Gianni RuffiNote sull'umore entropico e termodinamico dell'opera di Gianni Ruffi
a cura di Bruno Corà
Con l'espressione “Mi sono stufato”, Gianni Ruffi torna alla ribalta artistica pubblica dopo qualche anno di pausa.
Il suo annuncio, come sempre, è da prendere in seria considerazione, ma non perché stavolta riveli chissà quale tedio, pur lecito a chiunque, ma poiché è oggettivamente dichiarativo dell'azione che lo ha investito alcuni anni addietro. Si tratta infatti della creazione di una serie di opere, diversamente elaborate con legno, ferro, tempera e carboncino, tutte recanti il titolo Mi sono stufato, ideate e realizzate tra il 1993-94 e tutte emblematicamente raffiguranti stufe per ardere la legna che sarebbero piaciute a Brancusi. Ma sotto quel titolo compendiario di questa rentrée in apparenza dimissionaria, nella sua Pistoia Ruffi espone anche opere con diverse datazioni comprese tra il 1987 e il 2020 che dimostrano l'incessante generosa operatività dell'artista e la sua reiterata proverbiale ironia e facezia. Il nuovo episodio espositivo dunque impone di fare alcune considerazioni e ne offre l'opportunità.
Anzitutto, osservando in modo ampio e generale la sua opera e in particolare quella in mostra si può affermare che uno dei dispositivi generativi di molte sue creazioni abbia a che fare col rebus, gioco definito dall'ablativo plurale del latino di res (cosa), nel quale per comprendere il significato delle composizioni è richiesta «la costruzione di una parola o di una frase per mezzo di segni (rebus letterale) o di figure (rebus figurato)». Basterebbe – uno per tutti – osservare il suo Ricorda, 1976, emblematico del suo metodo. È innegabile infatti che le fabulae visive di Ruffi abbiano l'organismo di 'cose' cioè di oggetti fisici, ancor più che semplici immaginari bidimensionali. In secondo luogo, se tale concezione ideativa può essere avvicinata alla «chanson de geste popolare e grottesca» (Vivaldi) o attribuibile alla «Pop italiana» (Barilli) nondimeno varie sono le consonanze che rendono l'opera di Ruffi dialettica con quella 'poverista' di Pascali o anche di Boetti, noto amatore di cruciverba e di altre 'enigmistiche' invenzioni. Come non cogliere, infatti, analogie linguistiche e formali ma anche gli jeux de mots (giochi verbali) tra i contemporanei Bachi da setola, 1968 o la Barca che affonda, 1966-67 di Pascali e Il moto ondoso, 1967 e Il mare a dondolo, 1967 di Ruffi? Siamo di fronte ad opere che condividono aspetti ideativi, strutturali, per non dire 'concettuali', che nell'immaginario viaggiano alla medesima frequenza.
Gianni Ruffi, Mi sono stufato (2021) Galleria Vannucci, Vista della mostra
Note sull'umore entropico e termodinamico dell'opera di Gianni Ruffi¹
Bruno Corà
Con l'espressione “Mi sono stufato”, Gianni Ruffi torna alla ribalta artistica pubblica dopo qualche anno di pausa.
Il suo annuncio, come sempre, è da prendere in seria considerazione, ma non perché stavolta riveli chissà quale tedio, pur lecito a chiunque, ma poiché è oggettivamente dichiarativo dell'azione che lo ha investito alcuni anni addietro. Si tratta infatti della creazione di una serie di opere, diversamente elaborate con legno, ferro, tempera e carboncino, tutte recanti il titolo
Mi sono stufato, ideate e realizzate tra il 1993-94 e tutte emblematicamente raffiguranti stufe per ardere la legna che sarebbero piaciute a Brancusi. Ma sotto quel titolo compendiario di questa
rentrée in apparenza dimissionaria, nella sua Pistoia Ruffi espone anche opere con diverse datazioni comprese tra il 1987 e il 2020 che dimostrano l'incessante generosa operatività dell'artista e la sua reiterata proverbiale ironia e facezia. Il nuovo episodio espositivo dunque impone di fare alcune considerazioni e ne offre l'opportunità.
Gianni Ruffi, Dipanare il mare, 1988-90 Carta gialla, tempera, carboncino, vinavil dim. 217x362x40
Anzitutto, osservando in modo ampio e generale la sua opera e in particolare quella in mostra si può affermare che uno dei dispositivi generativi di molte sue creazioni abbia a che fare col
rebus, gioco definito dall'ablativo plurale del latino di
res (cosa), nel quale per comprendere il significato delle composizioni è richiesta «la costruzione di una parola o di una frase per mezzo di segni (rebus letterale) o di figure (rebus figurato)».(1) Basterebbe – uno per tutti – osservare il suo
Ricorda, 1976, emblematico del suo metodo. È innegabile infatti che le
fabulae visive di Ruffi abbiano l'organismo di 'cose' cioè di oggetti fisici, ancor più che semplici immaginari bidimensionali. In secondo luogo, se tale concezione ideativa può essere avvicinata alla «
chanson de geste popolare e grottesca» (Vivaldi) o attribuibile alla «Pop italiana» (Barilli) nondimeno varie sono le consonanze che rendono l'opera di Ruffi dialettica con quella 'poverista' di Pascali o anche di Boetti, noto amatore di cruciverba e di altre 'enigmistiche' invenzioni. Come non cogliere, infatti, analogie linguistiche e formali ma anche gli
jeux de mots (giochi verbali) tra i contemporanei
Bachi da setola, 1968 o la
Barca che affonda, 1966-67 di Pascali e Il moto ondoso, 1967 e Il mare a dondolo, 1967 di Ruffi? Siamo di fronte ad opere che condividono aspetti ideativi, strutturali, per non dire 'concettuali', che nell'immaginario viaggiano alla medesima frequenza.
Gianni Ruffi, Il tempo è denaro, 2016 Ferro, salvadanai in terracotta, dim. 287,5x105x105
Mi rendo conto di fare una affermazione che sembra voler spostare l'attribuzione di poetica finora assegnata all'arte di Ruffi - cioè di essere 'pop' - verso il versante 'povero', ma delle due l'una: o, per qualche ora anche Pascali e Boetti sono stati 'pop' o anche Ruffi è stato 'poverista'. Certo è che all'inizio degli anni Sessanta, soprattutto dopo il 1964, le due poetiche erano pressoché coeve. Si pensi agli
Oggetti in meno, 1965 di Pistoletto e ad altre opere di frontiera tra le due correnti americane italiana. Ma su questi argomenti si tornerà ancora poiché il tempo e la riflessione aiutano sempre ad avere la giusta distanza per focalizzare quel che ancora oggi non è del tutto possibile. Probabilmente la necessità di prendere congedo dall'Informale, in quegli anni induceva le giovani generazioni a volgere lo sguardo in più direzioni e a compiere più esperienze, con apparenti affinità. Comunque è chiaro che la Pop art è stata una cosa è l'Arte povera un'altra.
Tornando al presente o al recente passato è palese che Ruffi continua il suo percorso per la lettura del quale non trascurerei anche un'ulteriore suggestione che era nell'aria ai suoi esordi, nei fatidici anni Sessanta. Mi riferisco stavolta all'ampio dibattito che pur occupava i luoghi di frequentazione artistica di mezza Italia: le gallerie di Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli e naturalmente anche Firenze e Pistoia, come pure i bar e le trattorie di quel tempo. Si faceva un gran parlare di 'strutturalismo' e di 'filosofia del linguaggio' e gli artisti più attenti si confrontavano con le dense pagine del Michel Foucault di
Les mots et les choses, 1966 (in Italia
Le parole e le cose, 1967) o
L'ordre du discours,1970 (in Italia
L'ordine del discorso, 1972) ma anche quelle di Roland Barthes sulle
Mythologies, 1957 (in Italia
Miti d'oggi ,1962) della pubblicità, della stampa e del linguaggio comune o di Ludwig Wittgenstein del
Tractatus logico-philosophicus, 1961, già tradotto e pubblicato in Italia nel 1964 e, in seconda edizione riveduta, nel 1968.
Gianni Ruffi, Magnolia, 2013 Tempera su legno ritagliato e foglie di magnolia, bottiglia in plastica, dim. 43x30,5x16
Attraverso lo scambio con la critica militante di quegli anni, gli artisti non si sottraevano alle discussioni, spesso facendo ricorso alle loro intuizioni e rivendicando la precocità tutta già definita nelle loro opere a fronte della complessità e talvolta dell'ermeticità dei testi critico-letterari o filosofici. In ultima analisi, insomma, in quegli anni non mancarono elaborazioni partecipate della produzione di senso, che nel caso dell'arte di Ruffi trovò esplicitazione critica nelle approfondite pagine di Renato Barilli e nella emotiva adesione poetica di Cesare Vivaldi.
Oltre ad essere stato esponente di punta della "Scuola di Pistoia”, Ruffi si è sinora distinto per aver reso sostantivamente concreta e osservabile, come una virtù o al contrario un'inguaribile intemperanza, quell'arguzia e ironia che ha sempre distinto la sua gente, non assente massima espressione poetica della nostra lingua, la
Commedia dantesca.
Ma prima di arrivare a interrompere queste brevi considerazioni, vorrei anche dire che con Ruffi si deve fare attenzione alle cose che si dicono, alle espressioni più dirette, soprattutto quando 'spensieratamente' , nel dialogo quotidiano vengono alle labbra modi comuni di definire situazioni, esigenze, stati d'animo, condizioni momentanee, ogni aspetto delle tante occupazioni, cure, propositi che ci attraversano la mente. Nel metabolismo immaginario di Ruffi sembra che tutto si tramuti in una forma, in un'immagine che reifica due parole concatenate aventi nesso o una frase, o perfino un proverbio, che mai si sarebbe pensato che avrebbe potuto anche avere un'altra vita possibile di 'cosa' vera e concreta, oltre la virtualità del significato che pur ha sempre inteso esprimere.
Gianni Ruffi, Sorgente Morandi, 2016 Silveral oro e alluminio su legno tamburato, dim.248x200x230
Una coazione a trasformare il linguaggio verbale in quello visivo prende sovente corpo nelle opere di Ruffi al punto che non saprei dire quanto istintivamente e con immediatezza o quanto attraverso una sofisticata elaborazione. Egli giunge così a mettere al mondo un enunciato che se prima aveva una vita nel pensiero di ciascuno e pertanto diversificato, ambiguo, indefinibile, in lui invece assume un'identità reale e distinta con una propria forma. Il processo visivo di cui egli si è reso protagonista avrà certamente una sua definizione tecnica corrispondente nei manuali di linguistica generale, ma a me torna spontaneo definirlo come “principio generativo alla lettera”!
In tale ambito da lui introdotto un'infinità di pensieri ha la possibilità di prendere forma, la quale, una volta realizzata, spesso è incontrovertibile, perché si dimostra la più spontanea e aderente alla proposizione che pur l'ha generata:
Mare aperto, 2018 come un libro;
Il tempo è denaro, 2016 nella morfologia di uno scheletro di clessidra con alla base una dozzina di salvadanai di terracotta;
Il mio letto, 2013 realizzato con resti curvi di legno tamburato e dipinto nell'intenzione di visualizzare un Cretto di Burri su cui fare sogni propizi; infine il
Pane e lapis, 1987 del prigioniero della propria passione artistica o il
Pane e acqua, 2020 dell'eremita isolato da pandemia.
Non è esagerato pensare che se Ruffi non fosse divenuto pittore e scultore, avrebbe potuto fare il medico, per quanto l'inclinazione all'analisi anatomica delle proposizioni verbali e delle parole stesse ne qualifica l'attitudine profonda!
Gianni Ruffi, A piedi nudi, 2007 Tempera su legno, legno tamburato, filo di ferro, dim. 130X110x18
Ma quella della visualizzazione dei sostantivi, dei verbi, delle preposizioni di ogni specie non è il solo dispositivo ecfrastico dei suoi modi artistici; tra loro vi è anche quello di segno dimostrativo che consiste nel ricavare da un pensiero utopico un'immagine che visualizza la possibilità di quel pensiero.
Dipanare il mare, 1988-90, opera tra quelle presenti in mostra, di cui esistono varie differenti versioni, è l'esempio di come i segni distintivi della massa ondosa marina si raccolgono come filo in un gran gomitolo deposto ai piedi della grande tempera vinilica e carboncino su carta gialla. In quest'opera il prodigio di quell'impresa è lampante. D'altronde, come è ugualmente constatabile, Ruffi di “idee” maturate negli anni ne ha da vendere! Ad esempio
Idea, 2006 in foggia di seduta, oppure
Idea in trappola, 2015 con tanto di tagliola che la vincola a un grande supporto bianco che fa purezza di sentimento.
Le provocazioni sono molte e da un certo punto di vista sarebbero piaciute anche al Palazzeschi del
Lasciatemi divertire. A tale proposito infatti nelle pieghe del repertorio che Ruffi non cessa di arricchire con nuove “immagini in libertà” (mi è venuta bene stavolta!) un filo rosso - non tanto sottotraccia - coniuga a mio modesto parere la sua verve ironica, i suoi motti di spirito anche con tutto il vasto universo di enunciati “in libertà” dell'estetica e della poetica futurista. Con la differenza che per Ruffi quel “futuro” è passato remoto, così come si è cristallizzata anche la natura morta metafisica che nella
Sorgente Morandi, 2016 sgorga metonimicamente sotto foggia di bottiglie di legno tamburato in silveral oro e alluminio!
Come per ogni santo, anche la pazienza di Ruffi, da ultimo, ha raggiunto il limite. Se egli afferma “Mi sono stufato”, va creduto alla lettera, cioè al vero e a vista! Non ci resta che prendere sul serio le sue stufe, augurandoci che questo autunno sia migliore di quello passato.
Gianni Ruffi, Autoritratto, 1986-2018 Secchi in metallo, legno, tempera, dimensioni variabili
1 -Cfr:”Rebus” in Nuovo Devoto-Oli - Vocabolario dell'italiano contemporaneo, Le Monnier, 2020, p. 1787.
2 -Renato Barilli, “Ruffi e le trappole del senso”, in Gianni Ruffi - le trappole del senso 1965-1990, Electa, Milano 1990.