Heirloom
Larissa Sansour
testo di Nat Muller
L’oeuvre di Larissa Sansour esplora come le nozioni di memoria, trauma, identità e senso di appartenenza giochino un ruolo cruciale all’interno di contesti geografici politicamente contesi – come, spesso, la Palestina. La fantascienza è il veicolo da lei scelto per sfidare la concezione di tempo e analizzare scenari futuri. Storie individuali ed esperienze personali si intrecciano con quelle collettive, mentre memoria e oblio competono, l’uno contro l’altro. L’opera di Sansour si concentra sul concetto di esproprio e sull’essere deprivati di passato, presente e futuro. In risposta a ciò, la fantascienza apre un mondo di possibilità per esplorare modi alternativi di forgiare la realtà e immaginare esistenze radicamente diverse.
Nel
Heirloom, Sansour presenta un mondo trasferitosi sottoterra in seguito a un disastro ecologico. Sospeso nel limbo del presente e di un futuro incerto, questo mondo sembra esistere fuori dal tempo e dallo spazio. Non soltanto appare infestato dai fantasmi del passato, ma sembra persino essere costruito su di essi. Qui, le vere fondamenta della precaria condizione dell’essere vengono messe in discussione.
Nell’installazione cinematografica a due canali,
In Vitro, diretta assieme a Søren Lind, due donne, Dunia e Alia, discutono sul valore della memoria dopo la perdita del mondo sopra suolo. Per Dunia, è questo il legame esistenziale con la sua identità. La conservazione della memoria è la sua sopravvivenza. Per Alia – un clone – le memorie ereditarie che si intromettono nel suo presente sono alienanti e inquietanti; un ricordo nostalgico che non è suo, ma che appartiene a un mondo che non ha mai conosciuto. La sua realtà è sottoterra, nei laboratori e nel vivaio del sottosuolo che rendono possibile la sopravvivenza, la sua e quella degli altri. In questo contesto, che significato hanno i racconti sul senso di appartenenza e sul patrimonio culturale quando tutto è ormai distrutto? Che senso ha restare aggrappati ai residui del passato e riprodurre i suoi miti e costrutti? Si può costruire un nuovo mondo e una nuova identità sui suoi detriti? O possono lo spirito di sopravvivenza e l’intraprendenza dettare nuovi patti di lealtà, e parentele forgiarsi differentemente e altrove?
Queste domande sono al centro del Heirloom. Nel film, Sansour rende in termini visivi la netta distinzione tra le due donne attraverso la divisione dello schermo e il formalismo stilistico del cinema in bianco e nero. Mentre la telecamera ingrandisce su Dunia o Alia, e si alterna tra schermate e punti di vista, il dilemma della loro discussione si insidia dentro noi. Dunia, sul suo letto di morte si aggrappa alla vita. La tengono in vita la memoria delle esperienze vissute prima della catastrofe e il desiderio di tornare sulla terra. Alia è progettata dal recupero di DNA umano. Il suo corpo respinge i flashback e i ricordi collettivi di generazioni che l’hanno preceduta e di cui possiede i geni che sono stati impiantati in lei. Sono immagini viscerali e vivide di eventi che Alia non è in grado di definire proprie né di collocare nel tempo, ma di cui non può altrettanto liberarsi. Tutto ciò avviene sotto il suolo della città palestinese di Betlemme. Per Dunia la città rappresenta il concetto di casa; per Alia, invece, la proposta astratta di un mondo distrutto. Dovrebbe desiderarla ma la trova estraniante; un luogo - per ora - ancora abbandonato ad una rovina tossica coperta di erbacce. Per Alia, il concetto di ‘casa’ non esiste; è trapiantato in lei artificialmente. Il suo rifugio sotterraneo è destinato a essere temporaneo, anche se rappresenta tutto ciò che abbia mai conosciuto. La sua dimora si trova da qualche parte nel futuro - e forse anche altrove -, mentre per Dunia è decisamente legata al passato. Entrambe le donne sembrano essere rinchiuse in una prigione temporale con risposte contrastanti su cosa potrebbe liberarle.
Larissa Sansour and Søren Lind. Installation view of In Vitro, 2-channel black and white film. 27 mins 44 secs, 2019. Photo by Ugo Carmeni.
In Vitro racconta il resoconto di questa sospensione temporale, in cui passato, presente e futuro collidono l’uno sull’altro. L’estetica futuristica nitida e funzionale della fantascienza che viene proposta nei quartieri sotterranei e nel vivaio si contrappone ai ricordi personali sognanti e senza tempo di Dunia e di sua figlia che, lo comprendiamo solo più tardi, è deceduta. C’è l’agghiacciante, eppur stranamente bella, natura morta post-apocalittica della casa abbandonata di Dunia che contrasta con l’immagine sgranata di Betlemme, tratta da un filmato di archivio, che documenta i convulsi eventi storici della Palestina dagli inizi del 20° secolo al 1967. Vediamo pellegrini e sacerdoti e l’iconografia religiosa della Chiesa della Natività di Betlemme, con le campane che suonano sulla piazza Manger. Secondo i Vangeli, Betlemme è la città natale di Gesù, ma estendendo questa storia sulle origini nei confronti dell’artista, è anche la città dell’infanzia di Sansour e la dimora della sua famiglia. Betlemme è una città che ha vissuto attraverso molteplici eventi turbolenti, occupazioni, invasioni e regimi militari. Qual è il valore di questi segni storici e politici, simboli religiosi e legami personali quando tutto viene spazzato e distrutto da un’ondata di olio nero viscoso, come nella sequenza di apertura del film?
Di fronte alla sala dove viene proiettato il film, la perdita di referenti è ulteriormente sottolineata dall’ installazione multimediale
Monument for Lost Time. La scultura è un’ iterazione della sfera nera che appare nel film, un deposito di ricordi. Forse, la si può vedere come la manifestazione materiale dell’assenza del presente. Alia la descrive come “[un] vuoto situato tra ciò che era e ciò che avverrà. [...] Come un buco nero.” Nel film la sfera nera sembra trasudare abbondanza di significati, al punto che Alia ne resta sopraffatta. Nonostante ciò, denudata del suo contesto filmico e recisa dalle immagini della memoria che produce e riproduce, la sfera si trasforma in una scultura rombante, incombente e impenetrabile che minacciosamente si impone su tutto il resto. Se i monumenti hanno il compito di commemorare e ricordarci di cose passate, allora questa sfera oscura cristallizza, simbolicamente, l’incapacità di evocare qualsiasi cosa. Senza dubbio, incarna il vuoto, uno spazio cavo, o il ricordo di una perdita che non può più essere definita, ma solo percepita dolorosamente come un arto fantasma ormai amputato.
Molte domande non trovano risposta nel
Heirloom. Esso ci invita a rimettere a fuoco il nostro sguardo e a chiederci, mentre calpestiamo le piastrelle prodotte a mano nella città di Nablus, in Cisgiordania, sul territorio palestinese, e poi trapiantate nel padiglione danese, cosa ci radica e fa appartenere a un contesto? Questo intervento architettonico, specifico per il luogo, incorpora i motivi delle piastrelle che figurano nel film, che non appartengono alla tradizione palestinese, ma all’
Art Nouveau degli inizi del XX secolo. In altre parole, un motivo decorativo europeo che, dopo essere stato ospitato per oltre un secolo nella villa ottomana di Betlemme dove è girato
In Vitro, è diventato originario e autenticozz. In effetti, nel padiglione danese tali piastrelle sembrano essere ‘chiaramente’ palestinesi. Indipendentemente dalla loro provenienza, turbano l’idea di rappresentazione nazionale o di qualsiasi altro tipo di rappresentazione ideologica su molteplici fronti. Come Alia, queste piastrelle sono riproduzioni ibride, e non è chiaro se siano il residuo di perdite ormai passate o, al contrario, le prime tracce di un nuovo inizio.
Heirloom accenna alla complessità di cercare rifugio, e, forse più difficilmente, alla sfida di trovare conforto nel futuro. Nel padiglione echeggiano le infauste e sempre più imminenti
minacce di un disastro ecologico e della follia ideologica ma, allo stesso tempo, viene tracciata una via di resistenza, seppur contestata, per la sopravvivenza futura.
Larissa Sansour and Søren Lind. Installation view of In Vitro, 2-channel black and white film. 27 mins 44 secs, 2019. Photo by Ugo Carmeni.
Interview
Maria Bordorff - Parte della mostra è un nuovo film dal titolo In Vitro. Possiamo aspettarci un classico della fantascienza secondo la tua maniera?
Larissa Sansour - È sicuramente legato ai miei film precedenti, certo. Si svolge a Betlemme decenni dopo un disastro climatico - o nel sottosuolo di Betlemme, per essere più precisi - dove il padrone di un vivaio è sul suo letto di morte. Racconta al suo successore più giovane la storia di quanto è successo prima che tutti si dovessero rifugiare in un bunker sotterraneo. Mentre il film scorre, il successore comprende che tutte queste storie sono già in lei come memoria personale, sebbene sia nata nel sottosuolo e non conosca il passato. In poche parole, il film tratta del trauma ereditario, dell'esilio e della memoria collettiva.
MB - Cosa intendi per "trauma ereditario?"
LS - Ho parlato con un genetista, ed è piuttosto interessante quello che sta succedendo adesso nella ricerca genetica. Alcuni comportamenti generalmente associati alla mente potrebbero essere trasmessi dal DNA. Ciò significa che fenomeni come il déjà vu potrebbero essere parte di esperienze o traumi ancestrali. Ho deciso di sviluppare ulteriormente questa idea. Così, nel film, un gruppo di scienziati ha conservato i semi per sostenere la vegetazione dopo il disastro climatico, ma ha anche protetto il DNA dei bambini morti durante l'apocalisse per usarlo - e quindi i loro ricordi - in un programma di clonazione.
MB - Un tema ricorrente nelle tue opere è l'identità nazionale e i ruoli che la storia e la memoria giocano nel costruire l'identità. Questo vale anche per l'ereditarietà?
Larissa Sansour and Søren Lind. Installation view of In Vitro, 2-channel black and white film. 27 mins 44 secs, 2019. Photo by Ugo Carmeni.
LS - Sì, molto. In Vitro, per esempio, il motivo dietro il programma di clonazione è quello di assicurarsi che il passato sia archiviato in modo sicuro e trasmesso alle nuove generazioni. Questa idea chiusa dell'identità fa riferimento alla condizione dell'esilio: le nuove generazioni nate all'estero sono cresciuti dai ricordi del luogo lasciato dalle generazioni precedenti, mentre le loro esperienze del presente sono emarginate, creando un senso di spaccatura tra le generazioni.
MB - Mettendo in scena un disastro climatico, ti stai forse allontanando dal conflitto politico tra Palestina e Israele, così presente nei tuoi lavori precedenti?
LS - Mentre il quadro è più universale, quel conflitto è ancora parte del lavoro delle caratteristiche del dialogo tra i due protagonisti, ma forse come un sottotesto più discreto rispetto ai lavori precedenti. Il film affronta la condizione di esilio e mette in discussione l'idea stessa di identità nazionale sulla scia di un'apocalisse climatica. Nel caso della Palestina, immagino che ciò che mi interessa di più sia la comprensione dell'identità quando sopraggiunge da un trauma. La psiche Palestinese è sospesa tra il passato e il futuro; tra l'esodo del 1948 e la prospettiva di uno stato Palestinese. Di conseguenza, il presente scompare. In Heirloom, c'è una scultura chiamata Monumento per il tempo perduto; è un grande monumento al vuoto del presente.
MB - Cosa ti ha fatto passare alla fantascienza avendo lavorato principalmente con il documentario per molti anni?
LS - Quando mostravo i miei film quindici anni fa, la gente pensava al mio lavoro come frutto di propaganda. Avevano questa percezione che Israele fosse l'unica nazione democratica del Medio Oriente. Quindi, mi sembrava davvero un vicolo cieco. Quello che volevo invece era abbandonare i cliché e alcuni modi di comprendere il mondo attraverso le lenti del documentario e dei media. Quando parliamo di Israele e della Palestina - e così di tanti altri posti - abbiamo idee predeterminate su come sono questi luoghi e quali siano i problemi. È diventato sempre più importante staccarmi da queste narrative e creare il mio vocabolario per discutere di questo problema.
MB - Tuttavia, alcuni dei tuoi lavori più recenti sono stati visti in termini di propaganda. In Future They Ate From the Finest Porcelain sono stati persino accusati di essere antisemiti. Non è forse permesso trattare la politica nell'arte in questo modo?
LS - Beh, quando ti trovi di fronte a queste affermazioni, all'inizio sei triste e frustrato dal fatto che tali tattiche per mettere a tacere siano ancora in vigore, ma poi ti rendi conto che le persone non sarebbero spaventate dall'arte in questo modo, o tentassero di sopprimerlo, se non fosse per il fatto che pensano che l'arte abbia una potenzialità. Voglio dire, non lavorerei con l'arte e la politica se pensassi che del mondo dell'arte non vi è alcuna utilità. Ma, penso che possa funzionare solo se funziona secondo le proprie regole.
Larissa Sansour and Søren Lind. Installation view of In Vitro, 2-channel black and white film. 27 mins 44 secs, 2019. Photo by Ugo Carmeni.
MB - In che modo?
LS - Nel caso di Nation Estate e dello scandalo che il mio nome sia stato rimosso dalla competizione al Musée de l'Élysée, il tutto si è concluso con la cancellazione del programma da parte del museo e la sospensione della sponsorizzazione di Lacoste in difesa della libertà artistica. Una dichiarazione politica forte da parte di un'istituzione che forse non voleva essere coinvolta. E a causa dello scandalo, la gente ha iniziato a comprare gli schizzi che ho fatto per il progetto - e sono stati venduti molto bene - così da finanziare il film. Realmente ho realizzato Nation Estate esclusivamente con i proventi degli schizzi. È così stravagante tutto questo.
MB - Sei forse preoccupata che la tua mostra a Venezia possa causare nuove controversie?
LS - È impossibile prevedere le reazioni al lavoro su Israele e Palestina. Le emozioni coinvolte sono molto forti, e una volta che il lavoro è là esposto, le persone interpreteranno secondo le proprie opinioni e principi. Detto questo, non credo che qualcosa in Heirloom sia abbastanza controverso per innescare una nuovo dissidio. Ma, sono preparata.
MB - E infine, cosa pensa del contesto attuale di una biennale basata sulle presentazioni per nazioni?
LS - In un certo senso, è interessante e, allo stesso tempo, piuttosto problematico. C'è così tanta passione in una mostra d'arte in cui i paesi si riuniscono, che lo trovo eccitante. Quindi, credo che la questione sia: come possiamo farlo nel contemporaneo?
Larissa Sansour and Søren Lind. Installation view of A Monument for Lost Time, 2019. Photo by Ugo Carmeni.
Padiglione della Danimarca alla 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia