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Kinkaleri / OTTO
Intervista

 
Kinkaleri / < OTTO >Kinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto OKNO studio


Artext - Quali gli intenti attorno a questa ricostruzione drammaturgica di < Otto >?

Massimo - Da tanto tempo volevamo rimettere in piedi (è il caso di dirlo) questo lavoro per tanti motivi. E questa che si è presentata è stata l'occasione giusta per riuscire a dare a questo desiderio una forma che in qualche modo riuscisse ad aggiungere degli elementi di riflessione e non a celebrare.
Per noi l'occasione giusta significava partire da quel lato che < OTTO > aveva sempre mostrato ma che non eravamo mai riusciti a renderlo in modo manifesto. Collocarlo all'interno di un Museo di Arte Contemporanea in cui alla fine della performance resta l'installazione che può essere visitata. Alla fine di ogni spettacolo in quegli anni, 2003, 2004, 2005 (gli anni delle repliche) questa visitazione del palco avveniva naturalmente, quindi diventava comunque una sorta di estensione dello spettacolo per visitarlo dall'interno. E dunque abbiamo cercato la condizione che ci interessava mettere in primo piano e che cercavamo da tempo. Senza dimenticare di collocare il lavoro, in un sistema come quello museale che negli ultimi anni è stato un luogo di dibattito per la performance contemporanea.

Marco – Pensarlo in quella collocazione è stato fondamentale perché ci ha veramente messo in una condizione di farlo nel modo migliore. Però credo anche che eravamo tutti molto convinti della qualità del lavoro, anche a distanza di anni.

Gina – Ci siamo posti la questione se un lavoro come questo potesse, dopo quindici anni, porre ancora delle domande. Io ad esempio all’inizio non ero molto d’accordo sul rimetterlo in scena, perché l’idea dell’amarcord emotivamente mi creava qualche problema, legato forse anche alla sua storicizzazione. C’era inoltre la questione del repertorio, come replica nel tempo di un oggetto, una delle tante domande che abbiamo posto al lavoro e che dovevano essere risolte. Anche per me questo tipo di collocazione, la collocazione all'interno del Museo e la riacquisizione di una posizione in uno spazio nuovo come oggetto installativo, mi è sembrato un punto di partenza interessante per poterla accettare.

Artext - Come si è risolta la correlazione temporale, nell'agire scenico - attore/performer.

Gina - Anche su questo c’erano molte riflessioni da fare.
Si, perché il lavoro nasce da una stretta vicinanza tra l’interprete e l'autorialità, tra le persone che erano in scena e che, in parte, erano gli stessi autori di < OTTO >. Una aderenza naturale dunque tra interprete e autore. In questo senso il lavoro di traduzione tra l'idea e la sua visione era già compresa nel lavoro di creazione. In questo caso, nel rimetterlo in scena con nuovi interpreti, abbiamo dovuto fare un passaggio e distanziare la traduzione dal processo. E qui si è posta la domanda: a chi e come trasferire la rimessa in atto di un lavoro? Abbiamo quindi scelto di privilegiare una tipologia di interpreti che avessero delle caratteristiche omogene, scelti in modo arbitrario naturalmente. Per esempio persone molto giovani che non avessero ancora sviluppato un rapporto autoriale definito con la scena. I tre performer sono sotto i trent’anni ( o quasi) e con esperienze sceniche non direttamente autoriale. Ovviamente questo apriva al rischio di affidare il lavoro a persone che potessero fare fatica ad approcciarsi a una dimensione scenica di questo tipo, considerando le variazioni percettive culturali di un'altra generazione; una considerazione stimolante. Quindi c'era anche questa consegna, quasi un testimonianza, ma il termine ha forse un valore troppo emotivo – direi che esiste un passaggio.

Marco - Io vorrei aggiungere qualcosa, è vero che il lavoro nasce da un’aderenza autore, performer e composizione, ma la struttura dell'opera resta comunque molto chiara e percorribile, e dunque, riproducibile anche se con una serie di questioni aperte riguardanti la presenza del performer in scena. È anche chiaro che la qualità dei performer originali aveva determinato l'idea compositiva, perché su quella qualità avevamo basato la costruzione dello spettacolo, però questo, oggi lo abbiamo potuto ritrovare perché abbiamo individuato delle differenziazioni tra i performer, e mantenendo le loro specifiche qualità, siamo rientrati dentro a delle dinamiche che sono funzionali allo spettacolo. Loro non sono delle copie nostre ma degli interpreti e performer dentro una struttura rigorosa che è stata rimessa in scena.

Kinkaleri / OTTOKinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto di Ilaria Costanzo


Artext - Cosa è oggi < Otto > - una performance, una installazione cha ha subito il fascino della “museificazione”?

Massimo - Questa è un'altra delle domande che ci siamo fatti e per me per esempio la risposta è, forse, quella di avere di fronte ancora un oggetto vivo, solido, concreto, capace ancora di poter essere e di potersi ancora mostrare, dal punto di vista del linguaggio performativo, del rapporto con la scena contemporanea, per cui questo oggetto resta ancora un esempio di relazione complessità con la scena.

Marco - Io credo che l'installazione svincolata completamente dalla visione della performance abbia comunque una sua forza, ed è estremamente legata all'essenza della performance. Per dire quello che Massimo ha accennato prima, questo lavoro per anni, si è stato fruito anche come installazione ma con una differenza fondamentale: la scena conclusiva di < OTTO > senza performer, è stata sempre fruita da qualcuno che aveva visto lo spettacolo prima, e che quindi conosceva la risposta a quei reperti rimasti sulla scena. Oggi è possibile anche entrare in quella scena e percepire questo senso di crollo, di fallimento solo negli oggetti senza sapere nulla di quanto è successo. Questo è per me uno scarto grande rispetto al lavoro, perché credo che la tensione che si crea su quella scena, diventata installazione, da un punto di vista compositivo, di traiettorie, di piccoli accadimenti corrisponda molto, all'essenza di < OTTO > performance.

Gina - E’ certo che il rapporto con il tempo in un Museo può creare questa fascinazione e un’aura che emana dai soggetti e dalle opere.

Marco - Credo che il Museo di per sé aiuti fortemente a mostrare l’aura, è un luogo dove si dà per scontato che le opere esposte ce l'abbiano, altrimenti non sarebbero in quel luogo, poi non la vedi e ne rimani deluso, però parti dal presupposto che stare dentro un luogo di contemplazione vuol dire che qualche cosa si mostra e qualcuno prima di te l’ha vista. Banale ma efficace. Mi viene in mente una conversazione avuta con Tino Sehgal, dove ad un certo punto lui dichiara di aver smesso di mostrare il suo lavoro coreografico dentro i teatri perché voleva essere guardato con un’altro tipo di sensibilità. Lui è un coreografo, ma un coreografo che vuol mostrarsi dentro un Centro d'Arte Contemporanea perché, attraverso quel luogo, il suo lavoro viene percepito nella sua interezza.

Gina – Si, è un rapporto diverso con lo sguardo, con il tempo, un’appropriazione ulteriore.

Kinkaleri / OTTOKinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto di Ilaria Costanzo


Artext - Si c’è un’attenzione differente, una disposizione forse analitica nell’osservare una performance in un Centro d’Arte, forse perché è coinvolto il senso del movimento.

Marco - Credo sia una questione di percezione, chi guarda fa i conti con una posizione analitica diversa.

Artext - A quali formati far riferimento per poter rivivere quel 'mettere in spazio'. Si trattava di un dispositivo espositivo di presentazione, di presenza?

Marco - Secondo me il lavoro si avvale di diversi livelli e di tante modalità espositive e performative, da una parte c'è una costruzione che a mio parere è prettamente teatrale, coreografica. Da un’altra altra invece un'estetica e una presentazione del sé che si avvicina più a modalità legate a delle performance che siamo più abituati a vedere nei Centri d'Arte. Quindi è una strana connessione, < OTTO > è un lavoro che drammaturgicamente parlando ha un inizio, un'evoluzione, una fine, ma è anche vero che è ciclico e che insinua continuamente la ripartenza, però una volta che inizia entri dentro un flusso e stai dentro questa costruzione ed aspettativa. Ad un certo punto poi, lo spettatore è proprio in attesa, è stato come dire portato ad evolversi con e dentro lo spettacolo. Non è una di quelle performance che con unico segno tendono a consegnare tutto allo spettatore; anche se è vero che la prima caduta potrebbe essere unica, ma allo stesso tempo c'è un disegno per cui devi entrare e comporre insieme alla performance la tua esperienza, anche culturale, di conoscenza, per esempio del linguaggio o delle regole della rappresentazione.

Gina - Si potrebbe anche pensare come un loop che non ha mai fine, e che si decide di fermare in qualche modo.

Marco – Per me < OTTO > non ha questa valenza non è una roba tipo tu crei un dispositivo e qualsiasi cosa accade va bene perché è inscritta in un flusso generico, anzi deve accadere dentro quella tempistica, quel ritmo, perché quel ritmo è estremamente funzionale alla fruizione della visione.

Massimo - < OTTO > è un'organizzazione di… se vuoi, anche di come eseguire un'installazione, paradossalmente, partendo da elementi dove alcuni subiscono delle sequenze e alcuni non le subiscono... sono proprio quello che sono.

Kinkaleri / OTTOKinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto di Ilaria Costanzo


Artext - Ripercorrendo i processi dell'opera, cosa vi ha ispirato?
In una presentazione di < Otto > si citano i lavori di Louis Wolfson sul linguaggio e la schizofrenia.

Marco - A me per esempio del lavoro di Wolfson interessano tutti gli elementi che muovono alle coincidenze, che si mettono continuamente in atto. Quest'idea che tutta una serie di segni, in una maniera o nell'altra potessero riconfluire e non trovarsi. Per questo per me è stato un motore, una direzione di marcia, dove tanti meccanismi internamente a < OTTO > scorrono parallelamente uno all’altro, poi si incrociano e si stratificano.

Massimo - Il personaggio è uno schizofrenico certificato, che all’interno della sua condizione elabora un rapporto particolare con il linguaggio, perché è lì che lui trasla le lingue e inventa un nuovo modo per comunicare. Il fatto di non voler ascoltare la lingua madre che è l'inglese e lo induce per esempio a scrivere in francese. Sai che è una sorta di inventore ante litteram del walkman? Mettendosi uno stetoscopio sulle orecchie e collegandolo con un nastro all'altoparlante della radiolina portatile se ne andava in giro negli anni settanta per la città, sicuro di non ascoltare la lingua di quel mondo di cui fa parte, la sua famiglia, la lingua madre. Per sopravvivere a questa dolorosa condizione, costruisce nuovi rapporti con il linguaggio, rapporti che diventano quasi coincidenze fortuite nella relazione con il mondo che lui vorrebbe distrutto.
Per riuscire a vivere in una condizione come questa, lui si inventa un procedimento complesso sul linguaggio. Questo linguaggio che lui inventa, si compone per allitterazioni utilizzando varie lingue che conosce (lui si definisce uno studioso di lingue straniere), che scompone e ricompone, va per assonanze fonetiche, dove suono e senso si incontrano e si sciolgono, vicino a quello di Raymond Roussel, ma più istintivo e schizoide. Questa è l'altro aspetto di Wolfon che ci interessava per la costruzione della performance. Inventarsi un modo di comunicare che facesse riferimento a parti conosciute da tutti ma ricombinate in modo tale che nel loro innesto risultassero nuove o dissonanti o che potessero dire una cosa per un verso e un'altra opposta subito dopo. Quindi Wolfson è stato molto importante da questo punto di vista ma non come un lavoro su uno scrittore, bensì nella ricerca delle suggestioni sul procedimento di creazione come scrive bene Deleuze in “Louis Wolfson o del Procedimento”.

Marco - Lo stesso libro catalogo di < OTTO > in qualche modo si è avvalso di questa idea schizofrenica degli accostamenti. Dello sguardo che ti svia ma allo stesso tempo contiene una coincidenza che riapre altrove una ipotetica narrazione. Quel libro, nelle sue intenzioni, era un oggetto che non doveva spiegare niente della performance a cui era riferito, doveva semplicemente stare in parallelo: l’ennesima visione di un processo creativo e partecipato.

Artext - Altre fonti riconoscibili?

Gina - Tante, da artisti di arte contemporanea a meccanismi compositivi..

Marco - Tanti e nessuno. < OTTO > è una dimensione, è contemporaneità a tutto tondo e quindi non c’è un riferimento così diretto da poter dire proviene da… Lo stesso Wolfson è un ambiente, una scatola per gli attrezzi.

Gina – Oltre al libro-catalogo, un’altra derivazione di < OTTO > è il materiale prodotto per l’opera video West. Un progetto che nasce come studio di < OTTO > per poi assumere una sua autonomia. Questo per chiarire la ramificazione di oggetti intorno ad una riflessione comune.

Marco - In quel caso lì è la stessa caduta fatta in scena, che viene portata in esterno e trasformata.

Kinkaleri / OTTOKinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto OKNO studio


Artext - E intorno le strategie, il vostro intento dichiarato è mettere lo spettatore di fronte alla propria attenzione, e così eluderlo come sostenitore del rito "teatrale".

Massimo - E proprio così. < OTTO > se vuoi è l'apologia di questo, e del proporsi in quanto tale. Le critiche più frequenti erano: ma non succede nulla... l'ho già visto, oppure: è stato già fatto. < OTTO >era esattamente questo. Proprio perché l'hai già visto, è stato già fatto e visto migliaia di volte, che questo lavoro è davanti a te, relazioniamoci dentro questo piano che sappiamo tutti, che conosciamo tutti, dei linguaggi teatrali, dei linguaggi performativi, del corpo, eccetera. Un oggetto tipico da fine di un'era. Questo era proprio il gioco che accendevamo con le persone. In generale stare al gioco è una caratteristica per noi nella ricerca della relazione tra ciò che accade sulla scena e quello che accade come pubblico. E' sempre stato così fino ad oggi, fino ad All. Una relazione in cui il pubblico, lo spettatore, è direttamente chiamato a intrecciarsi, ad avere questa relazione fra un dentro ed un fuori, un dentro che ha le sue regole, ha le sue posizioni, ma che cercano di creare uno spazio terzo di attività reciproca; quindi una cosa condiziona l'altra, una cosa insegue l'altra, una cosa risponde all'altra, partendo da una posizione che è quella dell'artista che costruisce dei formati e delle azioni.

Marco - L'immaginario di < OTTO > era talmente scontato perché doveva essere riconoscibile per permettere una pratica di sottrazione nel cogliere l'azione fino in fondo. Anzi abbiamo reiterato quell'impossibilità, quella caduta bloccata a terra, lasciava subito allo spettatore una possibile ricostruzione del perché e del percome. Cosa è successo? Cade, cade, ma perché? Utilizzavi i segni che tutti conoscevano e allo stesso tempo gli toglievi delle parti. L'elemento tempo in questo ha giocato una parte importante, la ricerca di un ritmo giusto delle durate. Il tempismo della scena ha scardinato molto di più dell'immagine di per sé.

Gina - Perché < OTTO > ha un rapporto molto particolare con il tempo, sui tempi di attesa.

Marco - < OTTO > faceva sua anche lo sguardo che normalmente abbiamo quando andiamo a vedere un’opera in un museo. Quella immobilità che in qualche maniera si dispiega davanti all'osservazione di un opera: guardare e osservare, non solo per quello che veniva fatto, ma anche per quello che vedevi. Anche per questo è stato importante adesso ricollocarlo realmente dentro uno spazio d'arte perché i tempi su cui avevamo basato queste riflessioni erano quelli dello sguardo che non è lì ad essere intrattenuto con un'azione ma semplicemente osservare, osservare qualcosa che è avvenuto in maniera, come dire, non totale.

Artext - A distanza di tempo, si è trattato di un agguato alla tentazione all'Arte, alla creazione di "favole" chiuse e autoreferenziali?

Gina - Intorno alla produzione di < OTTO > sono stati realizzati diversi Studi. West era il settimo, ed era una linea di indagine. Reiterare quel gesto, trasportarlo in uno spazio urbano e filmarlo. Partito come studio di un azione immessa in uno spazio della città, diverso da quello deputato, West è diventato un progetto che aveva una autonomia molto precisa, lo abbiamo capito dopo nel montaggio, nella sua esposizione pubblica e negli effetti che produceva. Abbiamo pensato così di svilupparlo in parallelo ed espanderlo in altre città e nei vari luoghi dell'occidente culturale.

Artext - La dimensione dello Studio è tale da mantenere sospesa la destinazione. In anni recenti avete sviluppato dei formati narrativi intorno a Puccini ad esempio.

Massimo - Questa è un’operazione sul linguaggio riferito alla tradizione italiana del Gran Teatro, del Melodramma, e l'interesse è quello di sperimentare quel tipo di approccio, da un punto di vista linguistico, ad un pubblico dell’infanzia. Un luogo di solito protetto dalle emozioni mature di quel tipo di teatro, per questo spesso vengono fornite delle versioni in cui il bambino si deve accontentare della particolarità dell' originale semplicemente in formato ridotto. Il nostro esperimento invece è stato quello di osservare l'oggetto per quello che produce, c'è una storia, un libretto, una musica, una relazione emotiva molto precisa, riscrivendolo. Ritrovare quella modalità efficace di narrazione, emotività, patos in forma contemporanea cercando di avere la stessa immediatezza che l'Opera aveva su un pubblico popolare dell'Ottocento.

Marco – Tutto questo utilizzando i tuoi segni, la tua modalità scenica. Non è che racconti solo una storia, racconti anche tutto il tuo mondo, la tua modalità di raccontare quella storia.

Artext - C'era in < OTTO > una carica sovversiva che generava forme di premonizione, e così innovativo nel formato da farvi vincere il premio Ubu come migliore spettacolo di Teatro-Danza nel 2002.

Gina - Fu istituito per l’occasione, non esisteva come premio, non c’era la categoria.

Marco - Kinkaleri per anni è stata chiamata compagnia di teatro danza, perché eravamo una compagnia e ricevevamo dei finanziamenti come compagnia di danza, però poi in scena non si trovava questa danza e dunque eravamo diventati compagnia di teatro danza..

Artext - E non-danza.

Marco – Esatto, allora non si usava quel termine e noi prendevamo le distanze - Per noi il teatro danza parlava di un certo tipo di generazione. Per noi teatro danza era legato a Pina Baush.

Kinkaleri / OTTOKinkaleri, < OTTO >, 2013/2018 Foto OKNO studio


Artext - In un programma di Sala, si fa riferimento alla natura dello Spazio, vuoto, come limite della scena - ad attivare un confronto di strategia di esistenza ed esperienza del reale - Si trattava di un'attenzione politica?

Massimo - Era probante. Per cui era politica, artistica, estetica, filosofica, credo che ci fosse tutto dentro, un po' perché alla fine in < OTTO > ci metti dentro tutto. E poi, con quello che era successo e con quello che si stava vivendo dopo l'undici settembre, quest'idea del crollo era possibile, vivibile e a quel punto anche continua. Diventava qualche cosa che sapevi che ti saresti portato dentro per tanto tempo.

Gina - Forse questa è la differenza in questo senso ad oggi, perché l'idea del crollo è ancora molto presente, e c’è un’urgenza da questo punto di vista. Forse proprio per questa vicinanza c'era allora una sublimazione del crollo, che lasciava forse presagire un orizzonte. Ora credo che lo stesso gesto abbia assunto un senso più tragico, perché non è più in grado di rigenerarsi.
Si fa riferimento alla natura dello Spazio vuoto come limite della scena per attivare un confronto di strategia di esistenza ed esperienza del reale. Si trattava di un'attenzione politica, una tipologia che lasciava presagire che poteva esserci un disequilibrio seppur violento, ma che poteva creare un diverso ordine delle cose.

Marco - C’era anche un’altra questione allora. < OTTO > arriva come un lavoro dopo “My for you will never die”, che investigativa direttamente la Scena e la sua natura espressiva, cioè la presenza sul palcoscenico. Per noi era un tema molto importante in quel periodo. L'undici settembre oltre all'idea del disastro conteneva anche l'idea di spettacolarizzazione. Il film che diventa reale e il reale che diventa Spettacolo ai massimi livelli, alterandone completamente la rappresentazione contemporanea, Ed era anche questa un'altra domanda che ci ponevamo, continuando ad investigare le modalità dello stare in scena. Così l'idea di reiterare la caduta, non era semplicemente un’emulazione, perché hai visto cadere il grattacielo, ma perché veramente... che cos'altro potevi fare di più di quello che già succede nella realtà? La realtà è arrivata al film. Cioè quell'aereo, quel crollo... in mondovisione. Erano domande che ponevi e ti ponevi e a cui cercavi di dare delle risposte. Per cui anche l'idea di vuoto, come la scena dell'inizio < OTTO >un vuoto che accoglie i detriti, li accoglie perché non può fare altro, trasformandoli in testimonianza.

Artext - Forse più che le immagini e la loro storia, sono piuttosto gli accadimenti come misura del reale che entrano nel vostro processo creativo.

Massimo - Ci sono elementi specifici che generano la nostra realtà. Anche nella “Società dello Spettacolo” che produce segni, in un immaginario che si affastella e si rimette in circolo e torna ad essere utilizzato.
L’emblema di quella strage in quel teatro (parlo del Teatro Dubrovka a Mosca, quello preso d'assalto dai miliziani ceceni durante una rappresentazione) fu particolarmente straordinaria quasi come quella delle torri gemelle.
Hanno restituito delle immagini precise, dei corpi che si trovavano in quel momento lì, che erano stati uccisi, che avevano vissuto tutte le fasi di un sequestro che partiva dall'essere a teatro e trovarsi di fronte ad un certo punto a delle persone che sul palco brandivano un Kalashnikov confondendo drammaticamente la scena e la rappresentazione. Noi abbiamo usato queste circostanze come frammenti, si forse da sublimare, nel senso di trasformare in qualcosa che potesse restituire l’intensità di un accadimento non in quanto tale ma che agiva nell'immaginario collettivo producendo mutazioni sul modo di percepire la realtà e la realtà come rappresentazione.

Marco - In quegli anni succedeva una cosa che successivamente è andata a scemare. Tutti questi accadimenti drammatici venivano assolutamente spettacolarizzati in una maniera molto esplicita dalla stampa, morti, bombe, kamikaze, venivano comunque mostrati, spettacolarizzati. Oggi c'è una censura molto più stretta nel mostrare certe immagini. In quegli anni queste cose venivano continuamente mostrate perché accadevano per la prima volta e con i media pronti e sicuramente certi fatti eclatanti venivano prodotti proprio per i media nel tentativo di scuotere o impressionare l'opinione pubblica. Tutto questo per chi si occupava di rappresentazione, tutte le immagini, i video, le foto ecc. ecc. erano diventati, come dire, degli elementi iconografici fondamentali per poter dire che non esistevano più confini, esiste già tutto non solo come decostruzione storicamente intesa operata dalle avanguardie, il teatro è ovunque, ma in modo paradossale è la forma spettacolare ad essersi installata ovunque. E tu lo riprendi e cerchi di farci qualche cosa. E la cosa diversa che puoi fare è inserirlo nel tempo, dove e come lo contestualizzi. Perché la realtà ha realmente superato a tutti i livelli la rappresentazione. Massimo – Di conseguenza quello che veniva messo in discussione era esattamente la condizione di impossibilità della rappresentazione sotto forma di spettacolo.

Marco - In uno Studio dei Cenci, i tre performer indossavano i vestiti di < OTTO >, riciclavi anche te stesso. Per dire di come tentavi di stare dentro a quest'idea di rappresentazione e di riutilizzo dell’immagine già vista.



< OTTO > 2003/2018 - Kinkaleri
PERFORMANCE / PECCI 30

Performance dal 21 settembre al 21 ottobre
Installazione fino al 4 novembre

Progetto, realizzazione
Kinkaleri / Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo
con Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici
produzione KLm / Kinkaleri
in collaborazione con Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci, Teatro Metastasio /
ContemporaneaFestival, spazioK.Kinkaleri
con il sostegno di Regione Toscana, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Dipartimento dello spettacolo


 

Kinkaleri / < OTTO > Conversazione
Performance / Installazione :Centro Pecci
Site : Kinkaleri
@ 2018 Artext

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