Giacomo Zaganelli
Arte del vivente
In una conversazione con Artext -un’occasione per approfondire e investigare il potenziale offerto, oggi, dalla figura dell’artista che opera nei confronti delle comunità e di un’idea di utilità sociale del suo operato.
Artext - Da dove prende inizio la tua adesione ad una estetica differente, ad un modo di relazionare Arte, comportamenti e rappresentazioni della vita quaotidiana?
Giacomo Zaganelli - Più che di un’adesione, si tratta di un agire spontaneo fuori dalle convenzioni riconosciute ed etichettate come tali, ciò che mi stimola è l’interesse nei confronti della vita.
Come autore opero attraverso le modalità spregiudicate dell'arte - l'arte come mezzo e opportunità – e una progettualità indirizzata ai problemi collettivi, i progetti nascono nella pancia e si materializzano nella testa. Non c’è imposizione o prevaricazione, ma piuttosto un tentativo di adattamento e di coinvolgimento con l’intento di creare situazioni rivolte a tutti e capaci di spostare il punto di vista sul quotidiano. Tutti i lavori – che si tratti di interventi nello spazio pubblico, di progetti di ricerca, di collane di libri o di mostre presso istituzioni – condividono tra loro aspetti cruciali del mio sentire: la collettività, la convivialità e la condivisione.
AT - Quali gli strumenti di analisi. Quali impulsi a trasformare spazi del vissuto?
GZ - Ogni progetto è un’occasione di scoperta e di conoscenza. Diventa un’opportunità per viaggiare, dove all’idea di viaggio mi riferisco a quella profonda opportunità di apprendimento che è ben spiegata dalla derivazione del termine Erfahrung 'esperienza' dalla parola del tedesco antico Irfaran che significava 'viaggiare'. Colui che viaggiava era colui che conosceva, che entrava in contatto con mondi e culture diverse e per questa ragione si apriva la mente, mettendo alla prova il proprio carattere e divenendo così esperto (Bewandert). Di fondo quello che a me interessa è proprio questo. Fare nuove amicizie e contatti, conoscere territori lontani, confrontarmi con persone, conoscenze, sensibilità, problematiche, saperi e sapori diversi. I progetti diventano quindi momenti di apprendimento, di scambio e di ampliamento dei propri orizzonti.
La modalità di interazione con i diversi luoghi è quasi sempre quella di tipo residenziale, mi fermo almeno un mese, a volte due, in alcuni fortuiti casi anche più a lungo. Quello che ne scaturisce sono delle relazioni umane e professionali che continuano a durare nel tempo come nel caso di Taiwan o del Giappone, i progetti passano le relazioni permangono. La fortuna è che tutto questo processo – che a tratti diviene anche molto destabilizzante perché non capisci più dove vivi e quale sia veramente il tuo luogo - riesco a condurlo assieme alla mia compagna Silvia Piantini con la quale collaboro da sempre (in alcuni casi mi assiste e in altri creiamo dei lavori assieme come duo). E’ stimolante perché se da una parte potrei dire che lei è la mia più grande Musa dall’altra è anche la mia più efferata critica.
Winter in Tokyo 2022-2023. Photo Silvia Piantini
AT - Come avviene il vostro processo di adesione ad un nuovo progetto. Attraverso inviti, sopralluoghi, ricognizioni, incontri, interviste?
GZ - La maggior parte dei nuovi progetti mi vengono commissionati, ma allo stesso tempo porto avanti le mie idee, che in alcuni casi propongo nei contesti che reputo più adatti – istituzioni, università, enti pubblici - o altre che invece cerco di sviluppare in totale autonomia. La dimensione locale è centrale e il momento del sopralluogo – che in certi casi può durare settimane - è il mezzo attraverso il quale prendere confidenza con il nuovo incarico.
Non parto mai con un’idea predefinita e non so mai in anticipo quello che sarà il risultato di un’esperienza, questo si delineerà gradualmente con la definizione delle problematiche a cui si intende provare a rispondere. E’ uno degli aspetti che più mi stimola della mia professione, un grado di libertà unico che ti porta a relazionarti con i territori in maniera spontanea e quotidiana, il lavoro emergerà di conseguenza man mano che avrai acquisito informazioni sufficienti a farti prendere consapevolezza del luogo e dello scopo del progetto stesso. I progetti condividono un significato
hic et nunc.
Buy me, Tokyo 2023. Photo Silvia Piantini
AT - Di recente hai curato al Centro Pecci l'incontro pubblico dal titolo "Il caso isolato di Territoria 4" invitando il pubblico ad approfondire e investigare il potenziale offerto oggi dalla figura dell'artista che opera nei confronti della collettività. Come spunto di partenza il progetto "Territoria 4", il progetto, curato dall'artista di origine lussemburghese Bert Theis, che coinvolse in vari comuni della Provincia di Prato - artisti internazionali e italiani, filosofi, scrittori e strati della popolazione che di solito non entravano in contatto con l'arte contemporanea. Puoi raccontare cosa ti ha spinto a ripercorrere la storia di questo progetto che negli anni diventò ben presto una piattaforma aperta e un laboratorio work in progress?
GZ - L’incontro a cui ti riferisci fa parte del programma pubblico di una ricerca che sto portando avanti da un po' di tempo intitolata “L’artista per la collettività” e supportata, tra l’altro, da varie istituzioni in Italia, Germania a Giappone e dal Ministero della Cultura italiano attraverso l’Italian Council. Tra le varie attività previste da essa ho organizzato un ciclo di incontri focalizzato sul ruolo sociale dell’artista nel XXI secolo. L’incontro previsto al Pecci l’ho volutamente intitolato così con l’intento di fare un omaggio a Bert Theis e allo stesso tempo di andare a ripercorrere uno dei rari e isolati eventi realizzati sul territorio toscano con lo scopo di far dialogare e relazionare l’arte, i cittadini e i territori, non con la facile retorica dell’azione nello spazio pubblico e del progetto partecipato, ma piuttosto con l’obiettivo di sollecitare nuovi paradigmi di scambio tra arte e società.
La ricerca menzionata sopra è incentrata esattamente su questo fine e nasce da alcune semplici domande relative all’approfondimento e all’investigazione del potenziale offerto oggi dalla figura dell'artista che opera nei confronti della collettività e di un'idea di utilità sociale del suo operato. Dopo vari mesi di ricerca ed essermi confrontato con molte esperienze, posso anticiparti che esempi di questo tipo in Italia restano ancora piuttosto isolati. Oggi, chiunque, a cominciare dalla classe politica, abusa ed utilizza in maniera incongrua termini che potremmo definire di tendenza come partecipazione, comunità, rigenerazione, inclusione e tale abuso conduce ad un graduale impoverimento semantico dei concetti a cui essi si riferiscono, proprio perché onnipresenti, dai quotidiani ai manifesti, dai social alle tavole rotonde. Ci manca solo il panino partecipato o la schiacciata di comunità.
Fashion dealer near Kameido, Tokyo 2023. Photo Silvia Piantini
AT - Quali le affinità al tuo lavoro presenta l'espeiemza di Bert Theis (ad Isola Art Center a Milano o Territoria a Prato) nel configurare gli Spazi della molteplicità - nel far emergere quelle dinamiche critiche che aprono alla creatività personale e collettiva?
"Forse che l'opera d'arte (Bert Theis citando Bourriaud) rappresenta un interstizio sociale. per descrivere le comunità di scambio che sfuggono al contesto economico capitalista sottraendosi alla legge del profitto: baratto, merchandising, tipi di produzione autarchici, ecc"
GZ - Non ho avuto la fortuna di poter conoscere personalmente Theis, ma grazie alla ricerca appena citata ho avuto l’occasione di approfondire una parte del suo lavoro apprezzandone la semplicità, la genuinità e quella vena ironica e contestatrice nei confronti dello status quo capitalista, elitario e sistemico della società, così come di quello del sistema stesso dell’arte.
Molti dei suoi interventi sono piattaforme per la collettività, omaggi a filosofi e pensatori, dispositivi di convivialità, discussione e confronto. Le affinità con il mio lavoro sono forse da ricercare nella volontà di proporre e presentare inviti ad un utilizzo “altro” del quotidiano, progetti indirizzati alle persone tutte, aperti e fruibili a chiunque senza la cui interazione non sono altro che materiali assemblati. In relazione al caso di Territoria 4 mi ha colpito particolarmente il progetto che Theis aveva ideato per il borgo di Luicciana. Avendo notato che il vecchio parapetto della strada che collegava il borgo a Cantagallo era fatiscente, aveva deciso di ricostruirlo sotto forma di un suo intervento. Gli oltre trenta metri di vecchia balaustra di cemento vennero così sostituiti da una in ferro battuto che, oltre a svolgere la prevista funzione protettiva, al suo interno contiene/nasconde la frase che è anche il titolo dell’opera: “Non spetta a noi fornire realtà”.
Oden for dinner, Tokyo 2022. Photo Silvia Piantini
AT - Ed anche (Guy Debord) "il compito dell'arte “vera” è preparare e innescare la rivoluzione. In questo processo è necessario “negare l'arte per realizzarla” in modo dialettico, perché in realtà alla fine è il proletariato che deve realizzare l'arte. “La realizzazione del comunismo sarà la trasformazione dell'opera d'arte nella totalità della vita quotidiana”. In qualche modo ti è affine questa tensione dialettica nella produzione dei tuoi progetti?
GZ - Nell’arte risiede un grande potenziale di trasformazione e cambiamento. L’abilità, però, di immaginare e riconoscere tale speciale condizione dipende non soltanto dalla capacità dei singoli individui di riuscire a percepirla, ma anche e soprattutto, dalla qualità degli interventi e dalla loro capacità dialogica. Se si è concordi circa il fatto che l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile, essa allora può avere la funzione di allargare l’orizzonte mentale e intellettuale della società.
E questo, a mio parere, avviene solo se ad essa si avvicina, se propone un linguaggio capace di stabilire dei punti di contatto. Altrimenti, il rischio è che continui a proseguire su un binario parallelo contribuendo ad evidenziare le distanze tra l’ordinarietà della vita e la stra-ordinarietà dell’arte – o viceversa! - piuttosto che ad avvicinarle.
Sviluppando fin dagli esordi progetti nello spazio pubblico mi sono sempre preoccupato più di come fare arrivare a tutti i messaggi che intendevo veicolare, piuttosto che di privilegiare la componente modaiola e di tendenza a quella contenutistica. Ai tempi dell’università ci furono molti concetti di Bruno Munari che mi colpirono e uno di questi in particolare diceva: “Farsi capire dal pubblico nel campo delle immagini, vuol dire usare immagini oggettive, da tutti riconosciute come portatrici di certi messaggi e combinarle in modo che portino altri messaggi prima sconosciute”.
Sembra una banalità, e invece è proprio l’opposto. Oggi molti studenti e anche colleghi con cui mi trovo a lavorare e confrontarmi sembrano quasi spaventati da un’idea di semplicità, hanno (forse) paura che una cosa semplice possa coincidere con una banale o troppo poco elaborata/pensata/approfondita? In realtà, a me sembra il vero l’opposto, cioè che fare cose semplici richieda uno sforzo maggiore perché la dimensione soggettiva deve gradualmente venir meno in funzione di quella oggettiva.
Downtown, Tokyo 2022. Photo Silvia Piantini
AT - Vari i progetti - l’installazione monumentale Non a Tutti Piace L’Erba, Il progetto di mappatura, La Mappa dell'Abbandono, le esposizioni personali Grand Tourismo alle Gallerie degli Uffizi e Superficially al MOCA Taipei.
Quali i motivi che legano tra loro questi progetti? Sono modelli d’azione per integrare pratiche artistiche in forme di attivismo politico, liberare la vocazione dell’arte da futilità estetiche e frivolezze di mercato?
GZ - Il mio è un agire “politico”, non partitico. Nel senso profondo del termine e riferito all’idea del prendersi cura di noi stessi in primis e poi di ciò che ci circonda. In questo la dimensione attiva/propositiva è imprescindibile, è una spinta che viene da dentro. Solo agendo e non lasciandosi agire si può proporre un cambiamento. Forse potrei dire, in un certo senso, di trovarmi a cavallo tra la figura dell’artista e quella del designer.
Del primo conservo lo spirito indipendente che mi spinge a fare ciò che mi va con i mezzi e le modalità che reputo più adatte, del secondo il metodo progettuale. Tutti i progetti sono legati tra loro da un metodologia. Mi interessa la funzione socio-sperimentale dell’arte e della cultura, esse con mezzi diversi e potenzialmente infiniti divengono strumenti di conoscenza del presente.
100 yen, Tokyo 2022. Photo Silvia Piantini
AT - Nella realtà non produci opere da mettere in casa o da collezionare ma nella circostanza di Grand Tourismo alle Gallerie degli Uffizi hai esposto dei video sul Selfismo e la percezione estetica, la narrazione dei social, fondata sul soggetto e sulla sua rappresentazione. Quale la tua interrogazione sulla precisa natura della mostra d'arte contemporanea?
Pensi che l’opera relazionale possa essere trattata da un punto di vista espositivo e di conseguenza anche critico come le opere precedenti?
GZ - Il progetto Grand Tourismo nasce grazie ad un invito del direttore e con un preciso intento. Oltre ad alimentare una riflessione sull’identità del turismo attuale e in particolare sulla consuetudine a filtrare l’osservazione del patrimonio culturale e dell’opera d’arte attraverso un uso spasmodico di dispositivi tecnologici, si è voluto sollecitare una riflessione sul ruolo e sulla funzione del museo oggi.
Cosa è e o cosa può essere un museo oggi? A quali dinamiche si lega? Quelle prettamente economiche legate alla vendita dei biglietti e dei propri souvenir o quelle legate al tema della conoscenza, dell’esperienza e della promozione del valore della cultura?
Nel caso degli Uffizi, la domanda circa quale sia il suo ruolo e la sua missione, nel momento in cui il suo patrimonio viene fruito - principalmente - attraverso lo schermo del proprio telefono, viene di conseguenza. La mostra diventa così l’occasione per attivare un dibattito critico sulla disattenzione e sulla superficialità con cui ogni giorno affrontiamo il quotidiano e allo stesso tempo sulla mercificazione dei centri storici delle principali città d'arte dove l’utilizzo di memory card ha sostituito l’utilizzo del cervello. Non è più il nostro apparato cognitivo a guidarci nell’osservazione delle cose ma è la necessità di condivisione e accumulazione di immagini tutte uguali che ci omologa come individui, dove è il telefono a fare da filtro a ogni cosa che crediamo di aver visto. L’aspetto sorprendente è che la mostra pensata in tale modo - ossia ubicata esattamente a metà percorso e in una sala il cui passaggio è obbligato – colse talmente alla sprovvista il pubblico che esso stesso iniziò a condividere con l’istituzione (e anche con me in taluni casi) le proprie sensazioni, emozioni e considerazioni in relazione a tale esperienza.
Sumida river, Tokyo 2023. Photo Silvia Piantini
AT - In questi ultimi mesi vi siete recati in Giappone per sopralluoghi ed incontri in vista della Forest Art Festival nella Prefettura di Okayama che si terrà nel 2024. Già in un'altra Biennale quella della Tailandia del 2021 a Korat hai realizzato una pratica su azioni di arte pubblica rivolte alla collettività. Dove uno spazio appartenente alla municipalità, una volta utilizzato come luogo di Salute Pubblica e poi caduto in disuso, è stato riattivato e messo al servizio della comunità locale trasformandosi in centro culturale aperto - spazio per mostre, workshop, presentazioni e rappresentazioni, proiezioni, concerti, performance ecc..
'Cosa significa mettere concretamente la propria opera al servizio della comunità di un luogo come pratica artistica?'
GZ - Significa testare modelli di azione che esulano dalla dimensione prettamente artistico-estetica e che entrano nella sfera della politica, come dicevamo sopra. Il progetto a Korat è stato un esperimento socio-culturale condotto al limite del tollerabile, da parte dell’apparato burocratico locale, e intrapreso quasi come atto di “forza” in virtù della mia consapevole posizione di potere “diplomatico”, essendo il tramite tra due ministeri della cultura, quello tailandese che mi aveva invitato e quello italiano che mi sosteneva nel progetto. A Korat abbiamo creato uno spazio che in Tailandia non esiste – riportando quanto affermato da alcuni giornalisti giunti presso lo spazio il giorno dell’inaugurazione - un luogo aperto a tutti, svincolato da dinamiche mercantili e fin da subito autogestito da cittadini e attivisti. Il giorno prima dell’inaugurazione sono stato convocato dalla polizia e dall’ufficio dell’immigrazione i quali mi criticavano che il progetto fosse troppo aperto e imprevedibile e che alcune delle persone che vi avevano preso parte fin dai primi giorni erano persone poco gradite al regime (la Thailandia è una dittatura monarchico-militare con leggi rigidissime sulla libertà di parola e lesa maestà).
Una volta inaugurato e col passare dei giorni, nonostante le ripetute occasioni di corto circuito semantico – la maggior parte dei cittadini ci ha successivamente confessato che all’inizio pensavano che io e Silvia avessimo comprato una casa e la stessimo ristrutturando – il luogo ha cominciato lentamente ad essere vissuto e fruito in maniera libera da bambini, ragazzi, famiglie e successivamente associazioni culturali locali, studenti universitari e via dicendo. Era un luogo a disposizione dove sperimentare le proprie idee e dove dibatterle liberamente.
Alla fine dei quattro mesi della Biennale la sua fruizione quotidiana era talmente cambiata che varie realtà locali avevano intrapreso la strada di gestirlo assieme come spazio permanente per la comunità. Purtroppo, questa possibilità che io avevo auspicato come evoluzione stessa del progetto e che si stava concretizzando è stata frenata proprio da quell’apparato burocratico che lo vedeva più come un luogo critico e potenzialmente “rischioso”, piuttosto che come uno spazio sperimentale da osservare e da cui apprendere nuovi potenziali modelli. Nonostante ciò il Somsed Temporary Cultural Center è stato fonte di ispirazione per alcuni giovani e giovanissimi che una volta certi della sua conclusione hanno dato vita a Korat ad un loro progetto ispirato proprio dal Somsed stesso. Da cosa nasce cosa e io nel frattempo semino.
Tokyo 2022. Photo Silvia Piantini
AT - Hai accennato ad una pratica che stai realizzando a Tokyo attraverso l’utilizzo di un gioco come il ping-pong, potresti raccontare di più?
GZ - Si tratta di un progetto che ho proposto ad un gruppo di amici giapponesi che vivono nel quartiere Sumida di Tokyo. E’ un’iniziativa abbastanza folle perché la stiamo sviluppando in maniera totalmente indipendente senza che nessuno ce l’abbia sollecitata. Inoltre, nessuno di loro proviene da ambiti relativi all’arte e alla cultura e non ha esperienze pregresse nel campo degli interventi nello spazio pubblico – c’è chi gestisce un caffè, chi è project manager per un’azienda informatica, chi lavora per le ferrovie e chi non lavora proprio -, ragion per cui è davvero una circostanza più unica che rara, e proprio per questo estremamente entusiasmante. L’idea è molto semplice e consiste nell’installare una serie di tavoli da ping pong permanenti nello spazio pubblico del quartiere, creando dei veri e propri nuovi spazi di aggregazione. Un esperimento di socialità e convivialità attraverso il gioco del ping pong che deriva dalla mia esperienza berlinese, dove giocando regolarmente all’aperto – a Berlino ci sono migliaia di tavoli - ho avuto l’opportunità, oltre che a divertirmi, di fare molte nuove amicizie e di entrare in contatto con persone molto distanti a livello professionale, sociale ed anagrafico.
Il ping pong è un connettore e diversamente da altri sport non richiede una grande preparazione atletica né una particolare attrezzatura (basta la racchetta ed una pallina), ma anzi può essere giocato letteralmente da chiunque. Così, a dicembre 2022 abbiamo fatto sia un incontro preliminare con il municipio locale - il quale ci ha comunicato di essere molto interessato alla nostra proposta -, sia un evento pop-up in cui abbiamo portato un tavolo (da interni) nello spazio pubblico e lo abbiamo reso disponibile alla cittadinanza. In quell’occasione hanno giocato tutti, dai bambini e le famiglie alla nonnina che si è presentata con la propria racchetta, fino alla tipa del chiosco dei takoyaki. Questo ci ha motivato ancora di più e nonostante la distanza stiamo lavorando a stretto contatto, anche perché giusto qualche giorno fa è arrivata una comunicazione che ci ha sbalordito. Siamo solo all’inizio ma siamo partiti col piede giusto.
Ginza, Tokyo 2023. Photo Silvia Piantini
Giacomo Zaganelli (Firenze 1983)
Vive e lavora tra Berlino e l'Italia. Agisce in maniera ibrida come artista, curatore e organizzatore, iniziando e sviluppando progetti culturali rivolti alle persone. Attraverso la sua pratica indaga la dimensione sociale e pubblica del concetto di spazio, inteso come risultante di territorio, ambiente e paesaggio. Collaborando con associazioni, fondazioni, centri culturali, parchi archeologici, comunità ed enti pubblici, negli ultimi quindici anni ha promosso, creato e attivato numerosi progetti in Italia, Europa e Asia. Tra quelli recenti le mostre personali Grand Tourismo alle Gallerie degli Uffizi di Firenze (2018/2019) e Superficially al MOCA Taipei (2018); la partecipazione alla Setouchi Triennale 2019 in Giappone e alla Thailand Biennale 2021 in Thailandia. Nel 2020 e nel 2021 ha vinto rispettivamente la IX e la X edizione dell’Italian Council.
Le immagini che qui appaiono sono di Silvia Piantini artista e designer che collabora in molti progetti di Giacomo Zaganelli.