Dov’è il mio ordine di cavalieri?
Dove sono i miei Don Chisciotte?
Dov’è la mia associazione di anime erranti?
Jan Fabre, La storia delle lacrime, 20051
Negli ultimi anni alcuni tra i maggiori artisti contemporanei si sono cimentati con gli spazi di Forte di Belvedere, Palazzo Vecchio e Palazzo Medici-Riccardi, con Piazza della Signoria e Piazza Santa Croce, perfino con la Limonaia Grande del Giardino di Boboli in Palazzo Pitti, spazi magnifici della Firenze repubblicana e medicea: tra questi Zhang Huan, Giuseppe Penone, Antony Gormley, Jeff Koons, Mimmo Paladino, Domenico Bianchi, Remo Salvadori e Marco Bagnoli. Senza contare che già nel 2003 i bastioni della Fortezza di San Giorgio avevano ospitato installazioni di Mario Merz e Nancy Rubins, di Giulio Paolini e Maurizio Nannucci, di Anish Kapoor e Tony Cragg, di Marisa Merz e del più giovane Massimo Bartolini.
Si tratta di un percorso di aggiornamento intensivo sul contemporaneo in una città come Firenze così ricca di storia e di capolavori antichi da essere quasi impenetrabile all’arte del nostro tempo. Insistendo su questi luoghi si è perimetrato quello che a oggi può essere considerato il “centro” d’arte contemporanea di Firenze, la cui estensione e densità storico-artistica lo rendono unico al mondo. Le sale di questo “centro” d’arte si aprono il più delle volte a cielo aperto, sono patrimonio mondiale, integrano vita quotidiana e turismo culturale, esperienze diacroniche, un alternarsi stordente di atti contemplativi e pratiche mondane, di meraviglia e distrazione, di appagamento ludico e godimento estetico. Alcune considerazioni sorgono immediate: tali operazioni hanno sempre assunto un carattere monumentale, se non spettacolare, dato che il “rumore” del passato è sempre parso sovrastare con i suoi suoni perfetti e con le sue armonie ineguagliabili ogni segno o gesto contemporaneo. Eppure proprio questa densità del passato così magnetica e sovrabbondante si è aperta lasciando spazio alla dialettica, e tanto il pensiero quanto la sensibilità generale ne hanno potuto trarre benefici. Ad esempio, quel Rinascimento, tanto idealizzato quanto fossilizzato nella sua immagine di epoca incommensurabile, è apparso poi un Rinascimento in progress, ancora tutto da comprendere e da riprogettare: un Rinascimento incompiuto, i cui dati sono ancora oggi da verificare e aggiornare in un’epoca in cui Umanesimo e dis-Umanesimo si oppongono anche drammaticamente. Il richiamo alla bellezza materiale e spiritualizzata, alle qualità creative del singolo individuo, alla rinascita dell’antico paganesimo e della filosofia platonica, alla forza sempre attuale e globale dei simboli e dei miti, rende inscindibile il legame tra artisti di oggi e di ieri, tra Firenze e il mondo. Queste diverse e mutevoli suggestioni hanno assunto via via nuovi significati e nuove imprevedibili forme nelle mani dei grandi artisti che ridefiniscono costantemente limiti e orizzonti culturali superando pregiudizi e moralismi, demolendo ideologie e stereotipi, elaborando nuovi Rinascimenti e nuovo Umanesimo. Sta agli artisti prendere in carico la storia dell’arte intera e ri-plasmarla secondo percezioni ed esperienze, invenzioni
e comportamenti esemplari che originano il nuovo e rigenerano il passato.
La presenza dialettica dell’artista contemporaneo in Firenze, centro della civiltà filosofica e artistica occidentale, è, dunque, quanto di più necessario e urgente, anche per la dimensione universale che tale confronto può manifestare perché qui tra Piazza della Signoria e Forte di Belvedere, Palazzo Medici-Riccardi e Palazzo Vecchio, storia, arte, politica, spiritualità e creatività hanno strutturato integralmente la realtà urbana nelle forme di una teatralizzazione o spettacolarizzazione dello spazio architettonico, con le sue iconografie a servizio dell’auto-contemplazione del potere repubblicano o autocratico. Esporre un’opera d’arte contemporanea in una piazza o in un palazzo fiorentino provoca necessariamente una collisione tra valori e paradigmi, tra codici e generi. Alcuni sono ampiamente storicizzati e perfino idealizzati, altri possono apparire obsoleti o desueti. L’invito rivolto quest’anno a Jan Fabre tiene conto della storia espositiva recente, di quel percorso di arte contemporanea qui evocato, ovvero di quella politica culturale che vuole assegnare a Firenze un ruolo peculiare nel panorama del più complesso e articolato sistema dell’arte contemporanea, dove esposizioni e installazioni site-specific si moltiplicano globalmente di anno in anno.
Il progetto concepito da Jan Fabre insieme alle curatrici Joanna De Vos e Melania Rossi si è immaginato già in partenza esteso alla scena del Principe: da Piazza della Signoria a Palazzo Vecchio per ascendere a Forte di Belvedere e comprendere idealmente anche il Corridoio Vasariano, dove dal 2012 si trovano conservati due autoritratti dell’artista fiammingo, appartenenti alla serie Capitoli (2010). Il titolo, “Spiritual Guards”, sposta la nostra attenzione sul ruolo dell’artista e dell’arte nella nostra epoca, che è quella di una società secolarizzata e materialista. Fabre vive l’arte come forma di difesa e di salvaguardia di quanto vi è di più originario nella vita umana in una doppia dimensione antropologica e metafisica, etica ed estetica, e lo fa interrogando i miti e la storia, i simboli e le leggende delle più diverse civiltà ed epoche nei linguaggi del disegno e della scrittura, del teatro, della performance e della scultura, nei film
e nelle installazioni. Ha tuttavia uno speciale rapporto con la natura e con la vita animale, con gli elementi (aria, terra, fuoco, acqua) e in particolare con gli insetti, da cui trae fonte di ispirazione per creare il suo personale mondo immaginifico.
Come nel caso degli scarabei, esseri sacri, posizionati sui bastioni del Forte che impressionano e perturbano il pubblico di visitatori-spettatori e che allegoricamente sottendono temi come quello dell’immortalità, del potere dell’immaginazione, del continuo transitare dall’inconscio al conscio, dal tragico al comico, dal mondo iperuranio al mondo ctonio.
Le settanta e più opere presentate a Firenze, vengono a comporre un unicum allegorico e narrativo incentrato sulla figura del cavaliere, uno dei temi cardine dell’intera produzione dell’artista.
Io sono il cavaliere della disperazione […]
Io sono un’anima
errante
con una voce medievale
che grida nel deserto
del Rinascimento
e aspetta il sale
della nostra acqua corporea
Jan Fabre, La storia delle lacrime, 20052
Fabre è il cavaliere solare – le sue armature e i suoi carapaci scintillano sui bastioni del Forte di Belvedere e in Piazza della Signoria – che lotta tragicamente contro quelle forze o idee che si oppongono alla bellezza e alla spiritualità, e che vuole risorgere trasfigurato e trasformato in quell’epico scontro. Come in moltissimi lavori teatrali e nel lavoro scultoreo – ad esempio nel film Lancelot (2004) e nella performance realizzata in Piazza della Signoria la notte fra il 22 e il 23 aprile 2016 – Jan Fabre mette al centro il corpo dell’artista, quindi la sua eroica missione, che è il dramma della bellezza al di là del bene e del male, e la vulnerabilità dell’essere umano spinto a superare limiti fisici, psicologici, estetici e morali: “Voglio diventare quello di cui vivo – afferma Fabre – diventando quello che voglio modificandomi, liberandomi di sensazioni ed emozioni ormai note, cercando un corpo nuovo”3. Corpo che “non è altro che un campo di battaglia cavalleresco pieno di gesta magnanime e di disperazione”4. Il tema della metamorfosi, del cambiamento, ricorre in moltissime opere di Fabre, e in molti casi prende l’aspetto di un animale
o quella di un insetto, di un’azione corporea che può anche essere un duello, una battaglia, un rito, una forma di iniziazione e di trasmutazione. Al fine di liberare le infinite potenzialità dell’individuo, Fabre indaga, in questo modo, la natura umana nella sua complessità come essere animale-razionale desideroso di bellezza e d’infinito: ovvero la dimensione della mutazione fisica e spirituale permanente nella natura, nell’arte e nella storia. Esperienza fondativa sia dell’arte sia del teatro, quindi anche tragica perché si scontra necessariamente tanto con l’esperienza di Eros che con quella di Thanatos, che sono anche esperienza del vuoto e del nulla. In tal senso, Fabre
si avvale di un realismo eccessivo, di un’immaginazione surreale, di una raffigurazione espressiva, così come dei miti e dei simboli diurni e notturni, pagani e cristiani, gotici e barocchi, per scatenare una presa in visione anche della vitalità più irrazionale e del “lutto” più ancestrale.
Facendo ricorso a una personale arte della memoria, Jan Fabre ripopola la nostra cultura visiva, letteraria, performativa di allegorie, di un nuovo e potente immaginario che raggiunge il suo obiettivo catartico provocando nello spettatore l’esperienza dionisiaca in arte, come nel teatro
e nella danza.
Da scultore, infatti, gestisce lo spazio espositivo come fosse un palcoscenico sul cui piano rialzato (il basamento ad esempio) ritualizzare combattimenti, sacrifici, metamorfosi, sublimazioni. In tal senso, Forte di Belvedere è la messa in scena di un arroccamento in difesa della bellezza e dell’utopia, dove anche restano sul campo i segni visibili di uno scontro armato. Altrettanto si può dire di Piazza della Signoria, dove come un cavaliere donchisciottesco il calco in bronzo dell’artista “cavalca” un’enorme tartaruga, simbolo cosmologico e lunare, con il suo carapace a forma di cupola, con la quale l’animale protegge un corpo vulnerabile come quello degli scarabei sacri che popolano i bastioni del Forte. Corpo, dunque, dell’artista che esercita la sua arte corazzandosi linguisticamente e formalmente in modo da proteggere una sensibilità che è tanto più eccessiva quanto più è disposta a entrare nel regno dei vivi e dei morti, a superare la distanza tra terra e cielo, a vincere l’angoscia della tenebra, l’orrore della violenza, a forzare limiti fisici e psicologici. La tartaruga – l’unico animale presente sulla terraferma da circa 250 milioni di anni – appare in molti miti della creazione. Con essa si intende rappresentare la stabilità della terra messa in contatto con il potere del cielo. In questo caso Fabre, a cavalcioni del carapace ci ricorda quanto sia necessario il radicamento con la Madre Terra controbilanciato dalla tensione spirituale che ci porta ad alzare gli occhi al cielo, a misurarci con l’infinito. Etimologicamente “tartaruga” potrebbe derivare dal greco tardo tartarôuchos, che significa “abitatore del tartaro”; da qui l’uso simbolico che se ne è fatto per ricordarci i livelli profondi della psiche su cui poggiano quelli superiori. Nella più antica simbologia cristiana la tartaruga rappresentava, addirittura, lo spirito del male.
Le 13 forme più grandi del suo carapace si associano sovente alle 13 lune piene dell’anno, mentre le 28 forme piccole, sul perimetro, sarebbero i 28 giorni secondo il calendario lunare.
In Piazza della Signoria la grande scultura in bronzo lucidato a specchio – intitolata Cercando Utopia (2003) – vuole parlare a tutti i popoli del mondo dialogando con le più diverse tradizioni simboliche, secondo una vocazione sincretica che anima la ricerca artistica di Fabre, grande sperimentatore di simboli e miti, di allegorie e leggende. Dalla Polinesia all’Africa, dal Giappone ai nativi d’America, dalla Cina all’antica Grecia dove la tartaruga viene cavalcata dalla dea Afrodite.
Nella Bhagavad-Gita, il dio Krishna educa il suo discepolo Arjuna dicendogli: “Chi ritira i sensi dagli oggetti dei sensi, come la tartaruga ritira le sue membra nel carapace, è assolutamente saldo nella Saggezza”. Personaggio dell’utopia è pure L’uomo che misura le nuvole (versione americana, 18 anni in più) (1998-2016), collocato sull’Arengario di Palazzo Vecchio, tra i giganti marmorei
del David e dell’Ercole, a pochi metri dalla Giuditta e dal Perseo.
Figure minacciose, brutali nelle loro splendide forme corporee, queste sculture stanno a simboleggiare il doppio volto della democrazia e del sovrano, che punisce e protegge, che arma
la mano dei suoi mercenari e cavalieri contro i nemici interni ed esterni.
Nella lotta con il male quei giganti di marmo e di bronzo incarnavano il giusto, l’eroe, quale strumento di bene. La bellezza si caricava di una funzione esorcistica e persecutoria con finalità positive e taumaturgiche.
In questo senso le opere di Fabre rimettono in funzione la stessa teatralizzazione dei simboli, dei miti e delle allegorie in favore del potere, e riattivano la natura scenica dello spazio monumentale fiorentino. Salvo che in questo caso ad essere celebrata è la forza dell’immaginazione, il potere salvifico della bellezza, l’esperienza vitale e inesauribile del sogno e dell’immaginazione.
L’arte
come spazio di libertà e di incontro tra culture e religioni, tra simboli e allegorie, tra memoria e tradizioni, per liberare la propria e altrui soggettività dalle ideologie e dalle paure, dai pregiudizi e dall’egoismo. Una forma di umanità eroica, erotica, eretica, etica. Un “cavaliere della isperazione”
e un “guardiano della bellezza” che, strisciando faticosamente come un verme, ha lasciato una traccia madreperlacea di sudore e di saliva ai piedi dei giganti di marmo in Piazza della Signoria.
Io sono un testimone
della forza della debolezza
Io erro
perché voglio incontrare
e parlare al cuore degli uomini.
Jan Fabre, La storia delle lacrime, 20055
1. Jan Fabre, La storia delle lacrime, in Jan Fabre, Teatro, Ubulibri, Roma 2010.
2. Ivi.
3. Jan Fabre. Knight of the Night, Bruno Corà (a cura di), Gli Ori, Firenze 2015, p. 9.
4. Jan Fabre, 2010.
5. Ivi.
Jan Fabre. Spiritual guards
Piazza Signoria, Museo di Palazzo Vecchio, Forte di Belvedere.
Firenze 15 aprile – 2 ottobre
Jan Fabre - SlideShow
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