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Kobena Mercer
del moderno coloniale

 
Kobena MercerClaire Fontaine, Foreigners Everywhere/Stranieri Ovunque, 2004-24. Photo Marco Zorzanello.



Kobena Mercer
La storia dell'arte dopo la globalizzazione:
le formazioni del moderno coloniale


L'espressione "moderno coloniale" è alquanto promettente perché suggerisce un nuovo approccio alla comprensione delle interrelazioni tra Modernismo e colonialismo. Nel tentativo di scoprire quali potrebbero essere le implicazioni per la storia dell'arte, con questo mio contributo vorrei esortare la riflessione sui tre termini affini al centro del dibattito - "modernismo", "modernità" e "modernizzazione" - alla luce di quella che nella sociologia della cultura è nota come la tesi delle modernità multiple. Basandomi su esempi tratti dai testi di Annotating Art's Histories, di recente completati in qualità di curatore di collana, il mio obiettivo è suggerire come potrebbero essere gli studi transcultural di storia dell'arte quando si conducono ricerche d'archivio "dopo" la globalizzazione.

Se da un lato si ritiene che la globalizzazione sia un fenomeno intrinsecamente "nuovo", riferito a un crescente senso di connessione mondiale determinato dalle nuove tecnologie, dall'altro la prospettiva alternativa della longue dureé ci offre il vantaggio di una tela molto più ampia su cui teorizzare le interazioni transculturali come variabile nella produzione sociale dell'arte. Nel descrivere le caratteristiche della globalizzazione contemporanea che sono effettivamente nuove-le imprese transnazionali, le economie neoliberiste, l'accresciuto ruolo delle tecnologie dell'informazione e delle industrie culturali - Stuart Hall sottolinea tuttavia che questa è solo la fase più recente di un processo a lungo termine.

Kobena MercerYinka Shonibare, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Nel suo schema di periodizzazione, "la quarta fase, poi è quella attuale, che passa sotto il titolo di 'Globalizzazione' tout court (ma che, a mio avviso, va vista come una fase epocale in una durée storica più lunga)" 1. Nel contesto della discussione sulla creolizzazione come modalità specifica di interculturalità derivante dalla colonizzazione e dalle migrazioni forzate, Hall afferma: "faccio risalire la globalizzazione al momento in cui l'Europa occidentale esce dal suo isolamento, alla fine del XV secolo, e inizia l'era dell'esplorazione e della conquista del mondo extraeuropeo". Aggiungendo che "intorno al 1492 cominciamo a vedere questo progetto come dotato di carattere globale piuttosto che nazionale o continentale" e, nella sua interpretazione, questa prima fase della globalizzazione "coincide con l'inizio di quel processo che Karl Marx identifica come tentativo di costruire un mercato mondiale, il cui risultato è stato quello di porre il resto del mondo in un rapporto subordinato all'Europa e alla civiltà occidentale" 2.

Affermare che la globalizzazione non è una novità, e che è semplicemente la nostra comprensione intellettuale a essere cambiata negli ultimi anni, significa assumere una posizione critica nei confronti delle consuete ortodossie dell'attuale pensiero sulla differenza culturale nelle arti. Scegliendo di iniziare con idee volutamente di ampia portata, voglio trasmettere la mia percezione di ciò che è in gioco nel cambiamento di paradigma attualmente in corso nella storia dell'arte a cui la serie Annotating Art's Histories ha contribuito con alcuni piccol passi. Ma l'ampia portata è utile anche a mettere in prospettiva quegl ostacoli al pensiero storico sulle dinamiche transculturali che devono essere affrontati a livello metateorico prima di poter modificare la nostra posizione rispetto all'archivio della modernità coloniale. Due di questi ostacoli possono essere rappresentati dai seguenti termini: "inclusionismo" e "presentismo".

Kobena MercerMataaho Collective, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Nella misura in cui la differenza è oggi ampiamente affrontata attraverso un'ideologia di inclusionismo multiculturale, c'è una forte tendenza a costruire un asse orizzontale che raccolga un numero sempre più ampio di identità al di sopra e al di là di un asse verticale che tenterebbe una spiegazione storica del loro reciproco intreccio. Nelle mostre di rassegna e nei libri di testo antologici, l'enfasi pervasiva sull'ampiezza orizzontale della copertura tende a de-storicizzare e appiattire le relazioni contraddittorie tra i diversi elementi riuniti in nome che ciascuna delle parti coesista in una relazione fianco a fianco, o dell'inclusione. Ne risulta un'illusione di pienezza pluralista che presuppone che ciascuna delle parti coesista in una relazione fianco a fianco, con scarsa interazione o dinamismo.

Laddove il linguaggio del multiculturalismo viene evocato per compensare le esclusioni del passato (come una sorta di soluzione a una crisi di legittimazione da parte delle istituzioni del mondo dell'arte), non solo troviamo l'idea secondo cui la diversità culturale è vista come una mera "novità" appartenente solo all'arte contemporanea, ma scopriamo anche che tale presentismo opera in modo insidioso per preservare i precedenti canoni dell'arte moderna, la cui autorità monoculturale rimane quindi intatta. Le conseguenze del presentismo astorico possono essere viste in un approccio conservatore all'ekphrasis descrittiva con cui i critici cercano di far coincidere la teorizzazione contemporanea della globalizzazione con le pratiche artistiche che presumibilmente incarnano tali concetti. Il capitolo di Niru Ratnam intitolato Art and Globalisation in Themes in Contemporary Arts 3 , dedicato alle opere esposte a documenta11 nel 2002, inizia stimando la novità della teoria della globalizzazione, sottolineando che "rivela continuità con le pratiche e le teorie precedenti che esplorano l'eredità del colonialismo europeo", ma poi liquida il rapporto tra globalizzazione e postcolonialismo sulla base della posizione di Negri e Hardt secondo cui, poiché "la prospettiva postcolonialista rimane principalmente interessata alla sovranità coloniale. [...] Può essere adatta per analizzare la storia, [ma] non è in grado di teorizzare le strutture globali contemporanee" 4.

Kobena MercerPuppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda


Nei casi in cui la teoria prevale sulla realtà concreta dell'opera d'arte come oggetto di studio a sé stante, notiamo che l'arte viene ridotta all'illustrazione passiva di un concetto a cui il teorico è già arrivato, negandole così l'autonomia della propria intelligenza estetica. Inoltre, la storiografia tradizionale rimane integra e inalterata dall'incontro con altre discipline. Nella raccolta da lui curata Is Art History Global? 5, James Elkins riunisce un gruppo internazionale di autori per discutere i cambiamenti epistemologici degli ultimi trent'anni, in cui la canonica ricerca di Erwin Panofsky, Arnold Hauser, Meyer Schapiro e altri viene soppiantata dal post strutturalismo, dal femminismo, dalla cultura visiva e dagli studi postcoloniali. Nell'affrontare il dibattito in termini così astratti, tuttavia, scopriamo che Elkins non discute affatto di opere d'arte vere e proprie. Inoltre, fondendo il tema della globalizzazione con la categoria di "world art", il modello di studi d'area stabilito negli orientamenti antropologici e archeologici nei confronti dell'arte non occidentale conserva un'idea essenzialista di culture autonome come totalità discrete e delimitate, senza dare alcun conto delle loro interazioni. Quando il non occidentale viene confinato all'antichità premoderna, ci troviamo di fronte a un altro paradosso, ovvero che l'arte moderna, occidentale o meno, non trova posto all'interno della categoria di "world art" 6. Come sostengo nell'introduzione a Cosmopolitan Modernisms' 7 , la teoria postcoloniale (originata nell'ambito della ricerca letteraria) è essa stessa altamente colpevole della tendenza al teoreticismo. Avendo rivelato il ruolo costitutivo piuttosto che riflessivo della rappresentazione nelle costruzioni della realtà coloniale, l'enfasi sul posizionamento del Sé e dell'Altro ha portato a uno squilibrio per cui gli studi sull'alterità visiva nell'arte occidentale fanno costantemente riferimento all'lo imperiale, per così dire, in modo tale da mettere in ombra l'agency degli artisti coloniali e diasporici come creatori a pieno titolo di rappresentazioni.

Kobena MercerDana Awartani, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Facendo per un momento un passo indietro, si potrebbe osservare che la cosiddetta narrazione dominante dell'arte moderna è sotto attacco da quando l'arte concettuale ha messo in discussione il modello ottico della visualità, provocando una crisi del Modernismo in quanto tale 8. Ma una cosa è smantellare un modo di vedere dominante, un'altra è proporre un'alternativa sostenibile. Più che suggerire un vero e proprio modello per lo studio delle relazioni transculturali nell'arte, la mia serie ha richiamato l'attenzione sui passi graduali e progressivi necessari per decostruire il dominio dell'universalismo formalista e nel contempo esplorare metodi che rifiutino le opposte tendenze del riduzionismo sociologico o contestuale. A titolo di esempio, possiamo osservare come la relazione Modernismo/colonialismo sia per lo più affrontata all'interno dell'episteme della storia dell'arte a sua volta all'interno dell'ambito estremamente limitato del Primitivismo. Considerata (1907) la quantità di inchiostro versato sul tema delle Demoiselles d'Avignon di Picasso negli anni Ottanta e in seguito, si potrebbe affermare che il disconoscimento dei contesti coloniali del Primitivismo all'interno della narrazione formalista dei "prestiti" morfologici sia rimasto intoccato per ottant'anni buoni. L'idea di "forma significativa" proposta negli anni Venti dai critici di Bloomsbury Clive Bell e Roger Fry è stata scalzata dal privilegio epistemologico solo dal concetto psicoanalitico di feticismo che ha informato le letture di Picasso di Hal Foster (1985) e Simon Gikand 9 e dal concetto di James Clifford (1988) di circolazione di artefatti tribali nelle collezioni museali e in altri luoghi istituzionali di scambio all'interno del sistema artistico e culturale.

Kobena MercerNucleo Storico, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Nei venticinque anni trascorsi da questo momento di svolta, è stato soprattutto il concetto di appropriazione a svolgere un ruolo trasformativo nella nostra interpretazione dell'agency e dell'autorialità subalterne; ma poiché tali concetti sono stati impiegati soprattutto in relazione all'arte contemporanea, è solo negli ultimi dieci anni circa che il suo potenziale di cambio di paradigma è stato attivato nella ricerca archivistica e storica. Forse più della pittura e della scultura, trovo che sia l'architettura a contribuire ulteriormente a rompere il monopolio interpretativo del Primitivismo sulla nostra comprensione del Modernismo e del colonialismo, dato che la mostra del 2008 In the Desert of Modernity 10, come la serie da me curata, condivide una linea temporale di ricerca che comprende anche lavori come Modern Architecture and the End of Empire di Mark Crinson 11.

Da parte mia, partendo dalla premessa che la modernità definisce uno stato d'essere o una condizione di vita in cui elementi materiali e attori sociali disparati sono costantemente sradicati dalle loro origini e messi in contatto da proliferanti reti di commercio, viaggi e scambi di mercato, la serie Annotating Art's History si proponeva di dimostrare che, lungi dall'essere limitato al Primitivismo, il dialogo transculturale gioca un ruolo significativo e onnipresente nella storia del Modernismo nel suo complesso. Da movimenti come il Surrealismo, attraverso i principali processi sottostanti come l'astrazione o il montaggio, fino alle fusioni "alto/basso" della Pop Art che hanno inaugurato la problematica del Postmodernismo, la differenza culturale non è aberrante, accidentale o "speciale", bensì una variabile strutturale e persino una caratteristica normativa della produzione artistica nelle condizioni della modernità divenuta globale alla fine del XIX secolo.

Il Modernismo, si potrebbe sostenere, è sempre stato multiculturale: è semplicemente cambiata la nostra consapevolezza. Ognuna delle rotture inaugurate dal Modernismo europeo intorno al 1910è entrata in contatto con un sistema globale di flussi e scambi transnazional dalla concezione della pittura monocromatica di Malevič, plasmata dalla sua lettura della filosofia vedica e del misticismo indiano, ai readymade di Duchamp, che rispecchiavano la mobilità decontestualizzata degli artefatti tribali. Il Primitivismo modernista è forse il paradigma generico in cui questi scambi (ineguali) sono più visibili, ma una interpretazione più ampia della transculturalità come conseguenza della globalizzazione moderna comporta anche la necessità di mettere in discussione il modello ottico della visualità che determina il modo in cui le differenze culturali sono rese decifrabili come oggetti di studio "leggibili".

Kobena MercerPuppies Puppies, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Andrea Avezzù


Poiché il pensiero attuale sulla globalizzazione sconvolge l'iniziale equivalenza tra modernizzazione e occidentalizzazione, esso interrompe la geometria classica di centro e periferia indispensabile ai precedenti approcci all'interno della sociologia dello sviluppo e della teoria marxista del sistema-mondo. L'assunto che diventare moderni significasse in qualsiasi momento diventare occidentali (e quindi rinunciare alla propria identità) all'egemonia del centro occidentale dal punto di vista economico e identità) è stato completamente minato dalla consapevolezza dell'azione di appropriazione selettiva da parte di attori sociali che erano sì subordinati all'egemonia del centro occidentale dal punto di vista economico e politico, ma che tuttavia esercitavano scelte su ciò che adattavano e ciò che rifiutavano nello spazio dell'incontro transculturale. Mentre le teorie precedenti vedevano nella globalizzazione imperialista un rullo compressore che eliminava in toto le differenze locali, tribali e indigene, l'agency di adattamento da parte dei colonizzati rendeva l'esperienza vissuta del colonialismo un fenomeno contraddittorio su tutti i fronti, creando così molteplici terreni di resistenza, antagonismo e negoziazione. Questa enfasi sul reciproco intreccio di forze contraddittorie è ciò che distingue la tesi delle modernità multiple. Con la maggiore attenzione data ai processi spaziali della globalizzazione nel lavoro dell'urbanista Anthony King (2011), insieme agli studi di Arjun Appadurai (1996) sugli adattamenti localizzati di beni materiali e simbolici nella circolazione globale e al resoconto di Ulf Hannerz (1996) sui flussi transnazionali, la gamma di prospettive analitiche riunite in Global Modernities da Featherstone, Lash e Robertson (1995) 12 ha segnato un punto di svolta nella sociologia della cultura, ulteriormente sviluppato da Jan Nederveen Pieterse (2004). Lungi dal tradursi in una bagarre pluralista in cui ci sono tutti i modernismi che si vogliono, l'attenzione che la tesi delle modernità multiple presta alle complesse dinamiche di struttura e agentività dimostra che il processo di modernizzazione come occidentalizzazione raramente si è tradotto in uno stato pienamente raggiunto o finalizzato di soggettivazione coloniale, perché costantemente reso ambivalente dall'agonismo generativo del potere e della resistenza.

Kobena MercerSuperflex, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Quando vengono raccontati come una narrazione che si propaga da un centro unitario, i processi materiali della modernizzazione - l'applicazione della conoscenza scientifica alle tecnologie di infrastruttura sociale e di creazione di ricchezza che agiscono come motori del "progresso" - sono spesso confusi con la condizione filosofica della modernità. Si tratta dell'esperienza vissuta o della soggettività dell'individuo atomizzato che si ritiene caratterizzi l'autocoscienza razionalista associata alla secolarizzazione. Tuttavia, disaccoppiando l'equazione tra modernità e Occidente, la teoria contemporanea della globalizzazione richiede un'indagine storica sulle formazioni combinatorie in base alle quali alcuni aspetti del processo oggettivo di modernizzazione sono stati accettati mentre alcune caratteristiche soggettive della modernità sono state deselezionate. Sebbene non sia mai stato colonizzato, il Giappone imperiale ha accettato la modernizzazione nella scienza e nella tecnologia, ma non la democrazia in politica; le nazioni arabe del Medio Oriente hanno analogamente adottato l'infrastruttura capitalista, pur mantenendo le tradizioni religiose invece dell'individualismo. Mentre l'ideologia eurocentrica raccontava la storia come una sequenza lineare dal Rinascimento e dalla Riforma all'Illuminismo e alla Rivoluzione industriale, l'alternativa è quella di disaggregare concettualmente i processi costitutivi, come spiega David Morley nel contesto della metodologia degli studi culturali: "L'associazione tra Occidente e modernità deve essere vista come radicalmente contingente in termini storici. Se non c'è una relazione necessaria tra questi termini, allora ne consegue che opporsi a uno dei due non significa necessariamente opporsi all'altro" 13.

Riprendendo nella loro storia letteraria il rapporto Modernismo/colonialismo, Booth e Rigby aggiungono: "Questo significherebbe, ad esempio, che la modernità potrebbe essere [...] accolta con favore nel mondo non occidentale, anche se la forma precisa che assume in Occidente, o il modo in cui l'Occidente la promuove o la esporta, potrebbe essere veementemente contrastata". È quindi altrettanto importante tenere a mente le disgiunzioni per cui, "invece di pensare l'impero come attivamente coinvolto nell'esportazione o nella diffusione del Modernismo (che agli occhi degli imperialisti. [...] potrebbe essere ideologicamente o politicamente sospetto), potremmo vederlo come esportatore di modernità" 14.

Kobena MercerSantiago Yahuarcani, La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, Photo Andrea Avezzù


Inteso come risposta della cultura alle difficoltà e ai dilemmi sollevati dall'esperienza vissuta della modernizzazione, il Modernismo non è stato solo un fenomeno a più voci all'interno dell'Occidente - a volte celebrando l'età delle macchine, a volte articolando una critica dell'alienazione capitalistica-, ma si è ulteriormente frammentato nell'involucro della modernità coloniale, dove la realà esportata dello Stato-nazione ha costituito una frontiera decisiva dell'agonismo culturale e politico. Nel contesto delle lotte anticoloniali in India, Partha Mitter osserva che la circolazione delle idee moderniste in seguito alla mostra del 1922 degli artisti del Bauhaus a Calcutta (tra cui Vasilij Kandinskij e Paul Klee) ha svolto un ruolo catalizzatore per la sperimentazione pittorica di Gaganendranath Tagore, Amrita Sher-Gille e Jamini Roy, che a suo avviso hanno espresso una variante del Primitivismo che ha agito come controdiscorso della modernità. Mentre gli artisti nazionalisti degli anni Novanta del XIX secolo, come Raja Ravi Varmala e la Scuola del Bengala, abbracciavano il naturalismo accademico e inserivano contenuti indigeni, la rottura formale con la verosimiglianza da parte de modernisti indiani combinava elementi locali e globali per forgiare un cosmopolitismo in cui veniva rimossa la logica binarista dell'imperialismo e del nazionalismo. Poiché "le stesse ambiguità del primitivismo fornivano un potente strumento per sfidare i valori e i presupposti della moderna civiltà industriale, cioè dell'Occidente", per Mitter la sua presenza nel primo Modernismo indiano costituisce una "tendenza contro-moderna piuttosto che anti-moderna, perché è davvero la sorella gemella della modernità, il suo alter ego; è al suo interno e tuttavia la mette continuamente in discussione". Laddove le tradizioni indigene dell'intelligenzia bengalese hanno creato condizioni favorevoli alla ricezione del Modernismo, l'azione di appropriazione ha prodotto trasformazioni semiotiche del "primitivo". Come aggiunge Mitter, "penso al Mahatma Gandhi, in questo senso, come al più profondo critico primitivista del capitalismo occidentale. Ha plasmato la filosofia della resistenza non violenta e l'autosufficienza della vita di villaggio in India, simboleggiata dall'umile arcolaio, a partire da elementi associati al discorso del primitivismo" 15 .

Kobena MercerRindon Johnson, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Andrea Avezzù


All'interno della stessa linea temporale che va dagi anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX secolo, Ian McLean esamina le formazioni del Modernismo coloniale e del Modernismo anticoloniale nell'Australia aborigena. Rompendo con la visione standard secondo cui l'arte moderna degli artisti aborigeni sarebbe iniziata con l'uso della tela e dei colori acrilici solo negli anni Settanta, McLean sostiene che la risposta artistica alla modernità occidentale sia iniziata al momento del primo contatto con le remote comunità del deserto alla fine del XIX secolo. Le danze cerimoniali accoglievano i visitatori europei con atti di mimica performativa. Le sculture sacre venivano riadattate a scopi secolari nei loro "motivi esterni" in maniera volta a educare gli stranieri bianchi pur contenendo "segreti interni" noti solo agli iniziati. Negli anni Trenta, Albert Namitjira produceva paesaggi ad acquerello; sebbene la sua maestria tecnica lo rendessero inautentico agli occhi degli eurocentrici, McLean rivela come le sue scelte "rivendichino la propria eredità aborigena, in particolare i siti sacri arrernte". McLean accetta che la modernizzazione esportata abbia stabilito una condizione universale o mondiale, ma insiste sul fatto che "lungi dall'essere una costruzione puramente occidentale o europea, la modernità è un modo di vivere che ha messo radici in molte tradizioni, comprese quelle spesso considerate antitetiche ad essa. 16. Rifiutando quindi l'idea che le popolazioni e le culture indigene siano state passivamente "vittime" della modernità come "invasore alieno" McLean pone l'accento sulle logiche combinatorie dell'ibridazione nella risposta dell'arte:

Gli effetti apocalittici della modernità su tutte le società tradizionali, comprese quelle aborigene, sono innegabili. Tuttavia, questo ragionamento scivola facilmente in una logica binaria che appiattisce le ambiguità dell'incontro coloniale e mette a tacere gli adattamenti storici dei colonizzati, colonizzandoli di nuovo. Questa logica binaria è la ragione principale per cui i critici occidentali hanno avuto difficoltà ad accettare il Modernismo dell'arte non occidentale e soprattutto tribale. In realtà, gli agenti della tradizione hanno fatto quello che hanno sempre fatto: si sono adattati e adeguati al nuovo, appropriandosi persino di alcune delle sue idee. Certo, l'adattamento è stato spesso accidentato e a volte contraddittorio, ma la storia del Modernismo aborigeno è la storia di questo adattamento 17.

Kobena MercerNil Yalter, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda


Come terzo esempio di moderno coloniale citerei la Adinembo House, costruita nel delta del Niger tra il 1919 e il 1924 dall'architetto nigeriano James Onwudinjo, che è al centro del contributo di Ikem Stanley Okoye nel quarto volume della mia serie, Exiles, Diasporas & Strangers. Osservando come il tetto piatto dell'edificio crei un duplice contrasto con i materiali di argilla e paglia delle abitazioni indigene e con i mattoni dell'architettura coloniale britannica, Okoye dedica attenzione all'uso del cemento armato come tecnologia "straniera" che trovò un ambiente ricettivo nell'élite locale, compreso il ricco commerciante Igbo che aveva commissionato la casa. Se Okoye evidenzia gli elementi decorativi e ornamentali delle pareti esterne in contrapposizione ad Adolf Loos, il punto chiave è la sovrapposizione temporale in cui gli architetti modernisti in Austria e in Africa occidentale esploravano temi simili 18.

Kobena MercerTeresa Margolles _ Omar Mismar, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda


I miei personali contributi alla serie si sono concentrati sulla moderna diaspora nera, dai pittori astratti caraibici dell'epoca del New Commonwealth, come Aubrey Williams e Frank Bowling, ai collage di Romare Bearden nella scena afroamericana degli anni Sessanta. In un certo senso, in quanto prodotti di migrazioni forzate, le diaspore sono molto diverse dalle colonie: in queste ultime la terra ti è stata portata via, mentre nelle prime sei tu ad essere stato portato via dalla tua terra. Ma con i metodi aperti dal concetto di Paul Gilroy di Black Atlantic come spazio circolatorio dei flussi migratori, lo studio della modernità diasporica fornisce un nuovo punto di accesso all'archivio, con risultati a volte sorprendenti. Le indagini di Richard Powell (2001) e Sharon Patton (1999) riconoscono le dimensioni globali con cui la blackness tende a travalicare i confini territoriali della nazionalità, ampliando così la portata dei precedenti lavori di Samella Lewis e David Driskell, e dell'enciclopedia scritta da Romare Bearden insieme a Harry Henderson, con cui si inaugurava la storia dell'arte afroamericana come campo di studio distinto 19. Ed è qui che si tende a considerare il Rinascimento di Harlem come momento di origine del Modernismo nero, ma con questo concetto più ampio di modernità non solo vediamo i mezzi visivi come la fotografia un luogo chiave in cui la rappresentazione dell'individualità autonoma è stata messa in scena dopo l'abolizione della schiavitù, ma cominciamo a notare che fu anche nei primi anni Novanta dell'Ottocento che tra gli intellettuali afroamericani come W.E.B. Du Bois si generò un particolare discorso filosofico di autoindagine.

Kobena Mercer Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Artwork, Installation View at the Venice Biennale. Photo Marco Zorzanello


Du Bois partecipò all'Esposizione Universale di Parigi nel 1900, dove si recò per supervisionare l'installazione dell'American Negro Exhibit, una collezione di fotografie, mappe, libri, diari e grafici scientifici che documentavano le sue ricerche all'Università di Atlanta. Le fiere mondiali e le esposizioni internazionali sono ampiamente studiate come spettacoli del potere imperiale - e nel Dahomey Village, all'interno del padiglione francese, gli africani furono messi in mostra nel 1900 come esemplari viventi dell'alterità -, ma quanto più ricca sarebbe la nostra comprensione di questi contestati siti della globalità se includessimo nel calcolo la simultanea presenza di soggetti afroamericani della diaspora? Ciò che Du Bois esponeva, a dire il vero, non era arte ma informazione; tuttavia, i documenti di auto-miglioramento presentati nell'American Negro Exhibit erano da lui stesso intesi come manifestazione dell'auto-modernizzazione nera. Le reti di viaggio del XIX secolo che aprirono la strada al Congresso panafricano (la cui prima riunione, con la presenza dello stesso Du Bois, si tenne a Londra nel 1900) ci spingono a concettualizzare il Black Atlantic come "controcultura della modernità" 20 non solo nella musica e nella letteratura, ma anche nelle arti visive.

Kobena MercerEdna Manley, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda


I discorsi dominanti dell'internazionalismo, concepiti per stabilire le condizioni di competizione capitalistica tra Stati-nazione rivali che secondo Hall, definisce la seconda fase della globalizzazione fino alla catastrofe imperialista della Prima guerra mondiale) erano essi stessi messi in ombra e antagonizzati da un internazionalismo dal basso, di cui gli spazi del Black Atlantic costituiscono un modello esemplare. I viaggi transatlantici degli artisti afroamericani a Parigi negli anni Trenta erano stati prefigurati nel XIX secolo dalla scultrice Mary Edmonia Lewis e dal pittore Henry Ossawa Tanner, la cui opera non era di per sé modernista pur essendo impegnata in una riflessione consapevole sui dilemmi della vita in condizioni di modernità diasporica. Rivisitare il periodo formativo che va dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti de XX secolo attraverso la lente delle molteplici formazioni del Modernismo su scala globale ci offre ora l'opportunità di esaminare come ognuna di queste varianti interculturali sia stata strutturata in termini di dominante e di subordinazione. In altre parole, possiamo pensare alla genealoga del Modernismo non come a una storia "internalista" o autogenerata che inizia e finisce solo in Occidente, ma come alla narrazione di un momento decisivo in cui le contraddizioni trainanti della congiuntura globale moderna hanno dato origine a molte forme diverse di produzione artistica. Dopo avere accennato alle appropriazioni anticoloniali che harro generato un Modernismo cosmopolita che ha rifiutato il neotradizionalismo e il nazionalismo, e a una modernità diasporica percorsa dai viaggi transnazionali di artisti neri che hanno agito come cittadini del mondo va sottolineato che la storia dell'arte sta iniziando solo ora - con estremo ritardo - a giungere a una vera comprensione universalistica della logica della transculturazione nelle arti visive.

Kobena MercerOmar Mismar, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Marco Zorzanello


Nel periodizzare la globalizzazione, Hall caratterizza "la terza fase, culminante nel secondo dopoguerra", come contraddistinta dal "declino dei vecchi imperi basati sull'Europa, dall'era dei movimenti di indipendenza nazionale e della decolonizzazione", che "coincide con la rottura di un intero quadro epistemologico visivo e concettuale che chiamiamo 'Modernismo'. Il Modernismo segue l'indice più ampio spostandosi dalle sue origini nell'Europa di fine secolo agli Stati Uniti 21. Nella temporalità traumatica della nachträglichkeit - cioè dell'azione differita, o della posteriorità - l'embricatura interdipendente o co-costitutiva di Modernismo e colonialismo è diventata visibile solo con la rottura del consenso egemonico, provocata dal "post" nel Postmodernismo e nel postcolonialismo. Sebbene i concetti di ibridità siano presto usciti dal ciclo della moda metropolitana, la tesi della modernità multipla ci spinge a riesaminare l'intera gamma dei termini a essa correlati- creolizzazione, sincretismo, traduzione, dialogismo - come risorse concettuali per mappare la logica della transculturazione nelle arti visive. Chiarendo le diverse combinazioni di modernizzazione e modernità in specifiche del Modernismo come pratica artistica di creazione del mondo che è sempre stata guidata dalla transculturalità.

Kobena MercerGiulia Andreani, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda



Note
1 - Stuart Hall, intervento Globalization, durante l'evento Cartographies of Power, 1 ottobre 2003, al Centre for Cultural Studies (CSS, Goldsmiths, London University), p. 194.
2 - Ivi, p. 193.
3 - N. Ratnam, Art and Globalisation, in Themes in Contemporary Art, a cura di G. Perry e P. Wood, New Haven (CT), Yale University Press, 2004.
4 - Ivi, pp. 293, 295.
5 - Is Art History Global?, a cura di J. Elkins, London, Routledge, 2007.
6 - Sugli approcci alla "world art", si veda Compression vs. Expression. Containing and Explaining the World's Art, a cura di J. Onians, New Haven (CT), Yale University Press, 2006.
7 - Cosmopolitan Modernisms, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), MIT Press, 2005.
8 - V. Burgin, The Absence of Presence. Conceptualism and Postmodernisms, in The End of Art Theory. Criticism and Postmodernity, Londra, Macmillian, 1986,pp.29-50
9 - S. Gikandi, Picasso, Africa and the Schemata of Difference, in Modernism/Modernity, 10, 3, 2003, pp. 455-480.
10 - In the Desert of Modernity, Berlino, HKW-Haus der Kulturen der Welt, 29 agosto-26 ottobre 2008.
11 - M. Crinson, Modern Architecture and the End of Empire, Farnham, Ashgate, 2003.
12 - Global Modernities, a cura di M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson, New York, - SAGE, 1995.
13 - D. Morley, EurAm, Modernity, Reason and Alterity, in Stuart Hall. Critical Dialogues in Cultural Studies, a cura di D. Morley e K.H. Chen, Abingdon (OX), Routledge, 1996, p. 349.
14 - H.J. Booth, N. Rigby, Modernism and Empire, Manchester, Manchester University Press, 2000, p. 28.
15 - P. Mitter, Reflections on Modern Art and National Identity in Colonial India. An Interview, in Cosmopolitan Modernisms, cit., p. 42.
16 - I. McLean, Aboriginal Modernism in Central Australia, in Annotating Art's Histories. Exiles, Diasporas, and Strangers, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), 2008, p. 92.
17 - I. McLean, Aboriginal Modernism, cit. p. 76.
18 - I.S. Okoye, Unmapped Trajectories. Early Sculpture and Architecture of a "Nigerian" Modernity, in Annotating Art's Histories. Exiles, Diasporas, & Strangers, cit., pp. 28-44.
19 - S. Lewis, Art: African American, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978; D. Driskell, Two Centuries of Black American Art, catalogo della mostra (Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1976), New York, Random House, 1976; R. Bearden, H. Henderson, A History of African-American Artists, from 1792 to the Present, New York, Pantheon, 1993.
20 - P. Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double- Consciousness, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1993.
21 - Stuart Hall, Globalization, cit., p. 194.


Kobena MercerMAHKU, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, Photo Matteo De Mayda


 

Kobena Mercer
La storia dell'arte dopo la globalizzazione
Site Biennale Arti Visive Venezia 20 Apile – 24 Novembre 2024
@ 2024 Artext

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