Jeff Koons
Shine
a cura di Arturo Galansino, Joachim Pissarro
Dal 2 ottobre 2021 Palazzo Strozzi ospita una nuova grande mostra dedicata a Jeff Koons, una delle figure più
importanti e discusse dell’arte contemporanea a livello globale. A cura di Arturo Galansino e Joachim
Pissarro, la mostra porta a Firenze una selezione delle più celebri opere di un artista che, dalla metà degli
anni Settanta a oggi, ha rivoluzionato il sistema dell’arte internazionale.
Sviluppata in stretto dialogo con l'artista, la mostra
Jeff Koons. Shine ospita prestiti provenienti dalle più
importanti collezioni e dai maggiori musei internazionali, proponendo come originale chiave di lettura
dell’arte di Koons il concetto di
shine (lucentezza) inteso come gioco di ambiguità tra splendore e bagliore,
essere e apparire.
Autore di lavori entrati nell’immaginario collettivo grazie alla capacità di unire cultura alta e popolare, dai
raffinati riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo del consumismo, Koons trova nell’idea di
shine (lucentezza) un principio chiave delle sue innovative sculture e installazioni che mirano a mettere in
discussione il nostro rapporto con la realtà ma anche il concetto stesso di opera d’arte. Per Koons il significato
del termine
shine è qualcosa che va oltre una mera idea di decorazione o abbellimento e diviene elemento
intrinseco della sua arte. Dotate di una proprietà riflettente, le sue opere accrescono la nostra percezione
metafisica del tempo e dello spazio, della superficie e della profondità, della materialità e dell'immateriale.
Le opere dell’artista americano pongono lo spettatore davanti a uno specchio in cui riflettersi e lo collocano
al centro dell’ambiente che lo circonda. Come afferma lo stesso Koons: «
Il lavoro dell'artista consiste in un
gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o
un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l'arte»
Ritratto Jeff Koons, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
TRA SHINE E SCHEIN di Joachim Pissarro
Joachim Pissarro
Cominciamo dalla storia di Shine, facendo una breve distinzione tra shine e Schein. In tedesco, Schein riguarda
l’apparenza, o ciò che percepiamo o rileviamo con i sensi. In inglese, to shine indica di solito “diffondere luce,
essere raggiante, splendente, illuminare, essere ben visibile”, tutti termini che riguardano direttamente
l’effetto visivo della luce. Mi sembra interessante notare come entrambe queste parole, in inglese e in
tedesco, derivino dalla stessa radice sassone antica e, in un certo senso, la distinzione tra shine e Schein
occupa una posizione importante in tutta la storia della filosofia, da Platone a Nietzsche. Il dibattito filosofico
a proposito di Schein riguarda due sole cose: l’apparenza a confronto con la realtà. Un po’ come dire: «Oh,
sembra un ragazzo a posto», anche se in realtà non lo è. Da Platone ad Aristotele, per arrivare fino a Kant,
l’apparenza viene minimizzata in quanto intesa come fonte di falsità. In questo caso, quando parliamo di
inganni o bugie, intendiamo l’incapacità di comprendere la verità metafisica o trascendente delle persone
reali e come esse siano nella loro essenza. E così l’“estetica”, che deriva dal greco aisthētikos, significa che
«io sento, percepisco: vedo questa bottiglia, gusto questo caffè». Tutto ruota intorno ai sensi, e i sensi sono
il fondamento dello Schein, dell’apparenza, ma non della verità. In filosofia, la verità poteva essere solo
intellettuale, teorica, filosofica, fino a quando Kant ha spiegato che noi non siamo angeli o esseri fatto di puro
intelletto, ma persone sensibili.
Jeff Koons
Ma una religione non affronterebbe il problema in maniera diversa? Anche se, sotto molti aspetti, la
religione ottunde i nostri sensi, in questo caso credo che li abbracci in una luce trascendentale.
Jeff Koons, Shine (2021), Vista della mostra, Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
Joachim Pissarro
Sì, hai ragione, i sensi sono decisamente orientati contro la religione, la metafisica, e l’idea che esistano un
essere supremo o una suprema verità. Kant, tuttavia, non nega la fede in una verità più alta, ma si limita a
spiegare che siamo fatti di carne e ossa e che, eliminando quelle – il nostro Schein, le nostre apparenze, le
nostre sensazioni –, noi non siamo niente! Quindi dovremmo rinunciare a lottare contro i sensi e renderci
conto che, senza di essi, non possiamo fare niente. Possiamo costruire sistemi – molto teorici, scientifici,
metafisici – solo se facciamo ricorso ai buoni, vecchi sensi. Dunque lo Schein non solo è insostituibile, ma è
anche la pietra angolare della filosofia kantiana. Da Kant in poi, i filosofi (in particolare Schiller e Nietzsche)
hanno cominciato ad accettare il fatto che le apparenze non sono qualcosa di brutto o debole, dato che noi
non siamo Dio, non siamo divini. Certo, esiste la tesi che noi siamo creature divine, ma siamo
indiscutibilmente finiti. Non possiamo sfuggire alla certezza che siamo nati su questa Terra per morire… è un
dato di fatto. Tu e io moriremo. Noi siamo definiti e limitati dal tempo e dallo spazio. La cosa affascinante del
tuo lavoro è che vi si scontrano la dialettica dello shine/Schein e la spiritualità: lo Schein, o apparenza, è unito
alla nozione di trascendenza. Quindi, in un certo senso, crea un paradosso. Tu usi spesso la parola
“trascendenza”. È come portarci in ascensore dal piano terra al 110° piano. C’è un senso di elevazione,
persino di esultanza, perché comunica una sensazione di gioia. Cominci dalle apparenze e ci elevi da lì,
insieme a te. E credo che il percorso che ci inviti a seguire sia davvero affascinante. Ecco, io riassumerei così
ciò che fai. Sei d’accordo?
Jeff Koons
Sì, credo che tu abbia capito. [ride] A questo punto, serve davvero l’intervista?
Se ripenso a quando ho iniziato a fare arte e a realizzare oggetti e immagini diverse, completare un lavoro o
portarlo allo stadio finale significava coordinare informazioni per raggiungere un certo stato di ricercatezza.
Poi mi sono reso conto che non mi soddisfaceva limitarmi a creare qualcosa di raffinato. Quando ho
cominciato a lavorare alle opere gonfiabili e ai ready-made, acquistavo specchi quadrati e li collocavo fianco
a fianco sul pavimento in configurazioni diverse. A volte ne usavo quattro: due sul pavimento e due
appoggiati alla parete. Poi mettevo di fronte agli specchi qualche fiore gonfiabile e mi accorgevo che non solo
era astratto, raffinato e preciso nella descrizione, ma anche etereo e sconfinato. C’era il senso di una
diffrazione del tempo guardando prima il gonfiabile, poi il suo riflesso nello specchio. Tra i due c’era una
differenza di tempo e di risposta sensoriale.
Jeff Koons, Shine (2021), Vista della mostra, Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
Joachim Pissarro
Lo trovo molto interessante. Potresti spiegarlo in termini più semplici? In che modo percepivi questo
differenziale di tempo o diffrazione tra la realtà dei fiori gonfiabili e il loro riflesso?
Jeff Koons
In tempo reale, il riflesso sembrava muoversi un po’ più lentamente dell’oggetto e, non so in che modo,
acuiva la consapevolezza del tempo, quindi diventava una sorta di iper-situazione. So che, dopo aver creato
una delle prime opere di questo tipo – il mio –, ho dovuto andare a bere un paio di birre per tornare a terra
dopo quell’esperienza aumentata. Mi sembrava molto carica e ho avuto la sensazione che il mio lavoro fosse
passato a un livello diverso: l’intensità dei colori e l’esperienza erano ancora fresche. E devi sapere che,
persino oggi, mi occupo del tempo. Sono passato da quei gonfiabili a The New, dove esponevo oggetti perché
erano nuovi. Quelle opere affrontavano il tempo come un confronto tra la nostra biologia e la Gestalt di un
oggetto che è meglio preparato per sopravvivere quanto a durevolezza. E, nella serie Equilibrium, le vasche
sono una sorta di rappresentazione metafisica della fase che precede la nascita e anche del momento della
morte. Il tempo ha un ruolo che arriva fino al momento attuale nei miei dipinti con le gazing ball. Queste
sono collocate nel presente, ma le immagini ti fanno tornare nel passato. Puoi comprendere gli interessi degli
artisti che hanno creato quelle immagini, capire i loro riferimenti – che potrebbero venire da un periodo
diverso – pensando al contempo al futuro.
Ritratto Jeff Koons, Arturo Galansino, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
Approfondimenti
Opere della Mostra nelle Parole di Jeff Koons
«Con The Rabbit (1986) ho voluto realizzare un’opera che fosse visivamente intossicante e generosa. Perché
l’arte è condivisione, accettazione della propria storia – qualsiasi sia il tuo passato, è perfetto! – ed “equilibrio
sociale”».
«Guardate Rabbit. Ha una carota in bocca. Che cos’è? È uno che si masturba? È un politico che fa un
proclama? È il coniglietto di Playboy? … Sono tutti loro».
«Penso che il coniglietto funzioni perché si comporta esattamente come volevo. È un materiale lucido molto
seducente e lo spettatore lo guarda e si sente per il momento sicuro, a livello economico. È molto simile alle
foglie d’oro e d’argento nelle chiese durante il periodo Barocco e Rococò. Il coniglietto funziona allo stesso
modo. E ha un aspetto lunare, perché riflette. Non è interessato a te, anche se allo stesso tempo lo è».
«La mia arte ha sempre usato il sesso come canale comunicativo diretto con lo spettatore. La superficie dei
miei pezzi in acciaio inossidabile è puro sesso, e conferisce a un oggetto un aspetto sia maschile sia femminile:
il peso dell’acciaio si lega alla femminilità della superficie riflettente».
«Uso spesso superfici riflettenti nel mio lavoro, e ho iniziato a lavorare con l’acciaio lucido nel 1986. La
lucidatura conferisce al metallo una superficie sì desiderabile, ma che dà anche conferme allo spettatore.
Questa è anche la parte sessuale: si tratta di dar conferme allo spettatore, dicendogli: “Tu esisti!”. Quando ti
muovi, si muove. Il riflesso cambia. Se non ti muovi non succede niente. Tutto dipende da te, lo spettatore».
«Ho scelto l’acciaio inossidabile di alta qualità come materiale per il senso di sicurezza che promana […].
Anche solo la lucidatura sottolinea quella sicurezza, un po’ come fanno le pentole con cui mamma cucinava,
anch’esse d’acciaio. Negli acciai di alta qualità c’è un legame diretto con le reliquie religiose, anch’esse
lucidate. Richiamano spiritualmente chi li guarda, e lo pervadono di fiducia».
Jeff Koons, Shine (2021), Vista della mostra, Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
«Per la serie Celebration ho voluto creare degli oggetti che avessero una qualità mitica. […] [Balloon Dog è]
una immagine archetipica, che ha origine in un profondo vocabolario universale».
«Balloon Dog […] è un pezzo molto ottimista, è un palloncino che un pagliaccio potrebbe annodare per te a
una festa di compleanno. Ma allo stesso tempo è un cavallo di Troia. Qui dentro ci sono dentro altre cose:
forse la sessualità del pezzo».
«… il brillare e risplendere a specchio della superficie della scultura manifesta, da un lato, l’ideale dell’idea di
trasmettere entusiasmo, spensieratezza e leggerezza e, dall’altro, il reale senso latente al suo interno, cioè
la sua non consumabilità».
«Sono davvero molto, molto orgoglioso di come [in Lobster] si affronti il tema del maschile/femminile e di
come venga comunicato. Riguarda l’urgenza di comunicare, non solo con un pubblico maschile e non solo
con un pubblico femminile. Quindi ha aspetti femminili e aspetti maschili: i tentacoli potrebbero essere baffi,
la coda è molto femminile, come una conchiglia della Venere di Botticelli, ma allo stesso tempo il suo corpo
potrebbe ricordare una forma fallica».
«I giochi per piscina sono gonfiabili, proprio come le persone. I gonfiabili sono davvero metafore della vita
che prosegue».
Jeff Koons, Lobster 2007-2012, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
«Mi è sempre piaciuto guardare le fioriere in ceramica e le ho sempre trovate così belle; la loro lucentezza,
il loro foro per la pianta, e mi sono sempre piaciute. Bluebird Planter rappresenta un semplice oggetto. C’è
un senso di nostalgia a esso associato. Posso pensare a mia nonna, mia zia, mio zio… la sensazione di stupore
e meraviglia, guardare le cose e godersele per quello che sono e cosa possono rappresentare per te sia nel
momento presente sia nella memoria. Perché non c’è gerarchia […] puoi semplicemente guardare una
fioriera e amare l’idea che qualcosa di così fragile come la vita di una pianta possa essere curato, nutrito e
annaffiato».
«Quando ero piccolo, le persone mettevano come ornamento da giardino delle sfere decorative [gazing
balls]. E quando passavi a piedi o in macchina, c’era un senso di generosità, la sensazione che lo avessero
fatto per te. […]. Sono sempre stato attratto da quell’aspetto della generosità, dal fatto che la sfera sarebbe
stata lì in un cortile. Ho sempre voluto lavorare con una di queste sfere ornamentali perché le trovo una
delle forme più semplici e pure su cui operare. Solo questa sfera. Ci ho pensato per trent’anni prima di
procedere».
«Ciascuna è soffiata a mano. Ancora una volta, [il globo] è fatto di respiro, quindi è una bolla di respiro
umano».
«Tutto ciò che riflette ha una sorta di trascendenza spirituale perché coinvolge lo spettatore. Riconosce la
tua presenza. Ogni volta che ti muovi, il riflesso cambia; ti riconosce sempre».
Gazing Ball (Apollo Lykeios) 2013 gesso e vetro; cm 239,4 x 94,3 x 87,6 Collezione dell’artista. Photo Tom Powel Imaging
Il Pantheon di Jeff Koons
Sono infinite le immagini e i rimandi appartenenti alla storia dell’arte rinascimentale, moderna e
contemporanea, che si stagliano come riferimenti visivi, diretti o indiretti, all’interno del denso immaginario
koonsiano, e molti gli artisti che sono stati per lui fondamentali.
«Penso che la storia dell'arte sia percorsa da un sottile filo che tiene insieme le varie epoche. Ogni artista
prende un pezzettino di quello che hanno fatto quelli prima di lui, e va avanti».
Jeff Koons
Masaccio
«Quando vidi il dipinto di Masaccio La cacciata dal Paradiso terrestre decisi di produrre un corpus di lavori
sulla sessualità che potesse aiutare le persone a rimuovere quel senso di colpa e di vergogna».
Leonardo
«Gli artisti che preferisco sono Leonardo e Michelangelo».
«Nel corso degli anni ho inserito elementi della Gioconda in svariate mie opere».
Michelangelo
«Quando ho prodotto Michael Jackson e Bubbles ho pensato alla scultura del Rinascimento, e non più alla
scultura dell’antichità classica. Michael Jackson e Bubbles ha una struttura a forma di triangolo, come nella
Pietà di Michelangelo. Fa anche riferimento alla scultura egiziana – un po’ come Re Tut, ed il modo in cui le
gambe sollevate creano una piramide, ed il corpo forma un’altra piramide. Ma è soprattutto un riferimento
alla scultura del Rinascimento».
Jeff Koons, Shine (2021), Vista della mostra, Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
Bernini
«Se penso a Canova, sento che ogni cosa è così controllata e che l’opera può svilupparsi in una sola
direzione. Se penso invece a Bernini, è così potente, così ricco, così appassionato… [e la sua arte] e così
perfetta. Guarda il petto del cane [Cerbero] nel Ratto di Proserpina. È così leggermente affinato, se si
guardano i colpi di scalpello. Anche se il flusso del pelo del cane è modellato in una direzione, la testa del
cane si muove in una differente direzione, come non potrebbe mai succedere in un cane vero e proprio, e
tuttavia la combinazione funziona. È perfetto, e quel senso di libertà è necessario».
Poussin
«[Mi piace] moltissimo Poussin».
Manet
«Ricordo quando vidi per la prima volta Manet! Dopo non ero più lo stesso. Io credo che il confronto con le
opere d’arte cambi il nostro DNA. Da quando ho visto Manet io sono un’altra persona e così è successo con
tante altre opere d’arte, da Velázquez a Goya».
Il Novecento
«Quando lavoravo al MoMA ho visto molta arte del Novecento… Rosenquist. E poi Andy Warhol, Piero
Manzoni, e Marcel Duchamp».
Jeff Koons, Dolphin, 2002 The Sonnabend Collection Foundation/. © Jeff Koons
Duchamp
«Da bambino andavo al Philadelphia Museum of Art con mia zia ogni volta che la visitavamo… quindi
probabilmente ho visto i musei con il lavoro di Duchamp quando ero piuttosto piccolo, all'età di sette anni,
direi».
«Sono profondamente in debito con Marcel Duchamp».
«Il mio processo di allontanamento dall’arte soggettiva è continuato fino alla fine degli anni Settanta, con
l’approfondimento di Marcel Duchamp. Lui mi sembrava l’esatto contrario dell’arte soggettiva in cui ero
immerso. Era l’affermazione più oggettiva possibile, il ready-made».
Dalì
«Mia madre aveva letto che Dalí avrebbe trascorso metà dell’anno all’hotel St. Regis di New York. Mi disse
che si sarebbe fatto trovare nella hall dell’albergo a mezzogiorno e proprio alle dodici in punto apparve. Io
ero solo un ragazzo che veniva dalla Pennsylvania e lui dedicò il suo tempo e la sua generosità. Mentre
tornavo verso casa pensai davvero “Posso farcela!”».
«[Dalí] mi invitò ad andare alla Knoedler Gallery dove aveva una mostra in corso. Andammo alla galleria
dove lui posò per qualche foto. Tutto qui, ma queste cose sono importanti per un giovane artista. A me fece
capire che se volevo fare qualcosa avrei potuto farlo… Ricordo che disse: “Dai vieni, ragazzo. Non posso
restare in posa tutto il giorno”. Aveva i baffi all’aria. In seguito, ho fatto un quadro basato su quella foto».
Jeff Koons, Nelson Automatic Cooker / Deep Fryer, 1979 Collezione privata. © Jeff Koons
Warhol
«Siamo persone molto diverse, con caratteri differenti. Entrambi però abbiamo lavorato sull'idea che tutto
è bello per quello che è. E sul rimuovere i pregiudizi: questo è forse il nostro vero tratto in comune. Poi
siamo anche tutti e due figli e nipoti di Duchamp e Picasso e degli altri che ci hanno preceduto: Manet e De
Chirico».
Minimalisti
«L’arte minimalista mi ha aiutato a compiere una transizione.
Volevo avere a che fare con cose che non fossero così soggettive, non riguardassero me stesso, ma il
mondo intorno a me e le altre persone».
Robert Smithson
«I lavori di Robert Smithson con gli specchi hanno avuto su di me un grande impatto per il loro uso del
riflesso».
Ed Paschke
«Ho studiato all’Art Institute di Chicago con Ed Paschke, diventammo davvero amici e gli feci da assistente
di studio. Era il primo artista professionista del quale diventavo amico, mi insegnò come muovermi nel
mondo dell’arte. Grazie a lui capii che era possibile fare una carriera da professionista in arte».
Jeff Koons, Italian Woman, 1986 Collection of Barbara Bertozzi Castelli. © Jeff Koons
Jeff Koons. Shine