… Nell’idea del “disegno” c’è la singolarità dell’apertura –della formazione,
dello slancio o del gesto– di una forma. Ossia, precisamente, quella in cui
la forma, per formarsi, non deve essere stata già data. Il disegno è la forma
non data, non disponibile, non formata. È dunque, al contrario, il dono,
l’invenzione, il sorgere o la nascita della forma. “Che una forma accada”, questa
è la formula del disegno – e questa formula implica, insieme al desiderio
e all’attesa di una forma, una maniera di rimettersi ad una venuta, a un
sopraggiungere, a una sorpresa che nessuna formalità anteriore avrà potuto né
precedere né, tanto meno, preformare ...
… La linea non è né una cosa inerte, né la proiezione di uno psichismo: è
precisamente il getto, l’impeto o l’impulso di cui la mano –con tutto il corpo
che vi si raccoglie– e una traccia –infimo sedimento di piombo o carbone– si
costituiscono insieme e ciascuno attraverso l’altro –ciascuno carico dell’altro–
come soggetto autonomo in quanto slancio, fuga o corsa, tendenza, vettore,
felicità, grazia, talento, dono o ispirazione, genio: un giorno si dovrà tornare
a queste parole cadute in discredito, non per rendere loro alcun credito, ma
per tornare a ravvivare la questione o l’aporia di ciò che esse sono incapaci
di nominare benché non possano evitare di designarlo. Tra la mano e la
traccia, nello slancio della matita, della penna, della biro o del carboncino, nel
movimento che va dalla mano alla traccia e rifluisce dalla traccia per flettere
ancora la mano, è drenata una pulsione, un’energia raccolta da tutta una
cultura e da tutta una storia, da tutto un pensiero, un’esperienza del mondo
che si condensa nella vibrazione del tratto.
La linea non è una cattiva risorsa per designare come sua origine questo
punto di contatto tra un pensiero e un gesto, tra una sensibilità e un’attività,
questo punto indivisibile e mobile dove nasce una forma e con essa una
maniera – tutta la maneggiabilità e la manipolazione congiunte di una messa
in opera, cioè di una messa in luce di ciò che non era né nascosto, né dato,
ma che si inventa col suo gesto. Poiché la linea è il punto stesso –questo
punto nullo di nascita, questa origine sottratta a sé– in procinto di dividere
lo spazio, disponendolo e dandogli forma, formandolo nell’atto di scavarlo
e impressionarlo, aprendo delle nuove possibilità per altri spaziamenti, cioè
per scarti e prossimità, per aggiramenti e deviazioni, per pieghe, curvature,
partenze e ritorni. La linea –è così che essa ha o piuttosto è un desiderio– non
fa che mobilizzare e tirare in avanti un punto di verità: laddove sembra subito
possibile andare da niente a qualcosa, andare dall’informe delle aderenze e
delle inerenze alla forma dei distacchi e delle distinzioni. La verità, di fatto,
non è altro che distinzione: è così che si manifesta essa stessa, come scrive
Spinoza (Veritas seipsam patefacit). Visuale, sonora, gestuale o tattile, la
delineazione distingue, differenzia e distribuisce, dispone nello stesso tempo
in cui sparisce nel suo proprio movimento.
Questo è ciò che si può chiamare “emozione”: di fatto, vi è qui sentimento e
tatto. Non si tratta tuttavia semplicemente dell’affezione di un soggetto nel
senso psichico o interiore del termine. È piuttosto, al suo fondo, la scossa di una
macchina, la più delicata delle macchine. È l’innesco di processi e circuiti, di
trasmissioni e interruzioni che liberano e propagano la delineazione per il piacere.
Intendiamoci: per il piacere di delineare, ossia per la sola aspirazione a sé, per la
ripetizione nel senso originale (il ridomandare) di ciò che non può che domandarsi
o chiamarsi o tendere verso sé: verso un contorno, una figura, un’identità, o un
senso. Il desiderio della linea –o la linea in quanto desiderio– è di piacere a sé, ma a
questo sé lineare, cioè sempre teso avanti a se stesso e sempre cancellato nella sua
origine, laddove il gesto avrà preceduto il tracciato, laddove tutto un corpo avrà
preceduto il gesto e tutta una potenza –pulsione, pressione– avrà mobilizzato un
corpo. Tutta una spinta: tutto un pensiero, un peso.
Un simile sé lineare è desiderio: né coscienza, né intenzione, neanche
propriamente affezione, ma ripercussione, risonanza singolare di un punto di
verità. È lecito definire questo –ciò che abbiamo chiamato “una macchina”–
“un artista”, o anche “un creatore”, o ancora dire “il suo disegno”, o “la sua
linea”, “il suo stile”, “la sua maniera” o “il suo pensiero”. Ciò che importa è
che la verità vi si trovi come essa deve essere: assolutamente distinta, senza
equivalenza – e forse, per finire, anche senza linguaggio (anche nella poesia),
senza significanza, facendo segno in qualche altro modo, de-signando. Ma è la
verità com’è in se stessa: distinzione, o anche idea – ciò che chiamiamo “forma”
e il cui nome latino implica anche la bellezza (forma, formosa).
Poiché infine, che dire della bellezza? Che essa è lo splendore del vero. Cioè la
scintilla attraverso la quale il vero si manifesta. Non un’aureola o un baluginio
legato a questa manifestazione – questo splendore non deve essere rutilante né
sontuoso, tanto meno se si confonde la profusione con la replezione, perché il
bello non può essere pieno, né soddisfatto, né sazio. Ma il bagliore della cosa
–il vero– che non è che il suo bagliore e il fatto che sfavilli. Ora, c’è un simile
bagliore quando una forma distintamente si leva: questo è un corpo, è la sua
idea, è la sua linea e la sua demarcazione più propria, la sua chiusura e la sua
dischiusura congiunte.
Il bello è il disegno del vero: il suo desiderio di scintillare. Questo desiderio
si libera e fa linea – contorno, melodia, danza o frase, racconto o recitazione,
montaggio o tavolozza, volume, grana, cornice o cadenza, è sempre linea che
desidera e desiderio di godersi la sua verità.
Poiché il bello è la scintilla del vero, ne è così il carattere desiderabile e per
questa ragione esso comunica col bene, se anche non si confonde con esso.
Secondo la Scuola antica, il vero, il bello, il bene si convertono l’uno nell’altro.
Ciò significava che nulla v’è di desiderabile che non si rapporti a sé secondo
la sua verità, e non sia dunque più propriamente ciò che deve essere. Ma
se il “proprio” è ciò che deve essere, allora non è mai dato, mai compiuto –
mai abbastanza fatto, soddisfatto. Il proprio, la proprietà del proprio non è
appropriabile; non è dell’essere, è un “da essere” [à être] (ciò che si può anche
trascrivere in questi termini: l’“essere” non è uno stato, ma una transitività,
l’atto di inviarsi verso sé). Non c’è alcun “abbastanza” per nessuna proprietà,
e la sua verità, che è la sua manifestazione, deve sempre tornare a mostrarsi
incompibile – trasformazione infinita, aperta in ogni forma, per ogni forma
bella: la bellezza è nel rapporto all’infinito. Essa espone il rapporto infinito di
una forma finita.
L’incompibile, qui, non è tale in ragione di una mancanza [défaut]. Esso, al
contrario, dà la misura di una perfezione che bisogna intendere non come
completezza, ma come un oltrepassamento di ogni “fare” [faire]: “perfetto”
[parfait] diventa qui ciò che eccede il “fare”, la fabbricazione, la produzione
o la generazione. Un tale “fare” non è senza agganci con un “disfare” [défaire]
– proprio come l’opera, secondo Blanchot, trova la propria verità nella sua
stessa inoperosità. Ma questo disfare non sopraggiunge al fare né al fatto o al
“perfetto” come un evento o un accidente secondo. Il disfare è presente nel
cominciamento del fare: lo ha già diviso da se stesso e separato dal suo scopo
“perfezionista”. È pertanto una perfezione che desidera l’opera –o l’artista, o
la “linea”–, ma una perfezione che deve trattenere in sé la potenza (attiva o
passiva) di una disponibilità all’infinito.
È per questo che non bisogna mai chiedersi come l’etica e l’estetica possano
congiungersi o debbano al contrario essere disgiunte: l’estetico –se vogliamo
dargli questo nome– è per se stesso l’etico in quanto si dà come regola suprema
quella di non tener nulla per soddisfacente e di commisurare il suo piacere
al desiderio di non contentarsi. Perché la rovina dell’etica è sempre nella
fissazione di un bene al quale ci si potrebbe arrestare, invece di pensare con
Platone che il Bene si trova al di là dell’essente, o con Kant che esso esige
la libertà come potere di cominciare da capo, e di conseguenza che la sua
Idea è la Forma al di là di tutte le forme, o il disegno il cui tratto supera ogni
contorno.
* Il presente testo è tratto dal catalogo della mostra - Ripensare il medium:
il fantasma del disegno - a cura di Saretto Cincinelli e Cristiana Collu, e rappresenta un’anticipazione dell’edizione italiana di Le plaisir au dessin, Galilée, 2009, a cura di Massimo Vitali, di prossima pubblicazione presso le edizioni Mimesis, Milano. L'estratto si riferisce alle pp. 11 e 125-129 dell’edizione francese.
Casa Masaccio Centro per l'Arte Contemporanea
Ripensare il medium: il fantasma del disegno
San Giovanni Valdarno
17.10.2015 - 15.11.2015
@ 2016 Artext