Saretto Cincinelli - Oggi ripensando a ground-ground la tua mostra a SpazioA di Pistoia mi è tornato in mente il titolo di un’opera di Maurice Blanchot: L'écriture du désastre (la scrittura del disastro) un titolo che mi pare costituisca un buon incipit per avvicinare la tua ricerca, intanto perché -come ground-ground- si configura come un’opera composta da frammenti e, inoltre, perché ritengo che il titolo di Blanchot possa e forse debba essere inteso facendo risuonare il doppio genitivo che lo genera: scrittura del disastro, dunque, nel duplice senso di restituzione/rappresentazione di un disastro o, in maniera ancora più essenziale, come scrittura autoriflessiva del disastro stesso, come se quest’ultimo si auto-tracciasse tramite una sorta di scrittura interna… Una dimensione che non mi pare completamente estranea alla genesi della tua mostra, e di cui, forse, possiamo rintracciare, sia pur in nuce, alcuni elementi sin nella tua precedente personale, nella stessa galleria. Mi riferisco più precisamente, al lungo e partecipato processo di usura e di abrasione a cui conducevi le sedie, i tavoli e gli sgabelli in plastica di Almost invisible … Ritieni che esistano dei legami fra queste due mostre?
Giulia Cenci - Si, molti, e partendo da quelle che sono le tue osservazioni, credo che il primo legame sia proprio quella scrittura interna che forma il lavoro: la distruzione (più che il disastro) come azione che narra e produce un risultato, un residuo o un agglomerato di questi, che è e che si propone come opera. I lavori recenti, come quelli precedenti, si formano infatti tramite processi spesso molto lunghi durante i quali il principale obbiettivo è quello di alterare, modificare e spesso distruggere delle forme attraverso delle azioni portate all’estremo. In
La terra bassa queste azioni si concentravano principalmente intorno all’idea di scolpire e modellare, fino ad arrivare a modificare completamente l’aspetto esteriore dell’oggetto su cui agivo. In
ground-ground il lavoro si è liberato di tante regole ed imposizioni che tendevo a darmi all’inizio della mia esperienza, eppure il germe del lavoro è lo stesso: esasperare delle azioni che il lavoro mi porta a compiere sulle cose, spellarle fino all’osso nella ricerca della comprensione di questa superficie visibile delle cose, sovrapporre numerosi strati di epidermidi di sculture fino a farle arrivare ad essere un corpo. Tracciare proprio da questi gesti una stratificazione che attraversi le cose e la materia: un’indagine ma allo stesso tempo una ricerca istintiva che si sviluppa intorno alla materia contemporanea: un agglomerato, un ibrido di cui è difficile comprendere la vera origine.
Giulia Cenci, Aprile 5007, 2017, clay, epoxy resin, marble dust, sand, fragments of mechanical components, black bones, metal bar, cm 177 x 60 x 23
Questa scrittura, che è un fare vero e proprio, rientra per me nell’idea che ogni cosa formata implichi una cosa distrutta. Un volume modellato ha modificato, eroso, sottratto materia alla cava. Oggi però si pone un problema più complesso: la convivenza tra la cava come entità precedente a noi, come riserva di materia, e la realtà costituita dall’uomo. L’impurezza dei materiali che utilizziamo, l’impossibilità di comprendere l’origine della materia come
prima, e l’impossibilità di definire naturale e artificiale. Partiamo a lavorare operando su qualcosa che è già fortemente connotato dall’azione dell’uomo, per questo credo che si possa operare sulle cose e sulla materia (pura) allo stesso modo. Questo forse porta al suo interno il sapore di
disastro, ma forse è prima di tutto la nostra percezione di come stanno le cose: io non dichiaro nessun disastro ma lavoro con gli elementi che la realtà mi mette a disposizione, senza tentare di ripulire troppo le sorgenti del lavoro da un loro eventuale contorno, e riconducendo delle materie sintetiche con gli elementi grezzi da cui derivano.
Giulia Cenci, k055, 2017, fragments of mechanical components, rubber, vulcanic ash, clay, metal bar, cm 30 x 35 x 40
SC - Appare immediatamente chiaro, a chiunque visiti la mostra che, nonostante il frammento e la maceria, sembrino alla base della tua operazione, non siamo in realtà posti di fronte a meri resti di un evento traumatico, sia pur sistemati e ad arte nel contesto di un’installazione: ad essere costruita, in questo caso, infatti, non è solo la dislocazione spaziale di macerie ‘prelevate’ e ricontestualizzate ma la loro stessa genesi/realizzazione… Al di là della prima fuggevole impressione, infatti, a guardarli bene, i tuoi ‘frammenti’ non sono affatto frammenti nel senso letterale del termine… non sono resti di qualcosa che li preceda ma, per così dire, resti di nulla, appaiono, per utilizzare -fuori contesto ma facendola risuonare nella sua paradossale letteralità- un’espressione di Freud, “rovine intatte”, frammenti costruiti, realizzati ex novo e, dunque, a rigore, non-frammenti. Materia scultorea che si percepisce come maceria, senza esserlo veramente. Più che resti di qualcosa che li preceda appaiono paradossalmente come annunci, annunciazioni di qualcosa di indecidibile, sorta di rizomi interrotti, risultato -come recita il comunicato della mostra- di una costruzione metamorfica “di una ricerca che ha accuratamente ibridato e modificato oggetti e materie di tipo organico, sintetico, industriale, fino ad ottenere caratteristiche incerte, complesse ed in cui le sorgenti e le risorse che costituiscono il lavoro vengono trattate incondizionatamente dalla loro natura e dal loro valore”.
GC - Certamente, e questo credo sia dovuto anche dal fatto che non mi interessa lavorare sulla maceria: l’oggetto interrotto, la scultura interrotta, che si riprende in un'altra parte dello spazio con un altro oggetto interrotto: queste non sono affatto rovine, sono un paesaggio a pezzi che singhiozza ma continua. Sono un Insieme attraversabile e, credo, nemmeno così incomprensibile e surreale, poiché per me è il risultato del modo in cui la materia, le cose ed i corpi assumono o meno fisicità nello spazio. La mostra non è un immagine statica, o forse lo è fino al momento in cui non la si attraversa per annegare nella vasta installazione in cui la materia e le parti di cose si palesano a tratti. Nella mia idea il nostro corpo deve essere immerso in questo paesaggio come potrebbe esserlo in una folta foresta, come immagino che l’energia, le molecole e gli atomi attraversino la densità invisibile che ci sta intorno. Non si tratta di resti, si tratta di un modo di indagare i tempi nei quali siamo stati e saremo… siamo. Se ci sono dei resti, questi sono molto più potenziali che resti intoccabili, sono parti di materia sulla quale poter ancora agire.
Giulia Cenci, ground - ground, 2017, exhibition view, SpazioA, Pistoia
SC - Ho ipotizzato prima che Almost invisible potesse risuonare come remota origine dell’attuale operazione ma, in quel caso, diversamente da oggi, il processo di trasformazione / metamorfosi dell’oggetto, prendeva le mosse da un dato reale e da una forma data (quella appunto dell’oggetto di partenza) contemporaneamente conservata e trasformata, mentre oggi se alla base delle tue sculture c’è un elemento prelevato dalla realtà questo appare percepibile solo allo stato di mero materiale, un frammento di cui è impossibile ricostruire anche mentalmente la forma: i parziali elementi organici, elettrici, meccanici, individuabili all’interno delle attuali sculture proliferano ma non rimandano mai, almeno singolarmente, a una figura data a un’immagine preesistente…
GC - Negli ultimi due anni ho lavorato molto perché ogni pezzo potesse essere un frammento di realtà ancora in potenziale divenire: mi sono resa conto che mantenere la forma delle cose mi legava troppo al passato stesso della cosa. Oggi per me è fondamentale vedere il risultato come un agglomerato in movimento: cosa o materia così come resto o elemento e sorgente per il prossimo lavoro. Le opere della serie
Almost Invisible che per sono molto importanti, mi hanno fatto arrivare fino a qui, e questo è nato soprattutto dalle riflessioni sui disavanzi di materia che accumulavo nello studio dopo aver scolpito gli oggetti in plastica. Ecco, ad un certo punto per me è diventato importante trovare un posto a tutte le cose: il resto della sedia scolpita non doveva essere più resto, ma parte complementare dello stesso passaggio (l’unico installativo) all’interno del quale ogni parte di cosa riappare, anche se in una forma nuova. Ed in fondo è ciò che succede anche alla maceria se la osserviamo nella sua trasformazione in materia.
Giulia Cenci, Nero d’osso, 2017, urethan foam, rubber, black bones, metal bar cm 30 x 120 x 83
SC - A base della tua attuale ricerca sembra di intuire una sorta di “bricolage intellettuale”. Caratteristica del bricolage e quella di investire in un nuovo insieme, residui di strutture preesistenti, nessuno dei quali, nel riutilizzo, giunge però a ritrovare la sua funzione originaria. Il bricoleur crea nuovi insiemi invertendo i fini e i mezzi: nella sua pratica spesso i significati si mutano in significanti e viceversa. Questo incessante movimento, questo perpetuo rovesciamento del segno mi pare alla base anche del tuo lavoro ma, nel tuo caso, i frammenti (di rami, di ossa, di fili elettrici, di cemento ecc.) paiono rifuggire ostinatamente qualsiasi sintesi che potrebbe condurre ad una nuova forma o a una nuova significazione. Sembra che la duplice strategia incorporata nel tuo lavoro (de-costruzione ma anche e allo stesso tempo de-territorializzazione e ri-territorializzazione) sia presa in una deriva in cui il senso sembra non volersi ricomporre -ammesso che tu ritenga si ricomponga- se non all’interno dello straordinario disegno dell’installazione generale che, appunto, però non può leggersi che come una sorta di scrittura del disastro… L’idea di disastro mi pare, dunque, sia assunta in mostra, più che per rimandare ad eventi traumatici (naturali o artificiali), per tematizzare una radicale decostruzione della tradizionale nozione di forma dell’opera contemporanea… che, dunque, l’accento cada più sul termine scrittura che sul termine disastro.
GC - Si, sono pienamente d’accordo. Nel lavoro il disastro non è semplicemente l’evento tragico: anzi forse attualmente non lo è in nessun modo. Quello che tu chiami e vedi come disastro per me è una condizione ed uno sforzo a cui noi e le cose siamo sottomessi, ma al quale prendiamo altrettanto parte diventando giocatori e formatori così come distruttori attivi. Il disastro per me non è l’evento eccezionale che sconvolge il tutto, ma piuttosto una condizione microscopica a cui tutte le cose sono sottoposte. A volte si palesa di più ed a volte di meno, ma è importante portare questa sorta di costante brulichio, movimento, all’interno di ogni singolo lavoro. Non si tratta della descrizione o della riformulazione del disastro ma piuttosto di osservare come alcuni eventi ed azioni che generano il disastro siano potenziali forme di scrittura e creazione.
Giulia Cenci, ground - ground, 2017, exhibition view, SpazioA, Pistoia