Giovanni Morbin
in Dialogo
Artext - Quali le ragioni che ti hanno indotto a fare riferimento ad una pratica, per le tue azioni performative, nata nel novecento e che ha trovato in vari contesti, modalità e temi differenti - Azionismo Viennese, Performance, Happening, azioni del Futurismo?
GM - Negli anni della mia formazione, l’interesse per il corpo e dintorni era molto evidente. Nel mio caso, credo che la curiosità verso la performance nasca negli anni del Liceo e in particolare dal lavoro con alcuni insegnanti. In quegli anni provavo una grande passione per la pittura che però era per me un ritardo continuo. Mi sentivo come un calciatore che arrivava troppo in anticipo sul pallone e lo doveva aspettare. Un corto circuito bioritmico che cercai di risolvere avvicinandomi alla performance.
Più avanti capii che un artista non aveva più solamente il compito di interpretare il mondo per immagini ma anche di animarlo di comportamenti che potevano sì scaturire dalle immagini ma confluendo poi in una sorta di partecipazione, una forma di corpo sociale.
Infine, ragionando sugli archetipi personali e dato che mio nonno e mio padre erano macellai, pensai che così come un pittore esibiva le proprie tele, un performer poteva mostrare e appendere le proprie carni, il proprio corpo. Fu così che pensai a
lo sguardo (Rapidi ricordi di un Giovane macellaio all’Accademia di Belle Arti di Venezia), 1981. Il passaggio all’azione fu graduale e inizialmente scandito da un periodo in cui trattavo le carte dipinte con la crema da scarpe nel tentativo di trasformarle in pelle.
Giovanni Morbin, Bodybuilding, Ibridazione 1 Bivsi Zapori, Metelkova Lubiana (SLO), 1997. Durata, 8 ore. Fotografo Frank Fidler
Artext - Nei più recenti studi sull'Evento o il concetto stesso di Situazione intesa come “unità di ambiente materiale e comportamento” si palesa il superamento dell’arte e la costituzione di un linguaggio moderno per “attuarne il programma nella realtà”. Puoi raccontare di questi lavori in serie, le Ibridazioni che "non sono eventi spettacolari, ma si insinuano nel quotidiano mentre tutto ciò che ci circonda continua normalmente"?
GM - Nel mondo dell’arte, l’opera esiste se si può vedere e certificare ma la pratica artistica non sempre rispetta questa realtà. A volte le cose non si percepiscono perché in movimento e poco inclini ad essere scansionate a tutto tondo. Si tratta di fenomeni che sfuggono alla misurazione convenzionale ma non per questo sono inesistenti o privi di mordente, di interesse e di concretezza. Ad esempio, le Ibridazioni hanno una metrica che mi piace pensare come simile all’evoluzione della specie: un fenomeno invisibile perché fluido e molto lento per coglierne lo scarto in avanti.
Le Ibridazioni rappresentano una realtà performativa che sfugge ai riflettori e non ama il palcoscenico. Esse si manifestano nel luogo in cui nascono e che non è sempre necessariamente animato dal passaggio delle persone e dagli eventi artistici. Rappresentano una pratica liquida che si mescola alla vita reale e quando la intersechi non sai esattamente come distinguerla dalla varietà dei comportamenti umani attuati nel contesto ordinario dell’esistenza. Di fronte ad un’azione artistica, ne metabolizziamo automaticamente l’eccentricità sapendo che nell’arte tutto è possibile. È come l’Arcadia, un mondo in cui l’incrocio con figure anomale rappresenta la norma.
Nella vita reale tutto ciò non accade e forse le Ibridazioni costituiscono uno strabismo capace forse di mettere in discussione le certezze che ognuno di noi possiede e ce ne torniamo a casa con un dubbio su ciò che abbiamo vissuto.
Giovanni Morbin, Strumento a perdifiato 1995 Ottone, 98X82, ø 2 cm. Fotografo Andrea Rosset.
Artext – Tra le tue invenzioni spettacolari, nel solco delle avanguardie storiche, "Strumento a perdifiato", 1996. Ancora il gioco verbale, il nonsense, le parole a cogliere la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo.
GM - Lo Strumento a perdifiato nasce dalla coscienza di essere un corpo unico con l’Universo. Se così è, si pone un problema di comunicazione dato che “
Se siamo un corpo unico con l’Universo, parlare a se stessi equivale parlare all’Universo e parlare all’Universo significa parlare a se stessi” (Strumento a perdifiato, 1995).
Strumento… perché attrezzo per comunicare a se stessi. Quando la società riconosce un’azione come utile, essa promuove l’ideazione e la costruzione di strumenti funzionali ad agevolare quell’azione. Ne consegue che parlare a se stessi è un’azione utile anche perché sostenuta da un attrezzo costruito appositamente per farlo.
…
a perdifiato perché la comunicazione in un corpo unico e grande quanto l’Universo suggerisce un dispendio di energie tale da togliere il fiato e ancora …
a perdifiato se pensi di suonare l’ottone che hai tra la bocca e l’orecchio. Allora sì che si tratta di una perdita di fiato.
Artext - È questo di ciò che quindi resta di una performance?... le tracce e gli odori di qualcosa appena avvenuto.
GM - Non necessariamente. Le performance lasciano un resto, delle tracce, delle registrazioni che però non sono mai quell’evento. Il valore catartico dell’evento non può mai essere sostituito dai complementi d’arredo. Le azioni contengono l’imprevisto e l’imprevedibile e i derivati che ne conseguono hanno e avranno sempre un valore lapidario. Chi non è presente all’evento ha perso l’attimo…ma forse in futuro ne coglierà un altro.
Quando usi lo
Strumento a perdifiato, anche solo per un secondo, ti senti
fuori di te. Per un istante
sei fuori di testa dato che la tua bocca coincide all’orecchio. Questa è una sensazione concreta che ti porti appresso per il resto della vita.
Giovanni Morbin, Disegni per Attrezzi, 1988, tecnica mista su carta, 39.5 x 29.5 cm (E)
Artext - Puoi accennare alla tua pratica di interazione tra musica, linguaggio, gesto e immagine che mettono in discussione lo statuto stesso dell’opera d’arte - come il reenactment della performance “Concerto per Chiari e Calore".
GM - “Concerto per Chiari e Calore” è un omaggio ad un grande artista Fluxus, ahimè fin troppo dimenticato. È un omaggio ai suoi
metodi per suonare che mi è apparso come in sogno quando vidi, aprendo una scatola di cerini, un pianoforte a coda.
Il concerto si apre rivelando l’oggetto stesso del concerto, prosegue con l’incendio dell’oggetto e termina con l’esaurimento naturale della fiamma.
È disponibile un kit che consente a chiunque di fare il proprio concerto, allo stesso modo in cui tutti coloro che usano lo Strumento a perdifiato sono autori della comunicazione. Si tratta di dispositivi per saltare il fosso ed essere partecipi nella propria partecipazione.
Giovanni Morbin, Disegno per Attrezzo 1988 Tecnica mista su carta 29,5X39,5
Artext - Nelle tue 'Azioni' si entra in contatto con una serie di vicissitudini corporee. Il corpo oltrepassa i confini di letteratura e musica, il corpo come superamento di pittura e scultura, come un mezzo di esperienza, uno strumento di protesta, una rivoluzione a cui bisogna ancora una volta guardare.
Quali sono i modelli di teatralità manifesta, immediata di spazio e tempo che tenti di disarticolare? La visione prospettica centrale, l'adesione sentimentale a ciò che si vede fondato sulla centralità delle emozioni nel pensiero? Si tratta ancora di attuare dei sistemi predittivi?.. in una trappola tesa dal nostro stesso corpo quando un'azione comune, un semplice rituale privo di idea si trasforma in opera.
GM - A volte sì e a volte no. Le opere possono contenere il senso di smarrimento o la forma dell’indicibile e dell’irrazionale così come incarnare un progetto, un’idea o una visione. Non possiamo però dimenticare che gli intellettuali possiedono gli strumenti per immaginare, proporre e costruire un mondo nuovo e magari migliore e, proprio perché in possesso di tali strumenti, hanno il dovere di non sottrarsi dal contribuire al rinnovamento dell’esistenza.
Per ciò che concerne l’aspetto teatrale, non ne so un gran che. Cerco di pormi naturalmente in una condizione snaturata e lo faccio senza enfasi recitativa. Sono me stesso alle prese con l’anomalia posturale. Se mi parlano rispondo, se chiedono spiegazioni le concedo con la stessa ordinarietà che adotto quando incontro e mi intrattengo con uno sconosciuto.
Nel caso dei lavori che suggeriscono un approccio, si tratta di dispositivi interattivi la cui essenza scultorea è parziale e si completa solo dopo l’abbinamento con il corpo. Sono opere che chiedono di essere completate ma non chiuse e che offrono un confronto che auspico si possa tradurre in una proiezione immaginifica.
Giovanni Morbin, Bottega, 1979 Insegna vintage, inchiostro e crema da scarpe su cartone. 209,5 X 20 cm.
Artext - Il corpo come evento ha trovato nel museo archeologico spunti e riflessioni in una serie di oggetti utilizzati in maniera paradossale. Puoi parlare di questa mostra concentrata sugli oggetti che promuovono un atto, lo indicano e per questo si offrono come funzioni insolite di tipo concettuale o immaginarie, o come attrezzi a "indicare invece l’evoluzione di alcuni archetipi."?
GM - L’arte sembra non servire a nulla ma, come lo Strumento a perdifiato, acquisisce funzionalità per il solo fatto che sono le opere ad essere strumento di concretezza. Indispensabile, titolo della mostra, sottolinea l’irrinunciabile necessità di una cosa inutile come l’arte. Il concetto stesso di attrezzo rivolto all’arte trasforma automaticamente il nonsense in utensile concettuale. Ad esempio, nel caso degli Attrezzi (1988/89), in mostra al Museo Archeologico di Bologna, si tratta di opere concepite in uno stato di impossibilità d’agire. Sopraffatto dai protagonisti del passato, sentivo come se mi avessero tolto la possibilità di affermare idee ed opere anticipandomi storicamente. Decisi allora di costruire degli attrezzi per fare qualcosa di cui non conoscevo ancora la natura. La produzione di quei dispositivi fu molto utile a togliermi da una posizione scomoda raggiungendo lo scopo attraverso canali psichici piuttosto che pescando nella tradizione funzionale delle cose e delle azioni.
Altri lavori in mostra a Bologna, offrono insistentemente la forma, completa o parziale, del pollice che spunta, come un germoglio, da una pietra ordinaria (Germoglio, 1997). Si tratta dell’unico dito che nella mano, non si dispone parallelo al resto delle dita. Rappresenta l’opposizione del pollice (…e non il pollice opponibile) al resto dell’arto e in questo gesto di resistenza e ribellione all’insieme offre all’umanità l’archetipo dello strumento che ha dato la stura al processo tecnologico. Ricordiamoci però che l’articolazione della mano non è esclusivamente rivolta alla creazione di oggetti, essa si protende anche alla ricerca di relazioni dirette con la varietà della specie.
Giovanni Morbin Germoglio 1997, Mattone e sangue 30 X 20 X 6,5 cm. Fotografo Andrea Rosset. Collezione Privata, Cornedo Vicentino (VI)
Artext - Si può ricondurre la tua pratica artistica all’idea di rivoluzione?
GM - Sì, ma deve essere prima di tutto una rivoluzione per me stesso. Devo poter provare le stesse sensazioni che può vivere chi assiste all’evento. Non testo mai le azioni e le ibridazioni prima di presentarle e non ho mai la certezza di poterle potare a compimento. Può perfino accadere che non ci riesca. Non è forse rivoluzione il coraggio di avventurarsi nel divenire delle cose?
Museo Civico Archeologico Bologna
Le opere in mostra
Daniele Capra
Le opere Mano, Testa e Porta (2002) rappresentano gli ‘strumenti di lavoro’ di cui l’uomo naturalmente dispone e sono quelli che ne hanno alimentato idealmente il percorso evolutivo. Tali elementi sono anche il punto di partenza di ogni operazione artistica in un autore dedito alla pratica della body art come Giovanni Morbin, per il quale il corpo è fonte, medium e linguaggio. La mano, la testa e il braccio (il titolo Porta allude all’idea di sostegno e di varco ingresso) sono mostrati dall’artista in modo anticelebrativo in una condizione di parziale debolezza, come evidenziano i bendaggi, che sono un riferimento a un infortunio subito dall’artista.
Le opere sono caratterizzate dalla sovrapposizione del disegno del corpo a una texture che raffigura il tessuto sanguigno, che è insieme soggetto rappresentato e materia costituente. I disegni sono infatti realizzati usando come pigmento lo stesso sangue dell’artista, che, in questo modo, partecipa intimamente all’immagine estendendo concettualmente il volume del proprio corpo.
Giovanni Morbin, Mano, Testa, Porta, 2002, sangue su carta cotone, 100 x 130 cm, ciascuno, foto Andrea Rosset
Belvedere (2009) è una scarpa classica da uomo in vitello di produzione artigianale che viene presentata con la sua scatola. La calzatura è dotata di un tacco sovradimensionato rispetto alla suola che, nonostante la mancata compensazione delle masse, riesce a opporsi alla gravità rimanendo orizzontale. La sproporzione tra le parti rende la scarpa innaturale e antifunzionale, conferendole un sapore surreale.
L’opera allude all’altezza come mezzo di potere in sé capace di creare gerarchie. Ma, ambiguamente, sottolinea il fatto che la stessa altezza sia caratteristica imprescindibile per vedere più in là, come lo stesso titolo sottolinea ironicamente. Nel suo essere strumento Belvedere può essere letta così doppiamente come grottesco tentativo di ricercare una posizione più elevata e come critica egualitaria al concetto di dominanza.
Braccio rotto, Lascia, Manico T badile (1988-89) nascono dall’osservazione della vegetazione delle piante e di come esse siano sottoposte agli stessi vincoli strutturali e alle stesse logiche cui l’essere umano e gli attrezzi che realizza sono sottoposti. Le strategie per opporsi alla gravità, la ricerca della robustezza degli elementi costitutivi o la possibilità di cura in seguito a una rottura rispondono a dinamiche simili, in cui l’analogia tra elemento antropico e vegetale è quasi disarmante: un braccio che si rompe è come un ramo che cede alla tempesta; un’ascia può essere vista idealmente come l’innesto di due differenti specie arboree che si uniscono rigenerandosi. La serie degli Attrezzi, centrale nella ricerca di Morbin, è così dichiarazione poetica dell’uso del corpo da parte di un body artist; ma è anche metafora di come l’artista interagisce con il mondo, in una posizione di continuità e prossimità al mondo stesso.
Giovanni Morbin, Concerto a perdifiato, 2018, performance, Dro, documentazione, foto Roberta Segat
Strumento a perdifiato (1996) è un lavoro di ottone, simile al corno che si usa nelle orchestre classiche, a disposizione dello spettatore. È uno strumento del tutto particolare poiché consente di parlare e ascoltare la propria voce. L’opera attiva e mette in atto una comunicazione di tipo bizzarro e assurdo, che rompe il canone stesso della trasmissione del contenuto, poiché manca del tutto il destinatario. Strumento a perdifiato è infatti una macchina che permette in maniera paradossale di parlare a favore di un interlocutore invisibile, ma che è sempre presente alla nostra vita: noi stessi. L’uso dell’opera è così occasione di un confronto sincero con quelle idee e quelle parole che spesso evitiamo di pensare e pronunciare, cullandoci o nascondendoci nella nostra inconfessabile intimità. Lo Strumento a perdifiato viene inoltre utilizzato collettivamente in forma di concerto, nel quale gli orchestrali sono invitati a rispettare una scansione di movimenti come accade generalmente nei brani di musica classica. È un modo non ordinario per ascoltare se stessi nell’agorà delle interazioni.
Giovanni Morbin, L’angolo del saluto, 2006, mdf e acciaio inox, 202.5 x 32.5 x 101.5 cm
L’angolo del saluto (2006) è originato dall’idea di espandere concettualmente il volume del proprio corpo attraverso un gesto ginnico in cui viene alzato il braccio teso al di sopra della scapola. In questo modo viene a crearsi un’inconsapevole scultura modernista invisibile, un volume d’aria vuoto. L’artista cerca così di riappropriarsi di tale gesto nella sua esclusiva valenza corporea, depurandolo dal significato politico che ha avuto nel passato e che il nostro presente sembra in maniera angosciante riportare in auge. La scultura, che rappresenta l’angolo ideale per realizzare tale gesto, diventa così una costruzione geometrica minacciosa e a cui dobbiamo prestare attenzione, come evidenzia la presenza inquietante della barra d’acciaio.
La foto L’angolo del saluto (2014) è una documentazione della performance realizzata da Morbin nella città di Rijeka – in occasione della sua personale al MMSU – in cui l’artista si è fatto ingessare il braccio destro nella posizione del saluto romano. Per un’intera giornata Morbin si è mosso nella città croata con una postura anomala e politicamente ambigua, che passava però del tutto inosservata proprio per la presenza del gesso ortopedico. I collage (2006-11) sono invece uno studio comportamentale sul saluto romano e sulle pratiche di relazione nello spazio pubblico. Il gesto viene in questo modo privato del senso politico, schernito e ironicamente ricondotto a banale pratica fisica, la cui unica ragione è di natura muscolare.
Giovanni Morbin, Indispensabile, 2024, vista della mostra, Museo Civico Archeologico, Bologna, ph.Valentina Cavion
Scultura sociale (2003-2024) è costituita da elementi modulari semisferici in metallo liberamente componibili che si mettono in dialogo con ciò che esiste, accoppiandosi con sedie, tavoli, porte, armadi, o qualsiasi altro oggetto: è uno strumento ‘sociale’ proprio per la sua capacità di introdursi in un contesto e interagire con esso. L’opera, che è anche un omaggio alle 7000 querce di Joseph Beuys, allude al superamento dell’idea di fissità e misurabilità tipica della scultura poiché è impossibile la vista nella sua interezza. È così un atipico strumento sociale, incompleto e atomizzato, ma che risulta nei fatti un innesco di potenziali relazioni.
Studio per applicazione (2024) nasce invece come intervento site specific per gli spazi del Museo Archeologico, come reazione a un elemento architettonico che sporge dal muro. La presenza del quadrato di legno diventa così l’occasione per l’artista per un nuovo studio finalizzato a ulteriori applicazioni dell’opera.
I Guanti (1985) sono una scultura nata dall’idea di rendere impossibile l’uso delle mani, contrariamente alla motivazione per cui i guanti nascono. La scultura, realizzata in filo metallico, è priva delle basilari caratteristiche anatomiche per l’impiego umano, ma testimonia la volontà di Morbin di mettersi in una situazione di seria difficoltà operativa. Non fare, o fare opponendosi a dei vincoli insormontabili, è così metafora della condizione esistenziale dell’artista.
Giovanni Morbin, Indispensabile, 2024, vista della mostra, Museo Civico Archeologico, Bologna, ph.Valentina Cavion
Bodybuilding (1997) è una performance nella quale Morbin si cementa con un mano a un muro rimanendo in piedi per otto ore (la durata della giornata lavorativa). L’artista fonde il proprio avambraccio con la costruzione, ibridando volumetricamente l’arto con un corpo inorganico estraneo. La performance, realizzata per la prima volta a Lubiana e ripetuta successivamente in altri contesti, indica il tentativo dell’artista di superare la propria finitezza oltre i limiti estremi imposti dalla pelle.
Manomissore (2023) è un volume in cemento osseo che rappresenta lo spazio vuoto tra le mani dell’artista a riposo. È una scultura che nasce da calco antropometrico, ed evidenzia l’interesse di Morbin nei confronti della postura e delle abitudini comportamentali e, allo stesso tempo, è uno strumento potenziale atto ad accrescere il proprio corpo in una condizione di inazione.
Distantanee (2023) è una serie di opere che sono caratterizzate dalla possibilità di cambiare le proprie dimensioni e di interagire con lo spazio in una modalità libera e anarchica. I lavori – realizzati accoppiando dei volumi di marmo con cavalletti di diversa tipologia – propongono sovente il ribaltamento tra ciò che è pensato per sostenere e ciò che viene sostenuto, che si alternano liberamente in forma aperta. Le sculture sono infatti pensate da Morbin per essere esposte in modalità ogni volta differenti, in opposizione all’idea di fissità dell’opera. Le Distantanee sono infatti dispositivi che si mettono in gioco, sensibili al contesto, alla luce, alle variabili ambientali e al gusto di chi le colloca nello spazio.
Giovanni Morbin, Indispensabile, 2024, vista della mostra, Museo Civico Archeologico, Bologna, foto Davide Stani
Opere collocate nella Sezione Preistoria
Le opere della serie Bud (2023) nascono con l’idea di una germinazione del corpo dell’artista a partire da sassi e pietre raccolti in differenti contesti. Da ciascun elemento emerge infatti il pollice di Morbin, realizzato impastando la polvere della stessa pietra con il sangue dell’artista, nel tentativo di ibridarsi con del materiale inorganico o dei manufatti già esistenti (come per esempio il mattone). Il dito scelto, realizzato attraverso un calco, non è casuale. Il pollice infatti, in quanto opponibile, ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione umana e ha consentito l’ideazione e l’utilizzo di attrezzi e strumenti da lavoro che hanno segnato la storia della nostra specie.
Anche Manmano (2023) nasce attraverso un calco ed è il frutto della compressione di una porzione di argilla tra le mani per il tempo minimo necessario per registrare la pressione. È la testimonianza di una forza applicata su entrambi i lati, ma anche l’effetto dell’azione di due strumenti espressivi archetipici e fondamentali: le mani.
Consertore (2023) è il calco realizzato in bronzo dello spazio tra gli avambracci a riposo. È una scultura dal sapore ironico che testimonia le Ozioni, performance in cui l’artista rinuncia all’azione per lavorare solo mentalmente in una condizione di ozio creativo. Morbin ribalta così la retorica del materiale – il bronzo è sempre stato adoperato nell’arte per realizzare statue e celebrare le persone effigiate – fissando con il metallo il momento della stasi e del solo pensiero, l’azione meno cinetica e performante concessa all’uomo.
Giovanni Morbin, Indispensabile, 2024, vista della mostra, Museo Civico Archeologico, Bologna, foto Davide Stani