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Museo Novecento
Emanuele Becheri
Sculture e disegni

 
Emanuele BecheriEmanuele Becheri, View at Studio. Foto di Paolo Meoni



*Modellare / modulare:
l’apertura di una forma

Definiamo opera ciò che non si esaurisce nell’operato ma rimane aperto in esso: è questa consapevolezza ad illuminare l’andamento rizomatico della ricerca di Emanuele Becheri, che parte da una visione espansa del concetto di disegno per poi ampliare il raggio delle proprie sperimentazioni fino a coinvolgere numerosi media, sperimentando tecniche grafiche auto-generative e performance sonore.

Con le Carte piegate realizzate nella più completa oscurità (i cosiddetti “disegni ciechi”), Becheri indirizza l’opera verso il confine del suo désoeuvrement. La messa tra parentesi dell’autorialità, in essi implicita, conduce l’artista verso i Rilasci. In questo nuovo ciclo l’utilizzo di carte traslucide, maggiormente capaci di incorporare le stimmate della piegatura, spinge Becheri ad accartocciare le proprie opere, segnandole in maniera indelebile. La piega finisce così per acquisire una evidente autonomia espressiva, svelando à rebours la progressiva centralità del ‘supporto’ nella genesi dei lavori. Quest’ultimo – fondamento occulto su cui si è costituita la storia della pittura in Occidente – diviene pertanto una “materia prima” da articolare e forsennare più che da nascondere. È questo il primo impercettibile passo verso la scultura. Nei Rilasci infatti, pur nel distacco da ogni istanza di soggettività autoriale, emerge la manipolazione diretta dell’artista.

Le recenti opere scultoree più che da una modellazione scaturiscono da una modulazione continua della materia: “dromopatie che si inceppano in figure”, le definisce Becheri; opere che esibiscono la singolarità di una forma, capace di preservare un valore dinamico, energetico e incoativo che rimanda costantemente all’idea di apertura.

“Che una forma accada”: è questa, secondo Nancy, la formula del disegno. Ed è un’identica formula a sostenere la scultura di Becheri; una formula che implica, “insieme al desiderio e all’attesa di una forma, una maniera di rimettersi ad una venuta, a un sopraggiungere, a una sorpresa che nessuna formalità anteriore avrà potuto né precedere né, tanto meno, preformare”.

Saretto Cincinelli
Firenze, Gennaio 2020

Emanuele BecheriEmanuele Becheri, View at Studio. Foto di Paolo Meoni


Cap. I (la fornace)

Non era la prima volta che andavo a trovare Emanuele al vecchio studio. Una volta mi aveva mostrato dei disegni neri a china che mi fecero pensare a Mino Maccari. Un’altra volta suonò un pezzo alla tastiera mentre io sfogliavo cartelle e taccuini pieni di disegni modellati a cera.
Forse però era la prima volta che vi ritornavo da quando aveva iniziato a lavorare con la terracotta e sicuramente la prima in cui presi coscienza della strana luce polverosa che regnava in quell’ambiente. Complici forse dei vecchi neon, tutto mi parve offuscato.
Ricordo che osservai attentamente le pareti, probabilmente un tempo bianche, che adesso, invece, sfumavano in un livido annerimento man mano che alzavo lo sguardo avvicinandomi all’alto soffitto a volta ribassata, tipico dei vecchi capannoni industriali pratesi. L’intonaco mostrava aree annerite in prossimità di ogni irregolarità; una sorta di frottage affumicato presente nelle vecchie fonderie o in quegli ambienti riscaldati da un camino che però, ridiscendendo con lo sguardo, non scorsi da nessuna parte.
Quella volta, come ho già detto, mi mostrò la sua recente produzione fittile e, se non ricordo male, vidi pescatori che recuperano le reti, corone di alloro, una vergine addormentata tra animali feroci, valanghe e grotte, maschere, profeti curvi sulle loro pietre, cipressi, crocifissioni, cornucopie con frutta e selvaggina, scheletri e prostitute, una deposizione, ritratti di poeti francesi, frammenti di capitelli corinzi, pastori con il loro gregge, dannati al rogo o beati in un’orgia, autoritratti nell’atto di realizzare il proprio autoritratto vestito da Antonin Artaud; forse montagne in miniatura, sicuramente tautologiche zolle di terra.
Forse non vidi nulla di tutto questo ma qua e là, qualche ricciolo caduto dalla parrucca di Francesco I d’Este del Bernini, lo ricordo chiaramente.
Ognuno di questi presunti soggetti era modellato d’istinto a gesti sicuri ma delicati: veloci, come se la terra bruciasse ancor prima di esser passata in forno per la cottura. Passammo con Emanuele un bel pomeriggio.

Cap. II (déjà vu)

Dopo circa un anno da quella volta, cioè pochi giorni fa, durante il viaggio per raggiungere Emanuele al nuovo studio in cui si era da poco trasferito, ho ripensato a quelle pareti marchiate e a quell’atmosfera sinistra ma affascinante che creavano. Mi aveva raccontato dei vari lavori fatti per sistemare il nuovo spazio che mi stavo accingendo a visitare e per un attimo, guidando, mi sono rammaricato per l’inevitabile perdita di quell’atmosfera che mi aveva così colpito. Stranamente però, entrando nel nuovo studio ho provato la stessa sensazione dell’anno precedente e mi sono sentito sollevato che tutto fosse identicamente affumicato.
In realtà però qualcosa mi è apparso cambiato. Il modellato delle nuove opere, seppur ancora più veloce di prima, sembra adesso assai più sicuro. Riconosco alcuni gesti ricorrenti tra un’opera e l’altra. Ora quei riccioli Estensi sembrano cercati e non più caduti per sbaglio durante una toeletta. Scorgo accenni di un virtuosismo personalissimo. Qualcosa che sembra rimanere in equilibrio tra il casuale e il ragionato o meglio, tra il creato ottusamente dalla natura ed una volontà narrativa umana. Qualcosa di antichissimo (quindi nuovo) che sembra voglia esplicare il segreto di un’evoluzione progressiva che vede mutare la materia in materiale, il materiale in oggetto, l’oggetto in scultura, la scultura in opera e quando riesce, se riesce, l’opera in Arte (oppure in cenere). Passeggiando tra gli scaffali e i tavoli da lavoro penso che Emanuele non abbia più paura di scottarsi in un’impresa difficilissima. Sta cercando un proprio segno scultoreo.

Cap. III (l’antimateria)

La cosa mi è familiare. Non si tratta di diventar riconoscibili per i soggetti o per i temi trattati, per il materiale utilizzato o per la modalità esecutiva... nemmeno per la tecnica, ma per qualcosa di più profondo e difficile; anche solo da far capire. Forse per la sensibilità che trapela da ogni dettaglio del manufatto, per il movimento impresso sulla materia; mi verrebbe da dire per la ‘ditata’, in analogia alla più classica e comprensibile ‘pennellata’ pittorica.
Parlando di pittura, questa cosa, seppur non facile, è assai meno difficile. Sicuramente più semplice da capire per tutti. La pittura, essendo sempre e solo rappresentazione immateriale, senza limiti di movimento e di gesto all’interno di quello spazio prestabilito dettato dal perimetro del telaio che rappresenta però anche lo spazio possibile in cui operare ed infilarvi dentro tutto l’universo possibile al pittore, permette più agilmente di speculare sul modo di farlo. Non confondete però la pittura con la tela... quello è solo il supporto; il materiale della scultura è invece parte della scultura stessa. La pittura non ha vincoli fisici. Ha vincoli tecnici come tutte le arti, ma pochi vincoli tecnologici. Se la mano è abile, il pennello compierà tutte le evoluzioni che la mente può immaginare. In scultura non è proprio così. La pittura allarga lo spazio creando effimeri mondi paralleli. La scultura è invece reale e presente in questo mondo, occupandolo e riducendo lo spazio a nostra disposizione. La scultura proietta ombre. Ha un peso. Non può fregarsene delle leggi fisiche. Può cadere, si può rompere e anche uccidere se vi cade addosso. In genere quindi, i limiti della ‘ditata’ sono stabiliti dai limiti della materia stessa prima che dall’abilità dell’esecutore ma, tornando a quello che ho detto nel capitolo precedente, in alcuni casi, l’artista può rischiare di sovvertire questa apparentemente incontrovertibile regola stravolgendo la materia - strappandola alla natura e agli altri artisti - facendola sembrare sua, sempre sua e solo sua ogni volta che ne accarezzi una porzione ancora grezza. Il rumore di una birra stappata da Emanuele mi riporta nello studio. Siedo accanto a lui a parlare del più e del meno: degli altri artisti, dei curatori, delle gallerie, dei prezzi, delle fiere, degli affitti, delle mostre fatte, di quelle da fare e di quelle che non faremo mai. In un sorso quegli argomenti sono esauriti. Le pareti annerite invece sono sempre là intorno, insieme alle mie domande.

Cap. IV (scultura in forma di fiamma)

Per me scolpire è qualcosa di fluido, quasi fluviale anzi, marino. È il tentativo di modellare argini alle mie tempeste interiori o di intagliare un guscio con cui navigarci sopra. Dare una forma e un volto a questi abissi mi aiuta a intravederli così da riconoscerli e averne forse meno paura. Ma a parte questo mio personale sentire acquatico, reclinando la testa indietro per finire il terzo bicchiere di birra, penso che non dev’essere per tutti così. La scultura ha in realtà forse più a che fare con il fuoco. Le fiamme, come le sculture, non hanno né un davanti né un dietro: sono a tuttotondo. Guardo ancora l’esercito di terracotta di Emanuele intorno a me e in un lampo capisco di essermi sbagliato in ogni interpretazione che fin’ora avevo avanzato; forse niente di ciò che ho visto o pensato è reale. Adesso sono circondato da colate laviche, da comete infuocate, falò, crogiuoli incandescenti, fuochi fatui, fiammiferi accesi, interi incendi, tizzoni e sopratutto da tantissime lingue di fuoco che danzano. Come nel frenetico agitarsi di quei grandi fuochi che i contadini appiccano nei campi all’imbrunire per bruciare le stoppie, è possibile, assecondando le nostre fantasie o i nostri tormenti, vedervi dentro infiniti soggetti effimeri e mutevoli in un batter di palpebra o in un sorso di birra in più.
Queste sculture emanano una sorta di luce che non scalda e forse neppure illumina ma adesso ne sono certo, possono annerire le pareti e le volte degli ambienti che le ospitano.

Francesco Carone
Terme di Petriolo, Dicembre 2019

Emanuele BecheriEmanuele Becheri, View at Studio. Foto di Paolo Meoni


Ti do del tu

A un certo punto ti urge decidere se continuare a fare esperimenti sulla scultura o fare la scultura. Hai percorso tutti i possibili sentieri periferici, le viste laterali, marginali, le perifrasi, le citazioni, le assenze. Poi tutta questa idolatria si è sciolta, è crollata ed è stato necessario prendere la forma per formare, formare con la forma, senza intermediari. Ecco che tutto quel non-senso si è fatto inutile e si dispiega la vera nudità di senso, ciò che è precedente a ogni senso, perché cerca il senso in sé. (Come se tu avessi scavato sino a sbattere contro una sorta di basamento, una roccia originaria, quella su cui tutti i detriti si erano accumulati. Ma quel basamento, in fondo era il tuo infinito disegnare che ti ha sempre accompagnato, che credevi una delle parole e non il linguaggio in sé, che ora ti costituisce).

Carlo Guaita
Firenze, Dicembre 2019

Emanuele BecheriEmanuele Becheri, View at Studio. Foto di Paolo Meoni


La caverna di Becheri

Alla stazione di Prato c’è Emanuele che mi aspetta. Proseguiamo con la sua auto fino a Vaiano, da dove, caracollando per certe strade secondarie, arriviamo in una piccola zona industriale/manifatturiera. Parcheggiamo tra quei capannoni, ora silenziosi, che in altri tempi hanno servito la rumorosa causa del progresso. Non c’è in giro anima viva. Cemento, asfalto e vetro retinato - ma tra i muri tira aria di campagna. Se è per questo, potremmo anche essere nei bassifondi di una megalopoli asiatica. Sono di ottimo umore. Ogni artista si incatena a suo modo al proprio studio, anche quando non ce l’ha; è un privilegio poter sbirciare in questa zona grigia. Scendiamo dall’auto. Chiedo a Emanuele di fermarsi sotto il cartello per fargli una foto con lo smartphone: Via della tela.

Apre il pesante portone di ferro, entriamo. A questo punto mi permetto d’indugiare su quella nota sensazione di sfavillante oscurità in cui, passando da maggior a minor luce, non solo gli occhi hanno da ricalibrarsi ma pure l’intelletto, che un po’ spaurito cerca a tentoni di concettualizzare il nuovo spazio... La stanza è messa semplice: di qua, a fianco dell’entrata, sta una vetrata (mezza satinata e mezza sprayata, cosicché tra interno ed esterno circoli luce ma non sguardi). A destra e a sinistra corrono le pareti, piuttosto nude che bianche. Il quarto lato, sul fondo, è occupato quasi per intero da un grande scaffale a scomparti, zeppo di cose simili tra loro, grigiastre e informi (che siano sculture lo si intende solo dopo un po’). Pochi oggetti occupano il centro della stanza. “Quelli appesi sono disegni a carboncino”. Il mio ricordo dello studio è tutto in bianco e nero.

Beh, c’è la famosa storia di quei poveracci costretti al fondo di una caverna, fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena (1). È solo un innocuo (!) esercizio di fantasia quello che propone Socrate a Glaucone: quelle cavie immaginarie serviranno d’analogia, poco più oltre, a fini epistemologici. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. E arriviamo al punto: come quegli uomini, per lunga abitudine, scambiano le ombre per tutta la realtà, così anche noi, non meno tapinamente, prendiamo per esaurito quel pochetto di mondo che i nostri sensi riescono a percepire. Tirando acqua al suo mulino, Socrate (Platone) ci ricorda che il vero filosofo, fattosi gli occhi ai barbagli di un più alto e numinoso ordine di realtà, non potrà che faticare, sul principio, nel ricalare tra le tenebre che avvolgono il volgo sgrufolante e ignaro; e anzi, si guardi questo dal corbellare quel buon saggio quando sbatte le palpebre e pare smorfioso, poiché sta solo riadattandosi ad essere compagno a loro, in grado di vedere nuovamente quelle beate illusioni!

L’immagine metaforica della pupilla che si dilata e che si contrae è molto elegante. Ma c’è una cosa. Fin dai tempi del liceo, non sono mai riuscito a figurarmi bene questa scena a causa di un elemento, il sole, che il regista ha voluto comunque infilarci dentro. Lo schema fuocherello/ oggetti-sul-muro/ombre-proiettate-sulla-parete sembrerebbe chiaro: perché aggiungere a tutti i costi che la caverna ha l’ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell’antro - che c’azzecca con lo schema? Sarà questione di traduzione (non conosco il greco antico), saranno simbolismi esoterici che mi sfuggono, non so. Sia come sia, la faccenda delle due luci che confondono ogni geometrismo proiettivo è diventata per me una bizzarra peculiarità di quel racconto, che ne mina la stringente (e un po’ fastidiosa) linea argomentativa rendendolo ancora più attraente, più kafkiano. Volendolo stampare come libello, per le illustrazioni chiamerei Alfred Kubin. Ma torniamo allo studio di Becheri. Per un paio d’ore si svolge un semplice rituale: Emanuele estrae, una alla volta, alcune sculture dal grande scaffale e le appoggia su un semplice basamento al centro dello studio. Flemmatico nei gesti, non dà spiegazioni, lasciando il testimone di terracotta a disposizione del giudice (cioè io - ma il momento ha della gravità e c’è poco da schernirsi sui ruoli). Le sculture, ristanno, un po’ severe, bianche grigie e nere. Comincia il gioco dell’eros: guardandole, le loro forme appaiono e scompaiono, basta un piccolo scarto e tutto cambia. Sono belle, umbratili, dignitose e sensuali. Osservare questa teoria di pezzi, ognuno immerso in un suo ambiente saturo d’aria e d’aura: un approccio dannatamente tradizionale che mi fa morir di gioia. Ogni tanto rompo il silenzio per mettere a parte Emanuele di qualche mio pensiero. Penso al barocco, gli dico. Poi penso piuttosto a qualcosa di antico filtrato dal rinascimento - ma conta qualcosa? Penso a Medardo Rosso, forse più per la fuligine…

Se proprio lo volete sapere, sono passati solo pochi mesi, ma di quella visita non ricordo niente di veramente preciso. Può esistere un ricordo che sia vago e forte al contempo? Sì. Guardate il fuoco.

1 Platone, La Repubblica, libro VII.

Luca Bertolo
Seravezza, Dicembre 2019

Emanuele BecheriEmanuele Becheri, View at Studio. Foto di Paolo Meoni


Emanuele Becheri
Manipolatore di nuvole

Quando Emanuele entra in studio di solito si mette a suonare. La sua stanza della musica si trova nel fondo dello studio; è senza finestre, contiene un pianoforte, e occasionalmente altri strumenti. Per Emanuele suonare è come un rituale di iniziazione; l’azione e il pensiero sono un flusso che sgorga e che si autogenera, armonie fatte di alti, di bassi, di accelerazioni, di rallentamenti, di pause. Prima in suoni, poi in segni, forme e superfici.

Si abbandona all’ignoto; il senso di agire scaturisce spontaneamente, dalla propria memoria; attinge ad una fonte che sta al di là della sua conoscenza e del suo controllo; cerca di dimenticare la propria mente, senza temere di cadere nel vuoto.

non puoi ottenerlo pensandoci non puoi ottenerlo non pensandoci (poesia zen del XV secolo)

Semplicemente ha la consapevolezza che quello che si verificherà qui e ora avviene senza uno scopo definito nella mente. Mentre opera non è pienamente cosciente di cosa sta facendo: è solo dopo che vedrà cosa lo ha attraversato, a cosa si è dedicato. Non vuole imporre la sua rigida intenzione alle forme, ma si preoccupa piuttosto di seguire delle forme che non può costruire ma può riconoscere.

Emanuele ci induce in un coinvolgimento attivo nell’interpretazione della forma.
Tutti noi abbiamo la tendenza ad interpretare uno stimolo vago come qualcosa di già noto. È quel meccanismo che sin da bambini ci faceva scoprire una strega in una macchia di umidità nel muro o il casco di un robot in un lampadario di cristallo. Questo fenomeno, chiamato pareidolia, coinvolge dei meccanismi che sono alla base delle nostre capacità di apprendimento e di relazione. La tendenza di vedere volti, di schematizzare delle immagini confuse nasce dalla necessità di analizzare lo spazio intorno a noi e di identificare rapidamente la presenza di altri soggetti, di animali o di oggetti, frangenti potenzialmente utili o pericolosi.

I gesti sulla terra sono gesti di liberazione; l’energia della mano sonda la resistenza meccanica della creta allo strappo; la terra è esplosa, colata, battuta, tirata, stirata, impastata, seccata, bruciata.

Forma e superficie sono tutt’uno, nascono assieme; la forma non è progettata, non riproduce un oggetto o un soggetto, il soggetto a volte appare.

Emanuele fotografa la scultura, in particolare la sua, e propone attraverso le immagini il suo punto di vista sull’opera; la sua fotografia è luce che rivela forme e superfici. Le sue fotografie ci propongono lo sguardo privilegiato dell’artista, del primo testimone dell’apparire dell’opera. La prima meraviglia è la sua, e si perpetua nell’immagine che documenta.

Disegno, scultura, di nuovo disegno e di nuovo scultura, quindi fotografia.

Bernini, Rodin, Giacometti sono i più amati, per l’impianto scenografico e per l’accoglienza che la luce fa alle forme che emergono dall’ombra, per la sensualità, per i volumi in movimento che si aprono oltre lo spazio di appartenenza; sono parte importante della sua memoria; li ha assorbiti con desiderio e li riconosce quando fugacemente gli appaiono in piccole epifanie.

L’opera si rivela misteriosa, proibita, una cosa che non deve più essere toccata, usata, una creatura che con un tremito emerge dalla propria nullità.

Un paesaggio che ti induce ad addentrarti negli antri e nei pertugi per compiere l’esperienza della maestosità che tuttavia non ti domina ma ti induce a piegarti ad essa.

All’interno del magnifico ciclo di affreschi che Giotto ha dipinto nella Basilica Superiore di Assisi, più precisamente nel ventesimo episodio del ciclo pittorico delle Storie di San Francesco, un demone si affaccia malignamente tra le nuvole. Allo stesso modo, ma ancor più misteriose, emergono delle figure dalle masse di Emanuele.

Nel Medioevo si credeva che nel cielo abitassero dei demoni che ostacolavano l’ascesa delle anime…

Davide Rivalta
Bologna, Dicembre 2019

*Il testo che qui appare è parte integrante del Folio stampato per l'occasione della mostra di Emanuele Becheri, Campo Aperto – Emanuele Becheri. Sculture e disegni, 24 gennaio - 30 aprile 2020 - edito dal Museo Novecento di Firenze.

 

Emanuele Becheri. Sculture e disegni
A cura di Saretto Cincinelli e Sergio Risaliti
Museo Novecento Firenze 24 gennaio - 30 aprile 2020
Site Museo Novecento
@ 2020 Artext

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