazio dell’immaginario, queste due traiettorie circoscrivono lo spazio occupato, oggi, dalla nozione di immateriale: uno spazio insieme dominante, perché fondato sull’idea di controllo della, e indifferenza alla, materia;
(2) e circoscritto da una visione della realtà che non ammette un oltre rispetto a quanto è misurabile, quantificabile e riducibile a linguaggio.
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Agostino Bonalumi, Aiko Miyawaki, Enrico Castellani, Gerhard von Graevenitz e Dadamaino
La smaterializzazione dell’arte
“Tutti i mezzi di comunicazione ci condizionano nel modo più assoluto. Sono a tal punto pervasivi nelle loro conseguenze personali, politiche, economiche, estetiche, psicologiche, morali, etiche e sociali che non lasciano integra, indenne né inalterata alcuna parte di noi. Il medium è il massaggio. Ogni comprensione del cambiamento sociale e culturale è impossibile senza una conoscenza del modo in cui i mezzi di comunicazione funzionano come ambienti”. (McLuhan 2011, 26)
Nel febbraio 1968, la rivista
Art International pubblica “The Dematerialization of Art”, l’influente saggio di Lucy R. Lippard e John Chandler sull’arte concettuale. A una lettura superficiale, la smaterializzazione dell’arte di cui parlano gli autori potrebbe sembrare più il frutto di uno sviluppo interno dell’arte che un riflesso dei processi in corso nell’ambito delle tecnologie e della comunicazione. Parlano di “Idea Art” e di “Art about Art”, non citano né Wiener né Shannon, e la parola “information” appare accidentalmente soltanto una volta. Tra le righe, tuttavia, emergono alcuni segnali interessanti. Fra i riferimenti di Lippard e Chandler c’è Joseph Schillinger, un cubista americano minore, autore di un libro strano e monumentale,
The Mathematical Basis of the Arts, pubblicato postumo nel 1948 con l’intenzione di “svelare il meccanismo della creazione come si manifesta nella natura e nelle arti”. Il passaggio citato struttura la storia dell’arte in cinque fasi o “zone”, l’ultima delle quali viene descritta come “scientifica” e “post-estetica”, e appare destinata a produrre la “disintegrazione dell’arte” e “l’astrazione e la liberazione dell’idea”. (Schillinger 1948, 17) Poco più avanti, gli autori scrivono: “Quando le opere d’arte, come le parole, sono segni che trasmettono idee, non sono cose in sé ma simboli o rappresentanti di cose. Un’opera di questo tipo è un mezzo piuttosto che un fine in sé o ‘arte-come-arte’. Il mezzo non deve necessariamente essere il messaggio, e certa arte ultra-concettuale sembra dichiarare che i mezzi artistici convenzionali non sono più adeguati come mezzi per essere messaggi in sé”. (Lippard, Chandler 1968)
Il passaggio è interessante non tanto perché rivela la conoscenza di McLuhan, ma perché lascia trapelare l’avvenuto passaggio da una nozione di opera d’arte come unione indissolubile di materia e forma, a una visione in cui l’opera si riduce a mero vettore di informazione, veicolo di un’idea che può prescindere dalla (ed è indifferente alla) propria esistenza materiale.
È però soprattutto un altro geniale, e troppo spesso sottovalutato, teorico e curatore degli anni Sessanta a compiere il passo teorico decisivo. Pubblicato nel 1968,
Beyond Modern Sculpture: The Effects of Science and Technology on the Sculpture of This Century è un’opera ambiziosa che legge l’evoluzione della più materiale e oggettuale delle arti alla luce dell’evoluzione scientifica e tecnologica in corso. Convinto, con Friedrich Jünger, che “la tecnologia sia la metafisica del nostro secolo”, Jack Burnham, il suo autore, spiega nell’introduzione:
“Dagli anni Venti del Novecento, due generazioni di storici dell’arte sono state educate a evitare le manifestazioni grossolane dell’ambiente tecnico (
technical milieu) per indagare le intenzioni dell’artista moderno. E, in misura non trascurabile, molti artisti hanno scoraggiato tali confronti in quanto superficiali e non pertinenti. Gli strumenti della critica accademica – la stilistica, l’analisi iconografica, il contesto storico e l’analisi formale degli ultimi cinquant’anni – restano oggi più che mai accreditati. Tuttavia, essi spiegano con sempre minore chiarezza ciò che è accaduto dopo il 1800, e quasi nulla di ciò che è accaduto nella scultura negli ultimi sessant’anni”. (Burnham 1968, IX)
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Antoine Schmitt e Jean Degottex
Burnham oppone il Kunstmaterialismus di Gottfried Semper (1863), che interpreta l’arte come il risultato combinato di intenzione, materiale e tecnica e vede nell’arte il riflesso delle relazioni economiche, tecniche e sociali che plasmano ogni società, al Kunstwollen di Alois Riegl, che vede nell’arte l’espressione della volontà e dell’individualità dell’artista. Secondo Burnham, l’impostazione di Riegl ha dominato e continua a dominare il nostro approccio all’arte, pur impedendo in maniera crescente di comprenderne le evoluzioni. Di contro “scienza e tecnologia, le ancelle del materialismo, non solo ci dicono molto di quello che sappiamo del mondo, ma alterano costantemente la nostra relazione con noi stessi e il nostro ambiente”, un’alterazione che è sia qualitativa che quantitativa.
Tutta la seconda parte del libro è dedicata all’indagine della scultura come sistema invece che come oggetto: una riflessione che Burnham porta anche sulle colonne di
Artforum, che nel settembre dello stesso anno pubblica “Systems Esthetics”, un testo sull’impatto della cibernetica e della teoria dei sistemi sull’arte. Partendo dalla considerazione che “stiamo passando da una cultura orientata agli oggetti a una cultura orientata ai sistemi”, in cui “il cambiamento non proviene dalle cose, ma dal modo in cui le cose vengono fatte”, (Burnham 1968) Burnham codifica un’estetica dei sistemi che gli consente di leggere il lavoro di artisti come Donald Judd, Robert Morris, Carl Andre, Robert Smithson, Les Levine, Hans Haacke non come oggetti, installazioni, performance, ma come interventi che entrano in relazione con il loro “ambiente”, lo modificano e ne sono modificati. Nelle parole di Haacke citate nell’articolo: “Una ‘scultura’ che reagisce fisicamente all’ambiente non può più essere considerata un oggetto. La gamma di fattori esterni che la influenzano, così come il suo stesso raggio d’azione, vanno oltre lo spazio che occupa materialmente. Si fonde così con l’ambiente in una relazione che è meglio compresa come un ‘sistema’ di processi interdipendenti”.
All’epoca, Burnham non è solo in questo tentativo di leggere le trasformazioni dell’arte alla luce dell’evoluzione tecnologica in corso e delle posizioni filosofiche introdotte da cibernetica e teoria dell’informazione. Lo testimonia, tra l’altro, uno straordinario ciclo di mostre che inaugura tra 1968 e 1970.
(3) Inaugurata il 25 novembre 1968 al MoMA di New York, The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age è il monumentale omaggio tributato dal curatore K. G. Pontus Hultén all’era della “macchina meccanica, la grande creatrice e distruttrice”, nel momento chiave del suo declino. Spiega Hultén con lucidità nel saggio in catalogo: “La tecnologia oggi sta attraversando una fase di transizione critica [...] la macchina meccanica – che può essere definita più facilmente come un’imitazione dei nostri muscoli – sta perdendo la sua posizione dominante tra gli strumenti dell’umanità; mentre i dispositivi elettronici e chimici – che imitano i processi del cervello e del sistema nervoso – stanno diventando sempre più importanti”. (Hultén 1968, 3)
In mostra, il canto del cigno dell’era meccanica è prefigurato dal coinvolgimento di Experiments in Art & Technology (E.A.T.), l’organizzazione fondata nel 1967 da Julie Martin e dall’ingegnere dei Bell Telephone Labs Billy Klüver per facilitare la collaborazione tra artisti e ingegneri; e dall’esposizione dei resti di
Homage to New York, una installazione-performance realizzata da Jean Tinguely con il supporto di Klüver nel 1960 proprio nei giardini del MoMA, in cui una macchina fatta di scarti materiali dell’era industriale e controllata da un sistema cibernetico si autodistrugge.
La porta sul presente aperta da Hultén richiede un aggiornamento che non tarda ad arrivare nella forma di due mostre che ne sono, in modi molto diversi, come il seguito ideale:
Information, curata da Kynaston L. McShine sempre per il MoMA di New York; e
Software. Information Technology: Its New Meaning For Art, curata da Jack Burnham per il Jewish Museum di New York e la Smithsonian Institution. Le due mostre inaugurano a poca distanza, rispettivamente il 2 luglio e il 20 settembre 1970, e possono essere descritte, seppur riduttivamente, come due mostre sull’arte concettuale.
Information raccoglie, appunto, opere che si manifestano in forma di informazione, sottolineando l’inattualità delle pratiche tradizionali in un momento di crisi politiche, economiche e sociali, e le nuove opportunità – linguistiche e politiche – aperte da un ambiente mediale che consente la partecipazione a distanza (attraverso opere che possono essere trasmesse o inviate) e il raggiungimento di un pubblico molto più ampio di quello offerto dalla galleria. McShine è consapevole e orgoglioso di come questo gli abbia permesso di guardare al di là dei consueti centri dell’arte, e di coinvolgere una comunità veramente internazionale di artisti; nella bibliografia curata che chiude il catalogo (concepito in realtà come una versione in forma di libro della mostra) include Beyond
Modern Sculpture di Burnham, un’ampia selezione di libri di Buckminster R. Fuller e di Marshall McLuhan, saggi sulla società tecnologica, la teoria dei sistemi, la teoria dell’informazione, la teoria dei giochi e l’ecologia, nonché lo straordinario
Whole Earth Catalogue, la bibbia della controcultura californiana, fondato da Stewart Brand due anni prima. Nel suo saggio, riflette precocemente sull’accelerazione del confronto e della produzione indotta dai mezzi di comunicazione, e sulla equivalenza tra arte e informazione sull’arte; ma soprattutto, usa la cibernetica per spiegare l’avvento delle principali tendenze artistiche dell’epoca – dalla Land Art alla performance – e per sottolineare l’impatto del nuovo ecosistema mediale sull’arte:
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Regina Cassolo Bracchi e Scott Lyall
“Nella rivalutazione della loro situazione, alcuni artisti hanno cercato di estendersi nel loro ambiente e di lavorare con i suoi problemi ed eventi. Alcuni hanno preso coscienza del proprio corpo, in un modo che non ha nulla a che fare con l’idea convenzionale dell’autoritratto, ma piuttosto con l’interrogazione e l’osservazione delle sensazioni. Altri hanno abbracciato i fenomeni naturali in modi a volte romantici e a volte al limite della scientificità”. (McShine 1970, 39)
Software corona questo sguardo sul presente con una radicalità che supera anche l’approccio adottato dallo stesso Burnham nel suo libro, e che ne fa ancora oggi una “time capsule” che anticipa molte delle problematiche e degli sguardi sul mondo degli anni a venire. La mostra si proclama indifferente alla distinzione tra arte e non arte, e propone una selezione che affianca progetti artistici e concettuali (di artisti come John Baldessari, Hans Haacke, Douglas Huebler, David Antin, Allan Kaprow) a progetti tecnologici come
Labyrinth, un ipertesto interattivo sviluppato da Ned Woodman e Theodor H. Nelson, o Seek, un ambiente cibernetico per la vita animale concepito dall’Architecture Machine Group del M.I.T. sotto la guida di Nicholas Negroponte; “dimostra gli effetti delle tecniche contemporanee di controllo e comunicazione nelle mani degli artisti”, e “mette in campo gli strumenti attraverso i quali il pubblico può rispondere personalmente alle situazioni programmatiche disegnate dagli artisti”. (Burnham 1970, 10) Nel suo saggio introduttivo, Burnham prosegue delineando una situazione in cui l’avvento del software ha reso la società, e gli artisti, più sensibili ai processi che alla natura materiale delle forme in cui si manifestano; e in cui l’estetica come principale parametro di valutazione dell’arte è messa fuori gioco non solo dallo spostamento dell’attenzione dal risultato al processo, ma anche dalla sua sussunzione al processo di creazione delle tecnologie e delle merci (e delle tecnologie in quanto merci): “Software non fa nessuna delle solite distinzioni qualitative tra le sottoculture artistiche e quelle tecniche. In un’epoca in cui l’intuizione estetica deve diventare parte integrante del processo decisionale tecnologico, ha ancora senso questa divisione?” (14)
La straordinaria visionarietà del team che ha dato vita alla mostra si avverte anche nelle parole dell’artista Les Levine, che ne ha suggerito il nome, e che nel suo breve intervento in catalogo sintetizza meglio di ogni altro la nuova condizione materiale in cui si trova a vivere l’arte:
“In molti casi un oggetto ha molto meno valore del software che lo riguarda. L’oggetto è la fine di un sistema. Il software è un sistema aperto e continuo. L’esperienza di vedere qualcosa di persona non ha più valore in una società controllata dal software, perché tutto ciò che viene visto attraverso i media ha la stessa energia dell’esperienza diretta. Non ci chiediamo se le cose che accadono alla radio o alla televisione siano realmente accadute”. (61)
A una conclusione analoga arriva anche, poco più tardi, il critico e scrittore John Berger, partendo da una rilettura di Benjamin e da una riflessione sulla riproducibilità tecnica delle opere del passato. Scrive Berger nel suo seminale
Ways of Seeing (1972), in un passaggio che rivela la ricezione delle teorie di Shannon sull’informazione: “Nell’era della riproduzione pittorica il significato dei dipinti non è più aderente all’oggetto; il loro significato diventa trasmissibile; diventa cioè una sorta di informazione, e come tutta l’informazione, può essere utilizzato oppure ignorato; l’informazione non ha alcuna speciale autorità intrinseca”. (Berger 2009, 27) E ancora, poco più avanti: “I moderni mezzi di riproduzione hanno distrutto l’autorità dell’arte e l’hanno rimossa da qualsiasi territorio protetto... Per la prima volta nella storia, le immagini d’arte sono diventate effimere, ubique, inconsistenti, disponibili, senza valore, libere. Esse ci circondano nello stesso modo in cui ci circonda il linguaggio. (34)
JODI (Joan Heemskerk e Dirk Paesmans), SOD, 1999. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Salto nel vuoto
Per quanto solida e sostenuta con forza in una serie di mostre, pubblicazioni ed eventi, la posizione di Burnham, Berger e degli altri autori citati finirà, nei decenni successivi, per essere tacitamente ignorata, quando non attivamente osteggiata. I riferimenti al software e all’informazione si diraderanno nelle prese di posizione teoriche successive sull’arte concettuale, che entrerà nei manuali di storia dell’arte più come una forma di “linguistic turn” artistico, una reazione alla commercializzazione, un’arte come filosofia e pensiero sull’arte, piuttosto che come un riflesso inevitabile della rivoluzione tecno-sociale in corso.
Retrospettivamente, è possibile addebitare l’incapacità di riconoscere l’impatto delle tecnologie di comunicazione, e dei sistemi di pensiero che le nutrono, sull’arte all’effetto combinato di alcuni agenti di conservazione e resistenza nel nostro modo di concepire l’arte, e di un errore di fondo condiviso sia da chi propone questa lettura, sia da chi la recepisce e la osteggia. Gli agenti di conservazione sono facilmente riconoscibili nella difficoltà del sistema dell’arte, ma anche del pubblico (sia specializzato che generalista) a rinunciare alla centralità dell’oggetto-feticcio, o nel loro interesse a mantenerla; e nella persistenza sotterranea e silenziosa, già riconosciuta da Burnham, di una versione semplicistica dell’idea di Kunstwollen di Adolf Riegl, che riduce l’opera d’arte alla manifestazione di una determinata e consapevole intenzionalità artistica (che è poi ciò che la rende geniale, unica, preziosa), di una volontà individuale mai calata in una condizione sociale. È in questo modo che “un palinsesto di gesti, presentazioni e posizioni” come
Fountain diventa, da potenziale emblema di una nuova condizione dell’arte, un feticcio replicabile e venerato nella sua discutibile materialità nei musei di tutto il mondo.
L’errore, per certi versi implicato inevitabilmente dal dispositivo discorsivo adottato – sia esso un saggio o una mostra – consiste nel rilevare le conseguenze di una condizione universale nel solo territorio delle pratiche artistiche analizzate, anziché su tutta l’arte passata, presente e futura (almeno, fino a che la nostra visione della realtà sarà dominato dal “sistema di realtà” della Tecnica): di volta in volta, l’arte cinetica e la scultura cibernetica analizzate da Burnham in Beyond
Modern Sculpture, l’arte sistemica affrontata dallo stesso nel suo saggio su
Artforum, l’arte concettuale di
Software e Information, la tradizione pittorica occidentale discussa nel saggio di Berger.
Paolo Cirio, Global Direct, 2014. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Nello stesso errore si ricadrà sistematicamente ogni volta che qualcuno, nei decenni successivi, proverà a ribadire l’idea che i nuovi mezzi di comunicazione, e le loro ricadute politiche, sociali ed economiche, cambiano le condizioni di esistenza dell’arte: da
Les Immateriaux di Jean-François Lyotard a
Arte relazionale di Nicolas Bourriaud, da
Posthuman di Jeffrey Deitch alle varie teorizzazioni della condizione postmediale tra anni Ottanta e primi anni Duemila, fino alle riflessioni sull’esistenza dell’arte in un ambiente informazionale, considerazioni che riguardano l’arte in generale saranno depotenziate nella loro portata applicandole solo alle specifiche pratiche artistiche individuate per esemplificarne le ricadute – dal post-concettuale all’arte relazionale, dalla media art alla net art al post-internet.
Diciamolo, dunque, chiaramente e una volta per tutte. La questione dell’immateriale è cruciale per l’arte contemporanea e per ogni forma d’arte non come modo d’essere dell’arte in qualsivoglia sua manifestazione specifica, occasionale, temporanea o permanente che sia, ma come condizione d’esistenza dell’arte nel flusso delle informazioni e nei sistemi che caratterizzano la tarda era della Tecnica. La materia stessa diventa una questione da affrontare solo dal momento in cui si pongono le premesse per un suo, definitivo e non temporaneo, superamento; ovvero dal momento in cui il nostro sistema di realtà arriva a privilegiare l’essenza sull’esistenza, la posizione in una serie sull’individualità del soggetto o dell’oggetto.
In questo contesto, il superamento della materia non va inteso tanto come rinuncia alla materialità, come abbandono, negazione o rifiuto della natura oggettuale dell’opera d’arte; ma piuttosto come indifferenza all’oggetto, riduzione della materia a sostrato, conduttore di informazione, “fine del sistema” (Levine), serie di posizioni, nodo in una rete di relazioni e in un flusso di dati. Parallelamente, la “smaterializzazione dell’arte” – un processo di cui il concettuale non è stato l’iniziatore, ma piuttosto una manifestazione avanzata e matura – non va considerata come un
fenomeno temporaneo, sconfessato e superato dai successivi ritorni – alla pittura, alla materia, all’oggetto-feticcio – ma come una
condizione permanente che investe e travolge questi stessi oggetti. I quali non esistono più come “unique painted surface”, “significato aderente all’oggetto”, come diceva Berger, ma come copia tra le copie, oggetto che ha senso solo nel suo rapporto con un ambiente-sistema, il cui valore dipende dalle relazioni che attiva, dalle informazioni che incarna e che mette in circolazione, dalla sua capacità di restare nel flusso, attivando continuamente nuove posizioni. Così come, al tempo dei
big data, ciascuno di noi ha un suo “digital ghost”, o fantasma digitale, costituito dall’infinità di tracce che lasciamo nelle reti digitali in forma di dati di navigazione, preferenze, transazioni economiche, indicazioni di posizione, messaggi e commenti; così ogni opera d’arte ha, sin dalle origini dell’età dell’informazione, un proprio “informational ghost” che ammassa dati di autenticità e di provenienza, critiche, commenti, riproduzioni, appropriazioni, usi e abusi, che tiene traccia di spostamenti compiuti, relazioni attivate, informazioni generate.
Jeffrey Shaw, The Golden Calf, 1994. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Gli immateriali
“a livello tecnoscientifico, vediamo una sorta di rafforzamento, quasi un'esagerazione, dell'intimità tra la mente e le cose. Ad esempio, il software che si sta diffondendo su tutte le scale è mente incorporata nella materia; i prodotti sintetici, ad esempio i polimeri e tutti i derivati chimici, sono il risultato della conoscenza – sono istigati dalla mente”. (Lyotard 2015, 32)
Le considerazioni qui svolte sono il frutto della rilettura di una serie di eventi e testi degli anni Sessanta e Settanta. Come già in parte notato, gli sviluppi dei decenni successivi, sui vari fronti dell’evoluzione tecnologica, della pratica artistica, della teoria dei media e della riflessione sull’arte e sulla società, andranno per lo più in direzione ostinata e contraria. Nonostante la grande rivoluzione – tecnologica, sociale e culturale – dell’
home computing e della rete internet porti nelle nostre case la tecnologia con il suo corredo di hardware, cavi, periferiche, accessori, dispositivi di archiviazione, la percezione sociale della trasformazione in corso è quella di una softwarizzazione della società. La macchina universale di Turing è diventata un processore universale di media. La rimediazione (Bolter, Grusin 2002) dei linguaggi tradizionali – dal testo al suono, dall’immagine al video – li porta a convergere in un unico “metamedium” multimediale, che gli impone le proprie regole e le proprie modalità di funzionamento. (Manovich 2002, 2010) A tutti i livelli – dal
branding dei prodotti tecnologici alla pubblicità, dalla letteratura alla pubblicistica accademica – i termini, le metafore e le narrative che si impongono convergono su un unico punto: l’immaterialità del digitale. Il linguaggio dei nuovi media traduce gli artefatti fisici in rappresentazioni numeriche e li rende fluidi, variabili, modulari, convertibili, trasmissibili. La realtà diventa virtuale,
(4) il corpo virtuale, (Caronia 1996) l’arte virtuale. (Grau 2002) La rete diventa immaginabile come un ambiente in cui lo spazio è annullato e il tempo quantificato, in cui gli spostamenti sono istantanei e l’ubiquità possibile, in cui ci si muove facendo surf su flussi di dati e strade di luce, in cui l’identità può essere rimossa, simulata o costruita a piacere. Se l’impatto della Tecnica sulla realtà diventa tangibile, concreto e diffuso, si rafforza la tendenza a leggere la realtà secondo dicotomie binarie: vecchio e nuovo, reale e virtuale, spazio della realtà e spazio dell’informazione, visibile e invisibile. La frattura tra le due culture – intellettuali e scienziati – stigmatizzata da Charles Percy Snow nel 1959, (Snow 2005) che figure come Burnham avevano cercato di sanare, persiste, e la terza cultura che pur emerge in questo periodo – quella dei Media Studies, delle Media Art, della sociologia e della filosofia più attente ai temi del cyborg, del postumano, della simulazione, della liquefazione delle relazioni, dell’emergere del capitalismo cognitivo
(5) – viene marginalizzata e isolata come una cultura settoriale, di nicchia, incapace di incidere in maniera significativa sul dibattito culturale e sulla comprensione del reale. La tecnocultura resta segregata dalla cultura, e trova ancora rari e sporadici sbocchi nella cultura di massa. In ambito artistico, questa logica dicotomica si manifesta nell’isolamento delle Media Art, che nemmeno il successo e l’attenzione museale riservata, a cavallo dell’anno 2000, alla Net Art riesce a rompere.
Jeffrey Shaw, The Golden Calf, 1994. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Le poche posizioni dissonanti vengono ricondotte alla normalità individuando la loro area di applicazione non in una generica condizione contemporanea, ma in territori molto specifici dell’esperienza estetica. Ciò accade per la condizione postmoderna teorizzata dal filosofo francese Jean-François Lyotard e poi tradotta nella mostra
Les Immatériaux, presentata nel 1985 al Centre George Pompidou:
(6) il tentativo ambizioso di impostare una nuova metafisica post-antropocentrica, ridotto per decenni a un esperimento innovativo, ma piuttosto sterile, di
exhibition design esperienziale e a una celebrazione di pratiche artistiche di confine, poco amate dal mercato. Anche il critico e mercante americano Jeffrey Deitch, nel catalogo della mostra
Posthuman (1992) – dedicata alla reinvenzione del corpo e dell’identità resa possibile dagli sviluppi delle tecnoscienze – rivela un’acuta e lucida lettura di un presente trasformato dalla scienza e dalla tecnologia, e dispensa con generosità analisi socio-culturali di ampia portata:
“Tendenze scientifiche e sociali convergono nel dare forma a una nuova concezione del sé, un nuovo costrutto di ciò che significa essere un essere umano [...] La nostra coscienza del sé è destinata a cambiare profondamente mentre continuiamo ad abbracciare i progressi delle tecnologie biologiche e di comunicazione [...] L'informatica, con la sua realizzazione sempre più prossima della realtà virtuale, e la biotecnologia, con il sorprendente potenziale dell'ingegneria genetica, sono sul punto di creare un nuovo ambiente in cui la maggior parte delle nostre convinzioni su ciò che è realtà e persino su ciò che è vita dovranno essere riesaminate [...] I media elettronici hanno connesso il mondo in un nuovo tipo di struttura simultanea in tempo reale, accelerando il corso dell'interscambio sociale”. (Deitch 1992)
E il critico francese Nicolas Bourriaud, in saggi come
Estetica relazionale (1998) e
Postproduction (2002) rivela uno sguardo attento sui cambiamenti tecnologici e le loro ripercussioni sull’arte: nel primo, collegando esplicitamente l’avvento di pratiche relazionali allo sviluppo esponenziale delle tecnologie interattive e “conviviali”; (Bourriaud 2010, 68-70) nel secondo, discutendo “forme di conoscenza generate dall’apparizione della rete” e analizzando opere che non sono più “punto terminale del processo creativo”, ma “un sito di navigazione, un portale, un generatore di attività”. (Bourriaud 2004, 8) Eppure, nessuno dei due riuscirà a superare la dicotomia tra arte contemporanea e Media Art, e le loro analisi saranno recepite più come tentativi di circoscrivere una tendenza particolare che come letture trasversali del contemporaneo.
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Richard Estes, Duane Hanson, Lynn Hershman Leeson
Il Post-internet: l’immagine-oggetto e l’informational milieu
“Come molti hanno notato, le falsificazioni dell’‘era digitale’ sono state inculcate con tale successo che, nonostante le prove dirette del contrario, esiste un immaginario pervasivo dello stato smaterializzato della tecnologia digitale. Le realtà materiali e ambientali sono convenientemente velate dalla miniaturizzazione, dall'apparente intangibilità delle configurazioni wireless, dalla non localizzazione dei dati e da termini come ‘virtuale’ o ‘cloud’”. (Crary 2022, 27)
La dicotomia che abbiamo segnalato, del resto, è stata attivamente sostenuta dalle compagnie tecnologiche, e attentamente perseguita nelle denominazioni scelte per se stesse e i loro servizi, così come nelle metafore, nelle aree semantiche e nelle soluzioni cromatiche adottate per la loro comunicazione. Nomi come Alphabet o Second Life, prefissi come ‘virtual’ o ‘artificial’, colori come l’onnipresente blu elettrico, metafore come la ‘cloud’ perseguono una esplicita strategia di sottrazione dal visibile, di accentuazione della differenza e dell’alterità, di vaporizzazione e smaterializzazione che rende opaco l’apparato, la sua scala, la sua materialità, le sue ricadute sociali (come lo sfruttamento della forza lavoro) e ambientali.
Alla fine degli anni Zero, tuttavia, i tempi erano maturi perché l’attenzione si spostasse sull’impatto che la svolta digitale stava avendo sul mondo reale, e perché la dicotomia tra spazio dell’informazione e spazio fisico venisse percepita come un ostacolo a questa comprensione. La riscoperta della materialità del digitale è avvenuta gradualmente nel corso dell’ultimo decennio, e si è sviluppata di pari passo con una più diffusa comprensione del fatto che non viviamo in due mondi separati, ma in un unico ambiente che è diventato progressivamente informazionale: abitato in egual misura da oggetti fisici e flussi di dati, da individui e dai loro
doppelgänger digitali, in cui tutto ciò che è fisico viene tradotto in informazione, e in cui l’informazione plasma, riconfigura, attiva, mobilita, supervisiona, controlla e distrugge ininterrottamente ciò che è fisico.
L’ambito artistico ha avuto un ruolo cruciale in questo graduale cambio di percezione. In un’epoca in cui il reale è in gran parte condizionato da logiche, programmi, soggetti e strategie che operano sotto la sfera del visibile, e in cui vedere il mondo per quello che realmente è diventa imprescindibile per il suo cambiamento, o la sua salvezza, la possibilità di intervenire attivamente nell’ambito del visivo, o di decodificarlo correttamente, assume un’importanza senza precedenti.
È quindi allo spazio generazionale del post-internet, alle sue esternazioni artistiche e teoriche, che possiamo ricondurre il merito di questa (ri)scoperta. Nel corso degli anni Zero, un numero crescente di artisti comincia a rendersi conto che, per loro, non esiste distinzione gerarchica né differenza qualitativa tra fruizione diretta e fruizione mediata; tra manifestazione fisica e manifestazione digitale dell’arte; tra l’abitare gli spazi deputati all’arte e gli spazi fluidi dell’informazione. Le due dimensioni sono diverse ma non antitetiche; e, cosa ancor più importante, l’opera d’arte non si identifica con una specifica delle sue instanziazioni; non ha una forma definitiva, ma esiste nel flusso continuo tra spazio fisico e spazio digitale, tra diverse modalità di circolazione e diverse attitudini alla fruizione. Affermata già da Les Levine nel 1970, questa comprensione dell’esistenza dell’opera nel flusso viene riaffermata da Seth Price, e ribadita in diverse declinazioni negli anni successivi fino a consolidarsi nel concetto, proposto da Oliver Laric, di ‘versione’
(7) o in quello, introdotto da Artie Vierkant, di ‘image object’. (Vierkant 2010)
L’
image object è quell’aggregato complesso di oggetti materiali e dati digitali che descrive l’arte nell’era dell’informazione, o meglio ancora nell’
informational milieu, per usare un termine introdotto da Tiziana Terranova (Terranova 2006) e riscoperto da Ceci Moss (Moss 2019) per descrivere l’ambiente in cui l’informazione trasferisce le proprie qualità agli oggetti, e in cui le cose esistono in un fluttuare continuo tra lo stato di dati digitali e quello di materiali fisici.
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di John Gerrard, Ai Weiwei e Jon Rafman
Per quanto intuibile sin dagli anni Sessanta, l’
image object diventa concepibile in una società dell’informazione avanzata, o – seguendo il filosofo Luciano Floridi – in una infosfera, un “ambiente globale in ultima analisi fatto di informazione”, in cui anche gli esseri umani sono diventati “organismi informazionali interconnessi o inforg”, (Floridi 2010) che condividono l’infosfera con agenti biologici e artefatti progettati; e in un mondo in cui la cultura digitale è diventata una cultura di massa, (Cornell, Halter 2015) sistemi di produzione sempre più evoluti hanno reso naturale la transizione dal digitale al materiale, e in cui l’ambiente fisico è andato popolandosi dei segnali visibili della sfera dell’informazione, della sua cultura e delle sue estetiche.
(8)
Un effetto collaterale e imprevisto di questo emergere del digitale nello spazio del quotidiano sarà la crescente necessità di portare nell’orizzonte della visibilità ciò che, del digitale, volutamente resta nascosto, ciò che si cela nell’ombra, si maschera col camouflage, fa capolino dietro metafore vaporose, si inabissa sotto gli oceani o si proietta al di là dell’atmosfera terrestre: le infrastrutture, le filiere industriali, il panopticon della sorveglianza globale, e gli algoritmi che li governano. Il secondo decennio del XXI secolo può essere descritto come un enorme sforzo collettivo di costruzione di un nuovo regime di visibilità e di presa di coscienza della materialità del digitale: le infrastrutture che rendono possibile la comunicazione globale – dai cavi di fibre ottiche sottomarini alle server farm dislocate in luoghi poco frequentati, dai satelliti in orbita attorno alla terra alle antenne camuffate da alberi – vengono documentate e descritte nella loro ricerca di invisibilità e nel loro ripercorrere vecchie mappe del potere, come le rotte della conquista coloniale; alla metafora della nuvola /
cloud viene opposta la catasta /
stack, (Bratton 2016) più efficace per descrivere la stratificazione di infrastrutture che insieme connette e imprigiona il singolo utente in una macchina computazionale che agisce su scala mondiale; l’apparato di sorveglianza globale viene portato in piena luce attraverso massicci leak di informazioni, i droni che volano sulle nostre teste invisibili agli occhi e impercettibili ai radar attraverso la documentazione dei loro attacchi e il giornalismo investigativo; dell’intelligenza artificiale viene indagata la filiera produttiva, tracciandone le connessioni con l’industria estrattiva e il commercio internazionale di metalli rari; il mito dell’automazione viene decostruito dando evidenza alla massa invisibile di “human in the loop”, lavoratori asserviti ad algoritmi che ne gestiscono il flusso di lavoro affidandogli micro-mansioni percepite dagli utenti come automatizzate; delle blockchain e delle loro intangibili valute digitali viene raccontato l’incredibile impatto ambientale, in termini di consumo energetico e di emissioni di anidride carbonica.
Su questo processo verso una maggiore consapevolezza della materialità del digitale, l’impatto della pandemia di Covid-19 ha avuto un effetto contraddittorio. Da un lato, la digitalizzazione forzata a cui sono andate incontro fasce di popolazione che erano riuscite, fino a questo momento, a restare ai margini dell’infosfera, in un momento di altrettanto forzato isolamento dal mondo esterno, ha indotto questa massa diversificata di tardivi digitali a leggere la realtà attraverso le vecchie dicotomie. Su un altro fronte, tuttavia, la pandemia ha mostrato a tutti la realtà di una videocall, le conseguenze sulla vita quotidiana della mancanza di un certificato digitale di vaccinazione o di guarigione, l’infrastruttura umana che si attiva con una prenotazione online, o con un ordine su Amazon e Deliveroo; ha mostrato come spazio di vita e di lavoro possano arrivare a coincidere, e come la connettività possa permetterci in casi estremi di vivere in isolamento senza perdere contatti col mondo, ma anche quanto la nostra vita sia ormai legata a doppio filo alla possibilità di connetterci ai flussi di informazioni, denaro e merci in cui siamo immersi.
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di René Magritte e Katja Novitskova
Conclusione
“Se ci sarà un futuro vivibile e condiviso sul nostro pianeta, sarà un futuro offline […] Se siamo fortunati, un’era digitale di breve durata sarà stata superata da una cultura materiale ibrida basata su modi vecchi e nuovi di vivere e sussistere in modo cooperativo”. (Crary 2022, 1)
Il presente testo rivisita il contributo in catalogo scritto per
Salto nel vuoto. Arte al di là della materia, una mostra
(9) che racconta come l’arte del XX e di questo principio di XXI secolo abbia tematizzato le nozioni di vuoto, flusso e simulazione o come le abbia esplorate come dimensione della propria esistenza. Il testo lascia le opere sullo sfondo per cimentarsi in un tentativo di spiegare come scienza e tecnologia abbiano plasmato il nostro modo di concepire la materia e l’immateriale, e abbiano configurato la condizione contemporanea, di cui queste opere sono, in diversi modi e momenti della storia, espressione. La parola chiave, usata da vari autori nei vari momenti che abbiamo cercato di ripercorrere, è “condizione”: un termine che fa riferimento a una situazione generalizzata, a uno stato condiviso, che riguarda tutto e tutti a prescindere dalla natura materiale degli oggetti, così come dal livello di accesso e di familiarità con le tecnologie digitali. Le opere in mostra possono aiutarci a comprendere questa condizione, ma non sono le uniche ad abitarla.
Non sarà sfuggito al lettore più attento che l’analisi di Campagna, da cui abbiamo mutuato la base filosofica di questa condizione, la illustri come giunta alla sua fase terminale, e ne auspichi un superamento. Condivido questa posizione critica. Se
Salto nel vuoto mette in evidenza il ruolo che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha avuto nel ridefinire il nostro rapporto col mondo, in nessun modo la mostra sposa la retorica dell’innovazione che ha accompagnato, e continua ad accompagnare, questo sviluppo. La Tecnica ci ha condotto sull’orlo di un baratro. Il vuoto è anche l’oscurità che vediamo al di là dell’argine, in cui prima o poi dovremo saltare. Le nuove tecnologie ci aiuteranno a costruire un mondo più sostenibile, istruito ed evoluto, o condurranno alla distruzione definitiva del mondo come lo conosciamo? Autori come Jonathan Crary non hanno dubbi. Personalmente, sul vuoto che abbiamo davanti non sono in grado di gettare alcuna luce. Lo sforzo di
Salto nel vuoto è quello, meno ambizioso, di farci vedere e comprendere meglio l’argine su cui appoggiamo i piedi.
Costant Dullaart, Jennifer in Paradise, 2014-2015. In Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (GAMeC, 2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco
Note
*Questo testo è una versione, rivisitata dall’autore per Artext, del saggio scritto per il catalogo della mostra
Salto nel vuoto. Arte al di là della materia, curata da Lorenzo Giusti e Domenico Quaranta per la GAMeC di Bergamo (3 febbraio – 28 maggio 2023). Il testo è reso disponibile per gentile concessione dell’editore; il volume cartaceo, pubblicato da Officina Libraria, è disponibile a questo link.
Il testo è illustrato da una selezione di installation view della mostra. Per tutte le immagini: Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC, Bergamo.
(1) Laddove citati dall’edizione originale inglese, i testi sono in nostra traduzione.
(2) Come scrive Eugeni (2021, 193), “la nuova economia dell’informazione si rende indipendente dai suoi sostrati e vettori materiali ed energetici”.
(3) Lascio volutamente ai margini di questa trattazione la pur straordinaria
Cybernetic Serendipity: The Computer and the Arts, curata da Jasia Reichardt per l’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, che si concentra sul computer come medium, per portare l’attenzione su eventi che riflettono sull’impatto dell’informazione e del software su tutte le arti, in maniera più trasversale e, ai fini di questa analisi, più interessante. Cf. Reichardt 1968.
(4) Il termine
virtual reality viene popolarizzato negli anni Ottanta da Jaron Lanier, che fonda nel 1985 la VPL Research, la prima compagnia a sviluppare device commerciali per la realtà virtuale. La ricerca sugli ambienti immersivi viene avviata negli anni sessanta e settanta da Ivan Sutherland, che crea nel 1968 il primo
head-mounted display, e da Myron Krueger, che preferisce il termine
artificial reality.
(5) Qui la bibliografia sarebbe immensa ed è, comunque, facilmente reperibile. Segnalo in particolare, oltre ai testi già citati, gli scritti di Donna Haraway, N. Katherine Hayles, Jean Baudrillard, Slavoj Žižek, Zigmunt Bauman, Rosi Braidotti, Tiziana Terranova, Franco Berardi Bifo, Derrick De Kerckhove.
(6) Per uno studio aggiornato della mostra, cf. Gallo 2008.
(7)
Versions (2009-2012) è un
video essay realizzato in tre successive versioni, o meglio ancora, nelle parole dell’artista, un progetto
in progress che si è manifestato in innumerevoli forme materiali, tra cui “una serie di sculture, immagini aerografate di missili, un discorso, un PDF, una canzone, un romanzo, una ricetta, un'opera teatrale, un balletto, un lungometraggio e del merchandising”. Cf. Quaranta 2011
(8) Cf. il concetto di New Aesthetics proposto nel 2011 dall’artista e scrittore James Bridle, nel blog di ricerca https://new-aesthetic.tumblr.com/ e con la lecture “Waving at the Machines”, tenuta al Web Directions South 2011 e reperibile all’indirizzo https://webdirections.org/resources/james-bridle-waving-at-the-machines/.
(9) Curata da Lorenzo Giusti e Domenico Quaranta per GAMeC, Bergamo,
Salto nel vuoto. Arte al di là della materia si è svolta dal 3 febbraio al 28 maggio 2023. Per il catalogo, cf. Giusti, Quaranta 2023.
GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Rachel Rossin e Manuel Rossner
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GAMeC, Salto nel vuoto. Arte al di là della materia (2023). Installation View ph. Antonio Maniscalco. Opere di Rachel Rossin
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